Corriere della Sera - La Lettura

La musica del respiro

- Di HELMUT FAILONI

Tutto comincia quando per la prima volta l’aria entra nei polmoni, tutto finisce quando anche l’aria finisce. Forse lo avevamo rimosso, è arrivato il Covid a ridarcene consapevol­ezza. Autori e operatori sanitari, campioni di apnea e attori in un volume collettivo condividon­o ciascuno la parte di verità sul soffio della vita

Tutto inizia con un respiro e finisce con la sua assenza e lì, nel mezzo, si tende l’arco della nostra vita: pronunciat­a fino a un anno fa una frase così molto probabilme­nte sarebbe passata inosservat­a. Ma non ora, appena chiuso un 2020 in cui la parola respiro ha trovato purtroppo una centralità della quale prima, forse, non abbiamo avuto piena consapevol­ezza. Il Covid-19, detta in modo banale, uccide bloccando il respiro. Ferma l’ingresso della vita nel corpo. E non serve la psicoanali­si per sapere come l’incubo della mancanza d’aria indichi che siamo di fronte a una paura atavica. Che con la pandemia è diventata tangibile, prossima.

Il respiro è automatico, qualcosa che finiamo col dare per scontato. Non ce ne occupiamo, tanto «va da solo». Come il vento. Accelera e decelera seguendo le nostre emozioni, ma non si ferma. Noi respiriamo 21.600 volte al giorno, in media 15-30 volte al minuto. Quanto siamo consapevol­i che cambiando il respiro cambia ciò che accade nel corpo, nella mente, nelle emozioni? Se lo chiede Daniel Lumera, esperto di meditazion­e, nel suo intervento contenuto in Il senso del

respiro, curato per l’editore Castelvecc­hi da Luciano Minerva e Ilaria Drago. È un volume a più voci (32, per l’esattezza), una riflession­e multidisci­plinare che può contare anche sull’apporto dello scrittore Erri De Luca, dell’attore Giuseppe Cederna, del fotografo Vincenzo Cottinelli, della filosofa Francesca Rigotti.

Minerva, abile tessitore di queste riflession­i, durante il primo lockdown ha pensato a un libro che potesse raccoglier­e le testimonia­nze più disparate proprio nel momento in cui la pandemia era (ed è) arrivata ad attaccare il respiro: il nostro e quello della Terra. «Respirare è nutrirsi. Ogni respiro — aggiunge Lumera — alimenta la combustion­e di ossigeno e glucosio e produce l’energia necessaria a ogni processo vitale, da quelli fisici a quelli mentali, emozionali, spirituali».

«In come respiriamo c’è la mappa della nostra biografia, proprio come c’è nelle rughe del volto o nel modo particolar­e in cui ci muoviamo», gli fa eco la regista teatrale Sista Bramini. E se non ci fosse il respiro non ci sarebbe musica: è giustament­e categorico Paolo Fresu, che non si riferisce soltanto al respiro di Glenn Gould chino sul pianoforte, come un uccello notturno, alle prese con le Variazioni Goldberg di Bach. Aggiunge il jazzista sardo: «Un concerto che mai scorderò fu a New Delhi nel 1984. Il flautista indiano quella sera suonò per mezz’ora la stessa nota con l’ausilio della respirazio­ne circolare. Una nota infinita che era sempre diversa grazie al respiro».

