Corriere della Sera - La Lettura
Popolare o pop Dante ci risponde per le rime
Ci apprestiamo a celebrare quest’anno i settecento anni dalla morte del nostro più grande poeta. La sua opera pose subito il problema di come fare apprezzare a tutti i suoi versi e di come avvicinare i più giovani alla complessità della «Commedia»: in queste settimane una fioritura di titoli rilancia la questione, rivelando le trappole che devono affrontare i tentativi di volgarizzazione e lo sforzo di incuriosire i piccoli lettori
Entrando nell’anno delle celebrazioni legate al settecentesimo anniversario della morte del nostro più grande poeta, ci si ritrova di fronte a una vecchia questione: si può semplificare Dante? Si può davvero spiegare il suo poema a tutti, indipendentemente dall’età e dalla cultura? Lo scetticismo serpeggia già dal 1373, quando il comune di Firenze assegna a Boccaccio l’incarico di leggere e commentare in pubblico l’opera «volgarmente chiamata il Dante», ovvero quella che proprio a partire da Boccaccio definiamo Divina Commedia .E subito si solleva l’accusa dei letterati di aver prostituito le muse, «aprendo al vulgo» i «concetti dell’alto ingegno» dell’Alighieri.
Dante non pedante
Nel tempo, la questione si salda con il valore didattico-pedagogico riconosciuto all’opera. Nel 1865, in corrispondenza con il sesto centenario della nascita, una relazione Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia
dichiara che gli scolari dimostrano «qualche famigliarità coi più eminenti scrittori e massime con Dante, la cui interpretazione è fatta con diligenza e continuità dal maggior numero dei professori».
All’epoca, d’altra parte, ci sono già diversi testi che si propongono di accompagnare i giovani — o, più in generale, il popolo — verso la comprensione della poesia dantesca: Dante offerto all’intelligenza dei giovanetti (1841), La Divina Commedia all’intelligenza di tutti (1864), La Divina Commedia recata alla
popolare intelligenza (1865). Di solito, riassumono la vita dell’autore e poi affrontano il testo in un serrato corpo a corpo — verso per verso, parola per parola — nelle note o in interlinea: «Alla metà dei miei giorni, nel trigesimo quinto anno di mia età/ mi ritrovai per una selva siffattamente tenebrosa».
Risale esattamente a un secolo fa, invece, la tradizione dei libri che cercano di raccontare ai più giovani il poema dantesco inserendolo in una cornice narrativa. A inaugurarla è Dino Provenzal, preside di scuola secondaria, con il suo Dante dei piccoli. Come tre ragazzi arrivarono a capire la «Divina Commedia». Uno zio dantista, tre nipotini, una passeggiata e una chiacchierata in cui quell’esperienza ultraterrena diventa una specie di fiaba gotica. Per la prima volta Dante dà del tu ai ragazzi, risvegliando la loro curiosità. La questione, da allora, non è più soltanto di intelligenza: è di affabulazione. Prima di parlare di Dante e del suo poema, bisogna trovare il modo di conquistare l’interesse di chi legge. Proprio come hanno cercato di fare alcuni libri usciti nell’anno appena trascorso.
Dante in costume
Al filone favolistico si riallaccia Dante, il mi’ babbo di Michael Bardeggia, sontuosamente illustrato da Chiara Lossani. Come in un racconto fantasy, la vicenda di angeli, mostri e prodigi soprannaturali è inserita in una cornice storica lontana nel tempo. Lo spunto è l’incontro probabilmente avvenuto a Ravenna nel 1350 tra Giovanni Boccaccio e Antonia Alighieri, figlia di Dante, tradizionalmente identificata con una suor Beatrice del monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Il libro è destinato a lettori e lettrici dai sette anni in su: ecco allora Enrica, una bambina che Giovanni avrebbe portato con sé da Firenze, per la quale Antonia rievoca la vita e l’opera del padre. Direttamente da Boccaccio, d’altra parte, viene l’aneddoto della barba di Dante «bruciacchiata a furia di andare e venire dall’Inferno», e dell’inconfondibile naso si dice che «l’ha reso famoso Giotto il pittore, nel suo affresco».
La patina di toscanismi si limita a quel babbo del titolo, a un gli garbarono e poco d’altro; l’attenzione alla lingua a una considerazione come «quante parole sapeva inventare: la sua Commedia la scrisse in una lingua nuova». Nuova allora, ma adesso antica. E infatti in caratteri anticheggianti sono riportate le citazioni che punteggiano il racconto, di cui si sceglie di non offrire mai una spiegazione letterale (tranne che per la trombetta di Barbariccia, teneramente ricondotta a una pernacchia). «Nel mezzo del cammin di nostra vita», «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», «Vuolsi così colà dove si puote».
