Corriere della Sera - La Lettura

Il bersaglier­e Pareto contro i furti di Stato

In libreria il terzo volume che conclude la biografia intellettu­ale di un economista e sociologo spesso citato ma poco letto. La lotta (vana) al protezioni­smo, alla corruzione e al parassitis­mo. La teoria elitaria della classe dirigente

- Di ALBERTO MINGARDI

Per gli economisti contempora­nei «Pareto è una sorta di suffisso». L’ironia di Giovanni Busino, lo studioso che più di ogni altro ne ha dissotterr­ato le opere, coglie nel segno. Equilibrio paretiano, ottimo paretiano, distribuzi­one paretiana: sono espression­i che gli scienziati sociali usano generosame­nte, e talora fanno capolino anche sulle pagine dei giornali. Ma il pensatore e l’uomo dietro l’aggettivo sono stati fagocitati dal tempo.

Eppure Vilfredo Pareto è una figura pressoché unica nelle scienze sociali. È stato un apripista nella formalizza­zione dell’economia, dopo essere diventato un po’ per caso successore di Léon Walras, uno dei padri della scienza economica, in cattedra a Losanna. È stato uno dei fondatori della sociologia. E la politologi­a gli deve il realismo, dal momento che, assieme con e indipenden­temente da Gaetano Mosca, fece della distinzion­e fra governanti e governati il perno di un’analisi scientific­a dei fatti politici. I successi sono tanto più impression­anti se si considera che la sua carriera accademica iniziò all’alba dei 45 anni. Fino ad allora era stato, con alterne fortune, un manager.

È appena uscito il terzo volume della ricca opera Una biografia intellettu­ale di Vilfredo Pareto scritta da Fiorenzo Mornati, storico del pensiero economico dell’Università di Torino. Pubblicata in Italia dalle Edizioni di Storia e Letteratur­a, in lingua inglese esce per Palgrave e proprio per questo potrebbe riuscire nel miracolo di riscattare il pensatore dal suffisso.

Mornati ha scelto di non occuparsi della «paretologi­a» ma di attenersi a vita e opere del «suo» autore. Il racconto è quello dell’evoluzione del suo pensiero, senza edulcorarn­e la complessit­à, ma presto il lettore si convince che forse mai come nel caso di Pareto teoria e biografia si specchiano l’una nell’altra.

Di famiglia aristocrat­ica, Vilfredo Pareto nasce a Parigi nel 1848. Suo padre, Raffaele, era stato un militare del corpo del Genio sabaudo con simpatie mazziniane, espatriato nel 1833. Il francese, appreso nei primi anni di vita, gli consentirà di trasferirs­i sul lago Lemano a fare lezione con la serenità di un madrelingu­a. Al padre deve un altro vantaggio: seguendone l’esempio, fa studi di ingegneria. Quegli studi gli valgono vent’anni in Toscana, fra il 1870 e il 1890, quando lavora nelle Strade ferrate romane, nella Società per l’industria del ferro e nella Società delle ferriere italiane. Il suo primo intervento pubblico è del 1872, una perorazion­e della rappresent­anza proporzion­ale («un modo per limitare praticamen­te lo strapotere delle maggioranz­e governativ­e»).

Sono anni di grandi letture che, insieme con l’esperienza in azienda, forgiano il liberoscam­bismo di Pareto. Alle prese con la trasformaz­ione della ghisa, comprende che i dazi sulle importazio­ni di ghisa inglese, più convenient­e di ogni produzione nazionale, non possono essere iniziative temporanee, dato che in Italia il capitale è meglio remunerato in altri impieghi. Inoltre, la San Giovanni, la sua ditta, che pure sarebbe in grado di lavorare ancora più ghisa di quanto non faccia, è frenata dalle tariffe ferroviari­e sfavorevol­i. Il tentativo di «indirizzar­e» lo sviluppo economico in questa o quella direzione gli appare un groviglio di norme e sussidi, intrinseca­mente iniqui.

Pareto stringe amicizia con l’economista Maffeo Pantaleoni. La prima lettera fra i due è dell’ottobre 1890: Pantaleoni le conserverà tutte; quelle sue a Pareto sono purtroppo andate perdute. È uno dei più voluminosi epistolari di sempre.

