Corriere della Sera - La Lettura
1981, l’esordio di Dynasty E la ricchezza cambiò volto
È vero, c’era già stata «Dallas», ma la soap — non chiamatela serie, la soap è aperta e potenzialmente infinita — che debuttò in America il 12 gennaio 1981 e in Italia l’anno dopo, cambiò tutto. Intanto il concetto di ricchezza, e la figura della donna di potere (Joan Collins nella parte rifiutata da Sophia Loren e Liz Taylor), e poi l’attenzione all’omosessualità. (Ri)guardarla aiuta a capire anche Donald Trump
In fondo, lei aveva solo voglia di involtini primavera. Ma lui fa preparare il jet privato, le porge il braccio e insieme si mettono in volo per raggiungere il miglior ristorante di San Francisco. «E se tu avessi avuto voglia di una cena francese saremmo andati a Parigi», aggiunge guardandola come solo Blake Carrington sapeva fare. Il suo era lo sguardo sentimentale dei ricchi che dalla ricchezza non distillano tanto il cinismo quanto il desiderio di godersi un po’ la vita, arrivati nei pressi dei sessant’anni e con i capelli grigi. Per esempio, la libertà di corteggiare la segretaria quarantenne, bionda e gattamorta in sonno, certamente devota.
E così, di Dynasty (l’originale, non il reboot oggi su Netflix), più che la trama ci ricordiamo certi dettagli: il diamante grande quanto una noce che lui le regala nel chiederla in sposa; le tute-pantalone guarnite di strass che Krystle — la segretaria Cenerentola — indossa già a metà mattina, quando appare in cucina truccata e cotonata per dare le disposizioni sul pranzo; il cappello con veletta della «perfida Alexis», una divisa più che un accessorio, come il bocchino per la sigaretta. Sì, era il 1981 e nel nostro immaginario si insediavano «i ricchi».
Per amor del vero, i petrolieri c’erano già: Dallas ha debuttato nel 1978. Ma in Dynasty, che prese il via il 12 gennaio di quarant’anni fa sulla rete Abc (in Italia arriverà l’anno dopo, 1982), la ricchezza era qualcosa di più. Era più plastica, più pittorica, decisamente più sfrontata. «Perché era necessaria alla storia stessa», puntualizza Daniela Cardini, docente di Linguaggio televisivo all’Università Iulm di Milano. «L’America si lasciava alle spalle la crisi petrolifera, la gente voleva una sola certezza: non tornare mai più in difficoltà economiche». Non era tanto, dunque, il desiderio di essere ricchi, quanto la paura di tornare poveri. E così, tra la fine degli anni Settanta e i primi Ottanta, due grandi affreschi televisivi inoculano nel mondo intero il bisogno di vedere la ricchezza, darle una forma, dei nomi, una storia.
Dallas e Dynasty. Il Texas da una parte e il Colorado dall’altra, ma sempre di petrolieri parliamo e sempre di famiglie in conflitto. Come notò Beniamino Placido nel 1986, in un articolo su «la Repubblica», le grandi saghe familiari sono la chiave narrativa migliore per queste storie di ricchi. Intrecciando il parentame c’è più confronto e, soprattutto, emergono giocoforza le carte mal riuscite: la nipote svitata, la moglie alcolizzata, il cugino troppo fragile per il potere che gli tocca in destino. Ecco, potremmo esserci anche noi allora dentro quel microcosmo dove nessuno lavora e dove non si parla mai di politica — e quando qualcuno di quel mondo, molti anni dopo, lo farà, diventerà presidente degli Stati Uniti.
Un microcosmo surreale, certo. Però inDynasty,os servarono Fruttero&Lu centini in uns aggio inseritone Il cretino è per sempre (Mondadori), «il lusso avrà un tono più sedimentato e sofisticato, ci sarà una biblioteca debitamente “di figura” con caminetto e dorsi dorati ma dove non è inconcepibile che uno dei personaggi s’installi una volta al mese a leggere un libro».
Sempre se avanza tempo tra un colpo basso e l’altro tra i Carrington e i Colby. Blake Carrington è il patriarca, il magnate del petrolio da cui tutto ha inizio. Sposa Krystle, vincendo le (abbastanza flebili) remore di lei davanti alla prospettiva di diventare così ricca. Con buona pace di Fallon, la figlia di Blake avuta dal precedente matrimonio: e d’altronde la ragazza ha già il suo bel daffare con gli uomini, autista compreso. Con l’altro figlio, Steven, Blake cerca comunque un dialogo e anche quando il ragazzo rivela la sua omosessualità il padre vacilla ma insegue appigli in un’eventuale soluzione bisex, più rassicurante. Certo, poi ammazzerà Ted, l’amante di Steven. «Ma è stato un incidente», giurerà al processo.
Vendette, panni sporchi, soldi. Insomma, se le prospettive fossero rimaste queste ci saremmo sorbiti una soap opera pruriginosa e basta («Non chiamatele serie: nella soap ci sono puntate aperte e potenzialmente la storia è infinita», dice Cardini). Un feuilleton sui ricchi e poco più. Ma dietro Dynasty c’era uno degli uomini più visionari della storia della tv: Aaron Spelling. E la leggenda narra che fu il produttore ad avere l’idea che cambierà non solo la soap ma anche, un po’, le nostre vite.
E l’idea si chiamava Alexis Carrington Colby. La prima moglie di Blake. L’allora quarantottenne Joan Collins accettò una parte che era stata rifiutata da Sophia Loren e da Liz Taylor. Forse anche lei aveva intuito, come Spelling, che non si trattava di piazzare un volto noto per alzare gli ascolti deludenti, ma di inventare radicalmente un personaggio. Alexis appare all’inizio della seconda stagione ed esordisce come testimone al processo che vede Blake imputato per omicidio. «Sin dall’entrata in scena si capiva che la televisione ci stava proponendo un nuovo modello, un anti-eroe femmina. Per la prima volta vedevamo una donna cattiva, sì, ma protagonista», dice Cardini. I tempi erano maturi e l’estetica aiutava: il trucco pesante, le spalline, il vitino stretto. Non era una donna, ma una guerriera armata, fiera del suo cinismo, spregiudicata e pronta a ingaggiare il conflitto con «l’altra donna», la bionda remissiva e sottomessa al boss. Con Alexis l’audience di Dynasty prese a crescere e non si fermò se non con la fine della soap opera, nel 1989.
«Io sono il boss», sembrava dire Alexis ogni volta che metteva a segno un colpo contro i Carrington. «Interessante come quel modello poi sia stato ripreso per raccontare le donne in ascesa sul lavoro. Un modello che in fondo è vivo ancora oggi», commenta Giorgio Grignaffi