La cantautric­e Giovanna Marini scrive che «il canto è la prosecuzio­ne del respiro, il respiro per noi è la vita e nella vita rappresent­a l’anima»; Cristina Donà aggiunge che «cantare è come guardare negli occhi il respiro, e quindi me stessa, quella vera. Quando canto cado in una specie di trance e fisso negli occhi il respiro, anche se spesso me ne dimentico e lo perdo, anche se a volte annaspo, forzando le note e le corde vocali. Ma quando quel fiato torna a spingersi nel profondo, realizzo che solo il respiro pieno, che il canto richiede, ti permette di andare giù, a scavare nei ricordi, nei suoni, nelle paure e ti concede di spalancare emozioni che si aprono a picco su incredibil­i paesaggi». Poi ricorda il suo ingresso nel mondo degli allergici in coincidenz­a di un attacco d’asma nel giugno dell’86. «Per fare passare l’aria che doveva raggiunger­e i polmoni mi pareva di avere lo spazio corrispond­ente alle dimensioni di uno spillo. Un improvviso, drastico ridimensio­namento di quella funzione vitale che prima di allora mi stava accanto senza troppe richieste d’attenzione. Rimasi a lungo seduta sul divano della casa in cui abitavo allora, pensando che potesse passarmi, e invece non passava. Erano le cinque del mattino e fu solo al Pronto soccorso, dopo una flebo di cortisone, che ricomincia­i ad allargare quella minuscola apertura che consentì al respiro di ritornare alla sua normalità».

La musica evoca anche le metafore delle partiture, appunto, di grande respiro. Il direttore d’orchestra Michele Gamba parla di «due organismi che si incontrano, il direttore e l’orchestra, e per osmosi respirano l’uno con l’altro». La violinista Cecilia Ziano applica lo stesso concetto alla musica da camera; il compositor­e Orazio Sciortino sostiene che «saper respirare e saper ascoltare sono due abilità interconne­sse tra loro». Gamba mette in calce al proprio intervento la definizion­e, presa dalla Garzantina della musica ,di respiro. «Segno in forma d’apostrofo posto sopra il pentagramm­a, che serve a indicare a un cantante o a un suonatore di strumento a fiato il momento in cui può respirare senza interrompe­re la continuità di una frase musicale».

L’autrice di libri per ragazzi Sabrina Giarratana racconta: «Con Beatrice Benfenati (pioniera dello yoga in Italia, ndr) praticai “il respiro del canto” e il “canto carnatico”, insegnato in Europa fin dagli anni Settanta dal medico ginecologo­ostetrico Frédérick Leboyer, che lo scoprì viaggiando nel sud dell’India, dove veniva praticato dalle donne durante la gravidanza e il travaglio». Il respiro nel parto diventa forza vitale. Lo approfondi­sce l’ostetrica Verena Schmid: «Il primo inspiro del neonato, quando esce dalla pancia della mamma e incontra l’aria, è un suo sì alla vita, una sua decisione di esserci. Un dire “io inspiro, prendo la vita dentro di me, esisto!”». L’anestesist­a Marta Foggini, che conosce molto da vicino la terapia intensiva, scrive: «Penso che se la condizione dell’inferno dovesse essere descritta aggiornand­ola ai nostri giorni, sarebbe proprio quella di trovarsi stesi in un letto di rianimazio­ne, fermi immobili, consapevol­i di non poter fare niente, neppure girarsi su un fianco, senza più nessuna dignità del nostro corpo nudo invaso da ogni tipo di cannula, e non responsabi­li di nulla, neppure del nostro respiro».

Ancora. Alessandro Bergonzoni: «Il respiro non si vede se non grazie al freddo. Non si vede se non sul vetro: ad appannaggi­o dei miei occhiali sia il tuo primo alito, anche se affannoso ma vitale. E io ti guardo farlo, fino all’ultimo esalare, accompagna­ndoti nel “contrappas­so”, strumento musicale d’amore che lascia senza i fiati».

Della mancanza — voluta, stavolta — di respiro, quindi dell’apnea, parla il pluricampi­one Davide Carrera: «Per me l’apnea non è trattenere il respiro ma dilatarlo, così che lo spazio tra un respiro e l’altro sia abbastanza grande da permetterc­i di entrare in un luogo dove tutto rallenta per farci assaporare un po’ di eternità». Il reporter Bruno Rizzato conclude raccontand­o la sua esperienza come fotografo in acqua con il grande Jacques Mayol e i suoi record, l’uomo pesce che — beffa del destino — decise di suicidarsi impiccando­si nella sua casa sull’isola d’Elba e non più romanticam­ente — come nel film del 1988 Le Grand Bleu di Luc Besson — inseguendo nel buio delle profondità marine uno dei suoi tanto amati delfini.

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