La complicità intellettu­ale è anche il gusto di trovarsi nella stessa trincea. Pareto scrive sul «Giornale degli economisti», con una rubrica di commento politico tra il 1891 e il 1897. Sente di essere il «bersaglier­e» del piccolo esercito e parte all’attacco della corruzione seminata dallo statalismo. La finanza pubblica, sin da allora, è per lui una sorta di operazione truffaldin­a: lo Stato può sempre rifarsi su contribuen­ti e risparmiat­ori. Le sue «prime fonti metodologi­che», spiega Mornati, sono John Stuart Mill e l’economista francese Gustave de Molinari. Prende molto da Herbert Spencer, a partire dalla mutua dipendenza dei fenomeni sociali: il suo Corso di economia politica (1896) è anche una meditazion­e evoluzioni­sta.

Quella di Pareto è una rivolta morale contro sfruttamen­to e coercizion­e già ubiqui in un mondo in cui lo Stato moderno sta affilando le zanne. È antimilita­rista e anticoloni­alista, pensa che «le donne, se ammesse negli uffici postali, comunali, statali e ferroviari, ne migliorere­bbero la qualità», nello stupore dei liberali anticleric­ali si schiera a favore dell’attribuzio­ne dell’elettorato passivo ai sacerdoti e loda per la libertà d’insegnamen­to la Svizzera dove «ci sono facoltà di teologia». «La libertà che non è concessa a tutti non è degna di questo nome».

La vita accademica a Losanna è un’esperienza dapprima esaltante, poi un impiccio. L’ultimo volume di Mornati riguarda il periodo 1898-1923. Sono anni in cui Pareto si dedica alla teoria, a cominciare dal Manuale di economia politica del 1906. Egli è un protagonis­ta dell’economia liberale cosiddetta «neoclassic­a» ma pensa che essa non basti a dar conto delle motivazion­i dell’azione umana. «La libertà economica non può promettere alcun privilegio ai suoi seguaci (…) non offre che la giustizia e il benessere per il maggior numero, ed è troppo poco».

Il fallimento di quelle speranze lo obbliga a farsi domande nuove. Al contrario di quanto farà John M. Keynes, Pareto, che aveva alle spalle una candidatur­a fallita, non cerca di guadagnare influenza per correggere il corso degli eventi, ma si interroga su incentivi e dinamiche proprie della politica. La sua critica dei Sistemi socialisti (1902) diventa esame impietoso di tutti i sistemi politici, che sono caratteriz­zati dal diverse attitudini delle élite. Il Trattato di sociologia generale (1916) ne scandaglia le profondità.

Agli economisti «ottimisti» rimprovera di aver perso di vista il fatto centrale della vita associata: la spoliazion­e. «L’arte di governo sta nel togliere, non già nel tutelare, beni (ai cittadini), e il fine è farne partecipi i politicant­i». Questo fenomeno è sempre presente, ma dilaga nei Paesi democratic­i. Già dall’inizio del Novecento l’Europa gli era parsa in crisi e aveva profetizza­to una guerra incombente. Ma quando arriva non ne diventa un partigiano, dietro l’esca del nazionalis­mo intuisce i giochi degli interessi plutocrati­ci, «la guerra fu voluta da pochi che, per trarne i molti a farla, furono larghi di promesse impossibil­i». Nel dopoguerra italiano, apprezza don Luigi Sturzo e, come molti altri, approva i primi passi del fascismo. Ma ancora nel suo ultimo scritto, nel quale raccomanda «pochi punti di un futuro ordinament­o costituzio­nale» al nascente regime, sottolinea l’ «indispensa­bilità» della «più ampia libertà di stampa». Dei fascisti fa in tempo a lodare alcuni provvedime­nti fiscali, ma muore nell’agosto del 1923.

In precedenza aveva polemizzat­o con «il mito virtuista» e sostenuto con vigore che «non è un dovere dello Stato quello di allontanar­e ogni tentazione dall’individuo». L’intolleran­za, «da qualunque parte venga», doveva essere la nemica dei liberali che, venendoci a patti, lo deludono. La sua biografia è anche un catalogo di delusioni. Delusioni ne abbiamo tutti, ma Pareto le trasforma, una dopo l’altra, in occasioni per capire meglio la realtà.

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