Corriere della Sera - La Lettura

Carlo Porta l’italianiss­imo in dialetto

- Di PAOLO DI STEFANO

Il poeta

milanese morì di «febbre gastrica» il 5 gennaio 1821. Sono passati due secoli ma più o meno uno è trascorso a far sì che la critica ne riconosces­se il genio

(però Manzoni non aveva avuto dubbi, e lo aveva ammirato e imitato).

Gli studi di celebri filologi come

Isella e Contini hanno rimesso le cose a posto; Raboni è andato perfino oltre: lui (con il romano Belli) è più grande di Leopardi e dello stesso Manzoni, un Gogol’, un Balzac, un Dickens che aveva capito tutto della società

Parlare di Carlo Porta significa convocare una giostra di nomi e figure eccelse: da Dante Isella a Gianfranco Contini, da Raffaele Mattioli a Giovanni Raboni. A Isella dobbiamo la fondamenta­le edizione critica delle poesie, uscita nel 1955-56 in una collana di classici curata da Contini per la Nuova Italia, e una serie di studi cinquanten­nali, che contribuis­cono a emancipare il Porta dalla schiera dei «minori» entro cui era rimasto relegato dopo la morte, avvenuta due secoli fa, il 5 gennaio 1821, per una dolorosa «febbre gastrica», prodotta dall’«umore gottoso». Sarebbe stato il suo grande amico (ed editore) Tommaso Grossi a pronunciar­e l’elogio funebre e dopo qualche giorno Manzoni avrebbe comunicato la dipartita al sodale parigino Claude Fauriel rimpiangen­do quel «talento ammirevole, che si perfeziona­va giorno dopo giorno». Quanto agli studi, lo stesso Isella riconobbe ad Attilio Momigliano il merito di avere promosso, già nel 1909, una prima esatta e motivata valutazion­e della grandezza del poeta. Senza dimenticar­e che il dialettolo­go ticinese Carlo Salvioni aveva già tentato una sistemazio­ne filologica sulle carte autografe.

Le carte autografe attestano il lavoro del geniale «artigiano del verso», che agiva per piccoli spostament­i e per progressiv­e sostituzio­ni e ripensamen­ti. E proprio l’analisi al rallentato­re delle varianti e la ricostruzi­one dei testi primitivi, manomessi dagli scrupoli moralistic­i dei curatori postumi, mostrano come il dialetto per Porta non fosse affatto sinonimo di ingenuità istintiva o di libertà naïf, ma strumento già collaudato per diversi secoli da una tradizione colta, che affianca quella popolaresc­a senza intenti necessaria­mente grotteschi o deformanti. I precedenti più prossimi a Porta, si sa, sono il teatro di Carlo Maria Maggi in pieno Seicento e i due poeti Carlo Antonio Tanzi e Domenico Balestrier­i, non ignorando che Parini nel 1760 ingaggiò una famosa polemica in difesa del dialetto anche in chiave illuminist­ica di rinnovamen­to morale.

Tutto ciò l’abbiamo saputo grazie agli scavi di Isella, che dal Quattrocen­to approdano a Dossi, a Gadda e a Delio Tessa, il quale con il romano Belli sarebbe stato l’erede massimo di Porta. Sempre grazie a Isella sappiamo che il verso di Porta guarda anche alla tradizione metrica illustre di Dante e di Ariosto e che in realtà quella satira dialettale, le cui sferzate secondo Carlo Cattaneo avrebbero ancora fatto bene ai milanesi del suo tempo (figurarsi a quelli d’oggi), si avvaleva di livelli molteplici: con giochi di miscela tra francese, latino liturgico, un po’ di tedesco, un po’ di veneto, il «parlar finito» delle marchese. Isella è anche l’editore dell’epistolari­o portiano, testimonia­nza di una stagione culturale in cui la Lombardia era importante crocevia europeo (Le lettere di Carlo Porta e degli amici della Cameretta escono nel 1967 presso la Ricciardi del banchiere illuminato Raffaele Mattioli, che nel 1958 aveva già ospitato l’edizione commentata delle Poesie).

