Corriere della Sera - La Lettura
Un’americana a Roma (in disparte)
Nella lirica anglosassone le radici di Margherita Guidacci, di cui ricorre il centenario
Il nome di Margherita Guidacci, della quale il 25 aprile ricorrerà il centenario della nascita, non figura pressoché mai nei repertori antologici più accreditati della nostra poesia del Novecento, fosse anche solo della sua seconda metà. Eppure è tra quelli di cui più spesso viene lamentata la mancanza. Un po’ sì e un po’ no, insomma. La sua stessa vicenda esistenziale e letteraria, del resto, è stata così. Nonostante i tanti e spesso autorevoli riconoscimenti, si è svolta infatti quasi tutta nel segno della solitudine, in nome di una necessità o, se si preferisce, di una verità poetica affatto originale, a cui la scrittrice ha aderito senza esigere per sé alcun ritorno. Il volume Le poesie, curato per Le Lettere da Maura Del Serra, mette per la prima volta a disposizione del lettore l’intera opera in versi della poetessa fiorentina, da La sabbia e l’Angelo, il libro d’esordio pubblicato nel 1946, ad Anelli del tempo, uscito postumo nel 1993, a cui s’aggiungono tutte le poesie disperse e inedite recuperate fino a oggi. Il libro offre anche un cospicuo apparato critico (cronologia, bibliografia e note) curato da Ilaria Rabatti, ma va menzionata anche la splendida fotografia dell’autrice, a opera di Dino Ignani, riportata in copertina al volume.
A rimarcare il carattere davvero sui generis di questa poesia, basti dire che, cresciuta nel cuore stesso dell’ermetismo, Margherita fin da subito aveva scritto in modo molto diverso da quelli che avrebbero dovuto essere i suoi maestri. La laurea su Giuseppe Ungaretti, i contatti con gli esponenti più in vista dell’ermetismo fiorentino, non le avevano impedito infatti di guardare altrove. Al primo Montale degli Ossi di seppia , ad esempio, ma anche e soprattutto alla poesia inglese e americana, di cui del resto è stata una studiosa e traduttrice di qualità (tra i tanti autori tradotti il posto più importante spetta senz’altro a Emily Dickinson). Recensendo con partecipazione il suo primo libro, Giorgio Caproni aveva colto con molta puntualità questo retaggio così singolare, tanto più per quegli anni. Anzi, fu proprio l’originalità di quelle credenziali, che la giovane poetessa esibiva senza particolari timori, a fargli apprezzare quei versi sorprendentemente lunghi, magari anche troppo ricchi di una simbologia insieme esistenziale e letteraria («è nata in Italia la voce di un poeta nuovo», così concludeva Caproni).
Nella sua introduzione la curatrice del volume parla di «un imperioso responso oracolare, proferito tuttavia con voce piana e transitiva». E forse il nucleo, meglio ancora la tensione più intima di queste poesie sta davvero nel rapporto inevitabilmente contrastato tra la vocazione a una parola poetica pienamente responsabile (nei confronti dei grandi temi della nostra esistenza: le passioni, le ferite, la solitudine, la partecipazione al creato, il patimento fisico e spirituale), e una volontà d’apertura e di comunicazione, di non arroccamento su se stesso del linguaggio poetico. E proprio per non dare adito a questa chiusura, s’è appoggiata ora appunto a modelli anglo-americani, ora ai grandi schemi narrativi offerti dalla mitologia greca e dalla Bibbia, ora anche a palinsesti pittorici o musicali.
Ciò che l’ha preservata dal rischio d’introflessione a cui la sua natura eminentemente lirica poteva condurla, non di rado finisce però per irrigidire il suo dettato poetico, che perde allora di naturalezza in favore di un di più di solennità e d’eloquenza. Assieme al primo libro, Margherita amava più d’ogni altro Neurosuite
(1970), la raccolta-testimonianza di una crisi psico-fisica patita nel corso del decennio precedente. Forse non è un caso. Questa poetessa ha dato il meglio quando con più immediatezza e, viceversa, con meno mediazioni mitico-letterarie è riuscita a esprimere le diverse aspirazioni della sua inquieta esistenza.