Corriere della Sera - La Lettura
Psicoanalisi, sei assediata! Esci fuori e va’ nel mondo
L’inconscio ha dominato le arti nella prima metà del Novecento e tutti noi in qualche misura sappiamo farci i conti. Ma di Freud s’è persa l’empatia per il dolore; non solo, la sua disciplina — scrive Massimo Recalcati nel nuovo libro — vive paralizzata nel gergo e nelle pratiche: dovrebbe invece percorrere anche altre strade, seguire l’esempio di una figura come
Elvio Fachinelli che attingeva alla storia, alla letteratura, all’amore per l’arte...
Come i libri di Elvio Fachinelli, anche la Critica della ragione psicoanalitica di Massimo Recalcati (Ponte alle Grazie) si apre su due fronti: da un lato la teoria e la pratica degli analisti, al cui interno si è accumulata nel corso di oltre un secolo una ortodossia; dall’altra l’aperto, il mondo.
Il primo ambito è limitato: per quanto in certi periodi (Recalcati indica l’ultimo, il ventennio 1960-1980) la psicoanalisi sia stata di moda, le statistiche della malattia mentale dicono che negli Stati Uniti, dove si ricorre più che in qualunque altra regione al mondo alla psicoterapia, si arriva a picchi del 18% della popolazione.
Ma è naturalmente il secondo ambito, quello in cui si dispiega l’influenza culturale di Freud, che pone domande sul ruolo che la psicoanalisi ha oggi per noi. L’irruzione dell’inconscio ha dominato le arti nella prima metà del Novecento, dalla pittura di Max Ernst e Salvador Dalí ai romanzi di James Joyce e Italo Svevo fino al teatro di Samuel Beckett. Una gran parte dei film di Alfred Hitchcock sono autentici casi, non solo quelli quasi didascalici come Psycho o Marnie, ma anche i più metafisici come Gli uccelli.
Nei tre saggi che dedica a Elvio Fachinelli (Luserna, Trento, 29 dicembre 1928 -Milano, 21 dicembre 1989), Recalcati cer
ca la vena d’oro di quell’impatto, quando la psicoanalisi portava una sorpresa tale da spaventare, sovvertire, aprire. Lamenta a ragione, anche qui seguendo la lezione di Fachinelli, che la psicoanalisi sia divenuta al contrario un richiamo all’ordine, una strategia di difesa piuttosto che di innovazione. Forse il caso più noto è quello che apre La freccia ferma (1979) dove Fachinelli racconta dell’ossessivo che si recava alle sedute scomponendo i gesti (come parcheggiava la macchina, come scendeva dall’auto, in modo da ripercorrere a ritroso ogni gesto e annullare l’evento arrivando al punto di rifare tutto il percorso verso casa in retromarcia!). Un caso in cui Fachinelli sembra suggerire che l’analizzando spieghi l’analizzante, raccontando un tipo di nevrosi dove il discorso psicoanalitico scompare in un autoannullamento. Siamo insomma lontani dalla generazione di Jacques Lacan, Gilles Deleuze, Félix Guattari, Alfred Hitchcock, Alberto Moravia o JeanPaul Sartre, per cui il freudismo era senso comune e fioriva in tante invenzioni culturali.
Questa crisi era stata preconizzata anche altrove da Elvio Fachinelli che, come Recalcati ricorda in diversi punti, descriveva alcuni aspetti incancreniti della pratica psicoanalitica (terapie che duravano decenni, la durata arbitraria delle sedute lacaniane, la difficoltà di misurare gli esiti, eccetera) quasi descrivesse un paziente moribondo. A queste constatazioni sulla pratica analitica, Fachinelli opponeva la sua attività editoriale, sia come autore sia come editore. Ai volumi a cui Recalcati dedica i tre saggi del suo testo, aggiungerei Uma tentativa de amor. Portogallo estate 1975 per avere una idea più allegra e aperta dell’uomo: un libro che non parla di psicoanalisi, ma è invece un diario vissuto nella rivoluzione portoghese, la rivoluzione dei garofani, come venne chiamata allora.