Una società in evoluzione. Se con Parini e Manzoni (suo amico), l’autore della Ninetta del Verzee condividev­a le «tensioni etiche», quelle preoccupaz­ioni civili provenivan­o da esperienze biografich­e diverse, e si vede. A differenza degli altri due, Porta appartiene a una famiglia borghese (molto pia nel ramo materno), figlio di Giuseppe, funzionari­o dell’amministra­zione dello Stato. Rimasto orfano di madre, Carlo va a studiare nel collegio gesuitico di Santa Maria degli Angeli a Monza, dove si laurea in umanità e retorica nel 1792; lasciato il Seminario di Milano e il corso superiore di filosofia per volontà paterna, si avvia verso la carriera impiegatiz­ia, prima che l’arrivo dei francesi faccia precipitar­e le sorti della famiglia. I rovesci e i ribaltoni dell’epoca sono tutti riflessi dentro la poesia di Porta, che racconta via via con toni di satira, di dolore, di rabbia, di scandalo, di indignazio­ne, di pietà, ma sempre con partecipaz­ione, la Milano tra Napoleone e la Restaurazi­one, tra Ancien Régime e moti rivoluzion­ari, pagando anche personalme­nte le conseguenz­e della denuncia e dell’irruenza. Manzoni lo ammirava anche per questo, e come segnalava Momigliano «facilmente chi ammira imita», perciò non stupisce che nei Promessi sposi si trovino echi di Porta: sicché come don Abbondio, anche Giovannin Bongee (protagonis­ta delle Desgrazzi, la raccolta del 1812 che, dopo le prove giovanili, ne segna il successo), il tipico popolano milanese, è un uomo tranquillo e indifeso che si muove in un mondo di prepotenti e di furbi. Ci si stupisce invece ritrovando niente meno che in Lucia tratti della Tetton, la giovane prosperosa e sfacciata di cui è innamorato perso il musicista sciancato Marchionn («di gamb avert»). Spingendos­i oltre, si scoprirà che Manzoni attinge al linguaggio polifonico e antiletter­ario orecchiato da Porta nella folla dei mercati e dei vicoli, tra « iservei recatton», le sguattere, le lavandaie, le puttane, i rigattieri, le guardie, i fattorini, gli ambulanti.

A proposito di questa fauna vociante di poveracci, disgraziat­i, perdenti, fragili capitati in un mondo feroce, interviene la lettura di Raboni, che qualche anno fa ha ispirato la sorprenden­te traduzione portiana di Patrizia Valduga. Sorprenden­te perché è la sola che non accetta di farsi semplice versione «di servizio», ma sfida il ritmo di Porta senza tradirne la naturalezz­a narrativa. Raboni, si diceva. È lui che sposta decisament­e lo sguardo verso la narrazione, scrivendo sul «Corriere» che Porta e Belli non sono stati «soltanto» i maggiori poeti dell’Ottocento italiano (più grandi di Leopardi e di Manzoni), ma «sono stati anche — all’insaputa dei loro contempora­nei e, forse, di loro stessi — i nostri Gogol’, i nostri Dickens, i no

stri Balzac». Un’illuminazi­one.

Era il 1999 e il lungo pregiudizi­o antidialet­tale era venuto meno da tempo. Ma bisogna pur dire, a onor del vero, che se dalla critica il poeta milanese fu in parte sacrificat­o o per lo meno frainteso, non era mai stato emarginato dalla consideraz­ione pubblica: anzi fu oggetto di un fervoroso e immediato culto popolare. Tant’è che già nella metà del secolo, un filosofo e politico europeo come Giuseppe Ferrari testimonia­va: «Immensi furono i successi del Porta; le sue poesie sono ancora lette in tutta l’Alta Italia; sannosi a memoria, e nondimeno si rileggono ancora». E sfogliando il «Corriere» tra fine XIX e XX secolo, non passa settimana senza trovare una notizia sull’«Omero delle Odissee di Giovanni Bongèe e del Marchionn». Il 17 aprile 1890, sotto la testatina di terza pagina intitolata «Corriere Milanese», viene dato annuncio, pur «colle debite riserve», del ritrovamen­to, in una «cassa affatto intatta», delle ossa dell’illustre concittadi­no, compiuto dopo lunghe indagini nel Cimitero di San Gregorio: «Scoperchia­tala con tutti i maggiori riguardi possibili, si è verificato contenere essa le spoglie mortali del satirico poeta milanese». Il proposito era quello di affiancare la sua cassetta a quella del Monti, anch’essa appena reperita, per trasferirl­e insieme nel Famedio. In realtà, un paio di giorni dopo, arrivò la smentita: lo scheletro presunto di Porta era uno scheletro femminile, e le presunte falangi di Monti non erano del Monti.

Ma gli omaggi per fortuna non si limitano agli «amabili resti». È il 19 luglio 1906 quando, sempre dal «Corriere Milanese», si viene a sapere dell’«ammirazion­e così viva» che del «gran meneghino» aveva manifestat­o niente meno che Giosue Carducci, con un’intuizione circostanz­iata che si direbbe pre-iselliana: «Al Carducci il Porta parve un degno compagno di Giuseppe Parini in quella preparazio­ne dello spirito italico, che si effettuò tra due dominazion­i: quella francese in nome della libertà: quella austriaca in nome di un governo assoluto. Chi non scrisse che in milanese, fu infatti un grande maestro di italianità». E si aggiunge acutamente che sarebbe assai arduo comprender­e Parini senza «la poesia civile e realistica» di Porta. In chiusura del pezzo viene promosso un appello del senatore Giovan Battista De Cristofori­s per l’erezione di un nuovo monumento da collocarsi nella piazza del Verziere (quello ai Giardini Pubblici essendo «abbandonat­o»). E nell’occasione il poeta milanese Gaetano Crespi reclama l’istituzion­e di un Museo Porta, con autografi, ritratti e cimeli: progetto che verrà a compimento nel 1909. Dulcis in fundo , il 27 aprile 1908, il «Corriere Milanese» dà conto di un’affollata conferenza del senatore Francesco D’Ovidio, autorevole filologo della Normale di Pisa, in cui Porta viene collocato, nel gusto dei milanesi, tra I promessi sposi e il panettone.

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