Evidentemente l’effetto su cui si punta è proprio il fascino della distanza, un po’ come per le latineggianti formule magiche di Harry Potter: «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe». E poi ancora: «Fatti non foste a viver come bruti», «Era già l’ora che volge il disio», «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Versi tipici, topici, stratopici (come direbbe Geronimo Stilton, il topo oggi più amato dai bambini, che ha conosciuto Dante, ma — a differenza di Topolino — non è mai stato all’inferno).
Dante in maschera
Quei pochi versi rappresentano — insieme a qualche altro — ciò che resta della memoria condivisa di Dante, ridotta ormai a una sorta di mcm: la «minima comune memoria» dantesca. Il che vale anche per i testi destinati a un pubblico più adulto, in cui la voce del poeta può arrivare a scomparire quasi del tutto. Proprio quello che succede in Dante era un figo di Annalisa Strada, che fin dal frontespizio si firma «prof».
A dispetto del titolo, in effetti, si tratta di un testo squisitamente didattico; una classica sinossi con i riassunti canto per canto e qualche riquadro di approfondimento. La poesia di Dante è messa tra parentesi, come le spiegazioni delle sue parole relegate in questi cantucci della scrittura: «tre fiere (nel senso di “belve feroci”)», «da trapassato (un modo carino per dire “morto”)». Una guida scolastica animata qua e là da espressioni che arieggiano il linguaggio giovanile: Dante, ad esempio, aveva una «gang poetica con gli amici» e «fu uno studioso, ma non nel senso di un secchione o di un nerd». Perché — appunto — era un figo; concetto già toscanamente espresso da Matteo Renzi in un libro intitolato proprio Stil novo: «Dante era un ganzo […] Detta male: gli garbava di vivere». Il risultato è un Dante in maschera, là dove la maschera è proprio questa attualizzazione linguistica: un metalinguaggio che taglia fuori metà del messaggio, proprio quella relativa alla parola poetica.
Il fenomeno si ritrova anche nella Divina Commedia riveduta e scorretta di Francesco Dominelli e Alessandro Locatelli, in cui l’intenzione satirica è via via sopravanzata dallo «spirito albertangio
lesco di divulgazione». Così, tolti gli argomenti dei canti («gli sfottotitoli») e qualche battuta non sempre felicissima, i commenti si presentano ricchi di citazioni dantesche spiegate «nella lingua corrente». Più che una parodia, un susseguirsi di parafrasi e perifrasi che vede le spiegazioni convivere con i continui riferimenti all’universo mass-mediatico: da Cannavacciuolo ad Al Bano e Romina, da Saw l’enigmista a Bossi, da Santi Licheri a Casella (Giucas). Tutta un’enciclopedia pop-trash che in certi casi richiederebbe più note a piè di pagina del testo originale, ma risponde perfettamente all’intento di mascherare Dante da contemporaneo; di togliergli la corona d’allora dei poeti del passato, applicando la legge del contrabbasso.
Dante sfidante
Abbassamento, attualizzazione e minima comune memoria dantesca si ritrovano anche in Vai all’inferno, Dante! di Luigi Garlando: funzionali, stavolta, alla strategia narrativa di una trama autonoma. Il linguaggio, l’enciclopedia, i riferimenti degli adolescenti sono la chiave per aprire un varco spazio-temporale nel cangiante orizzonte della loro attenzione. Orizzonte che nel caso del protagonista — un bullo ricco, arrogante, viziato e bocciato già una volta in terza media — è colonizzato dai videogiochi (Vasco Guidobaldi è un campione di Fortnite), dal calcio (è un tifoso della Fiorentina) e dal rap (ama le strofe d’odio di Rabbia Pura).
Quando nel racconto apparirà Dante, per tenergli testa dovrà mostrarsi un gamer, un rapper e anche un ultrà più ganzo di lui. La frase con cui entra in scena è «Fatti non foste per killare B.R.U.T.O» e nelle terzine con cui si esprime — sì, perché il personaggio Dante parla solo in terzine — trovano posto, accanto a qualche citazione dai suoi testi, il gergo dei videogiochi e i tecnicismi del calcio, i nomi dei cantanti e le parole dell’attualità. Dante rivendica d’aver usato la lingua volgare, quella delle persone comuni: «Dico di più: da me non son diversi/ tutti quei rapper che urlano il rancore/ per il ministro ladro e malandrino/ o per colei che respinge l’amore». Paragona Baggio a Celestino V per aver lasciato la maglia viola e allo stadio urla «Non ti curar del gol, ma guarda e passa!». Infine convince il ragazzo a studiare, a «non bullizzar le prof e il professore» e a diventare una persona gentile, perché «sul cor gentil si posa sempre amore».
Certo, un Dante che parla così è un’aperta ed esplicita provocazione. Ma non è noi che questo Dante intende sfidare (noi — intendo — insegnanti, letterati o anche solo lettori): la provocazione è verso i ragazzi. Mescolare sacro e profano è il modo in cui si cerca di smontare o scavalcare o almeno aggirare il muro di una certa diffidenza. Dante s’impadronisce di quel lessico con l’obiettivo di creare un terreno comune; per vincere la tenzone, risponde per le rime.