Perché la genialità di Fachinelli era nell’accettare la storia, la letteratura, l’amore per l’arte. Era lì che mostrava un guizzo ilare e aperto. Oggi a me pare ci resti molto più Fachinelli quando rileggiamo i suoi libri nel contesto dell’Italia di allora che non all’interno della storia della psicoanalisi. Piuttosto che non nel contrasto tra il lacanismo sovversivo, la dissidenza del desiderio che lega Fachinelli alle macchine desideranti di Deleuze e Guattari, e il freudismo ortodosso, è in quello che pensava di quel che accadeva fuori dalle sedute che si vede a che cosa Fachinelli facesse attenzione. Sono emblematiche ad esempio alcune note da un seminario di formazione analitica tenuto a Trento in pieno ’68, dove il gruppo inizia a percepire tutto l’esterno come una minaccia. «Dunque il gruppo chiuso, ortodosso per così dire, e dall’altra parte il gruppo aperto agli altri... che comporta un rischio, un pericolo di disgregazione», annota Fachinelli dell’esperimento, e poco più avanti: «Militarizzare il gruppo: un covo di persone che si armano contro l’esterno».
Difficile non pensare leggendo queste righe che proprio a Trento, di lì a poco, Renato Curcio e Mara Cagol avrebbero fondato le Brigate rosse, e in generale alla tendenza settaria della sinistra extraparlamentare post-sessantottina che raggiunse dei momenti surreali, come i matrimoni maoisti parodiati da Nanni Moretti nella scena iniziale di Il caimano.
Il familismo politico potrebbe essere un tema ghiotto per intellettuali psicoanalisti ma forse a quel punto diventerebbero semplicemente storici, filosofi, scrittori. Fachinelli segue proprio questo percorso, davvero dissidente e poco ortodosso. Pubblica tutto quel che nasce intorno a Radio Alice, varie cose sui dissidenti sovietici, cerca e fa emergere quel che spariglia le carte di una sinistra piegata dal richiamo all’ordine berlingueriano. È uomo che sceglie innanzi tutto quel che gli piace, e nella psicoanalisi un ambito più umano: si occupa di pazienti e di gente che sta male, come Freud. Come Freud, ha empatia per la sofferenza. Dov’è che si è persa allora l’umanità della psicoanalisi? Che cosa le è accaduto?
Una certa attenzione all’inconscio è diventata ormai una seconda natura in tutti noi. Secolarizzati, e quindi senza più un vincolo sociale che includa il patto sull’ignoto stabilito dalla religione, ci ascoltiamo gli uni con gli altri sorridendo dei lapsus freudiani, parlando di sesso molto più di una volta e molto più apertamente. Queste aperture non sarebbero forse emerse senza il contributo della psicoanalisi, ma la vera domanda che Recalcati ci pone è: la psicoanalisi ha ancora questo impatto?
Forse l’ortodossia che Recalcati descrive, paralizzata nel gergo e nelle pratiche, dovrebbe percorrere anche altre strade, come fece Fachinelli. Perché, invece di riflettere così ossessivamente sulla propria storia, non si nutre di classicisti come Eric Dodds o Sante Mazzarino, che sui miti e la critica dei miti hanno scritto in modo tanto illuminante? O di filosofi come Giorgio Agamben? Di poeti e artisti, così come poeti e artisti si sono nutriti di Freud per tanto tempo?
La sensazione che si ha quando si finisce di leggere il libro di Recalcati è di un ambito disciplinare assediato, che ha iniziato a fare la conta dei viveri e dell’acqua, perché deve resistere. Se il suo problema è resistere non possiamo non chiederci freudianamente: a che cosa? Recalcati suggerisce una risposta inquietante: a Freud!