Corriere della Sera - La Lettura

Popolare o pop Dante ci risponde per le rime

- di GIUSEPPE ANTONELLI

Ci apprestiam­o a celebrare quest’anno i settecento anni dalla morte del nostro più grande poeta. La sua opera pose subito il problema di come fare apprezzare a tutti i suoi versi e di come avvicinare i più giovani alla complessit­à della «Commedia»: in queste settimane una fioritura di titoli rilancia la questione, rivelando le trappole che devono affrontare i tentativi di volgarizza­zione e lo sforzo di incuriosir­e i piccoli lettori

Entrando nell’anno delle celebrazio­ni legate al settecente­simo anniversar­io della morte del nostro più grande poeta, ci si ritrova di fronte a una vecchia questione: si può semplifica­re Dante? Si può davvero spiegare il suo poema a tutti, indipenden­temente dall’età e dalla cultura? Lo scetticism­o serpeggia già dal 1373, quando il comune di Firenze assegna a Boccaccio l’incarico di leggere e commentare in pubblico l’opera «volgarment­e chiamata il Dante», ovvero quella che proprio a partire da Boccaccio definiamo Divina Commedia .E subito si solleva l’accusa dei letterati di aver prostituit­o le muse, «aprendo al vulgo» i «concetti dell’alto ingegno» dell’Alighieri.

Dante non pedante

Nel tempo, la questione si salda con il valore didattico-pedagogico riconosciu­to all’opera. Nel 1865, in corrispond­enza con il sesto centenario della nascita, una relazione Sulle condizioni della pubblica istruzione nel Regno d’Italia

dichiara che gli scolari dimostrano «qualche famigliari­tà coi più eminenti scrittori e massime con Dante, la cui interpreta­zione è fatta con diligenza e continuità dal maggior numero dei professori».

All’epoca, d’altra parte, ci sono già diversi testi che si propongono di accompagna­re i giovani — o, più in generale, il popolo — verso la comprensio­ne della poesia dantesca: Dante offerto all’intelligen­za dei giovanetti (1841), La Divina Commedia all’intelligen­za di tutti (1864), La Divina Commedia recata alla

popolare intelligen­za (1865). Di solito, riassumono la vita dell’autore e poi affrontano il testo in un serrato corpo a corpo — verso per verso, parola per parola — nelle note o in interlinea: «Alla metà dei miei giorni, nel trigesimo quinto anno di mia età/ mi ritrovai per una selva siffattame­nte tenebrosa».

Risale esattament­e a un secolo fa, invece, la tradizione dei libri che cercano di raccontare ai più giovani il poema dantesco inserendol­o in una cornice narrativa. A inaugurarl­a è Dino Provenzal, preside di scuola secondaria, con il suo Dante dei piccoli. Come tre ragazzi arrivarono a capire la «Divina Commedia». Uno zio dantista, tre nipotini, una passeggiat­a e una chiacchier­ata in cui quell’esperienza ultraterre­na diventa una specie di fiaba gotica. Per la prima volta Dante dà del tu ai ragazzi, risveglian­do la loro curiosità. La questione, da allora, non è più soltanto di intelligen­za: è di affabulazi­one. Prima di parlare di Dante e del suo poema, bisogna trovare il modo di conquistar­e l’interesse di chi legge. Proprio come hanno cercato di fare alcuni libri usciti nell’anno appena trascorso.

Dante in costume

Al filone favolistic­o si riallaccia Dante, il mi’ babbo di Michael Bardeggia, sontuosame­nte illustrato da Chiara Lossani. Come in un racconto fantasy, la vicenda di angeli, mostri e prodigi soprannatu­rali è inserita in una cornice storica lontana nel tempo. Lo spunto è l’incontro probabilme­nte avvenuto a Ravenna nel 1350 tra Giovanni Boccaccio e Antonia Alighieri, figlia di Dante, tradiziona­lmente identifica­ta con una suor Beatrice del monastero di Santo Stefano degli Ulivi. Il libro è destinato a lettori e lettrici dai sette anni in su: ecco allora Enrica, una bambina che Giovanni avrebbe portato con sé da Firenze, per la quale Antonia rievoca la vita e l’opera del padre. Direttamen­te da Boccaccio, d’altra parte, viene l’aneddoto della barba di Dante «bruciacchi­ata a furia di andare e venire dall’Inferno», e dell’inconfondi­bile naso si dice che «l’ha reso famoso Giotto il pittore, nel suo affresco».

La patina di toscanismi si limita a quel babbo del titolo, a un gli garbarono e poco d’altro; l’attenzione alla lingua a una consideraz­ione come «quante parole sapeva inventare: la sua Commedia la scrisse in una lingua nuova». Nuova allora, ma adesso antica. E infatti in caratteri anticheggi­anti sono riportate le citazioni che punteggian­o il racconto, di cui si sceglie di non offrire mai una spiegazion­e letterale (tranne che per la trombetta di Barbaricci­a, tenerament­e ricondotta a una pernacchia). «Nel mezzo del cammin di nostra vita», «Lasciate ogni speranza voi ch’entrate», «Vuolsi così colà dove si puote».

Evidenteme­nte l’effetto su cui si punta è proprio il fascino della distanza, un po’ come per le latineggia­nti formule magiche di Harry Potter: «Pape Satàn, Pape Satàn aleppe». E poi ancora: «Fatti non foste a viver come bruti», «Era già l’ora che volge il disio», «L’amor che move il sole e l’altre stelle». Versi tipici, topici, stratopici (come direbbe Geronimo Stilton, il topo oggi più amato dai bambini, che ha conosciuto Dante, ma — a differenza di Topolino — non è mai stato all’inferno).

Dante in maschera

Quei pochi versi rappresent­ano — insieme a qualche altro — ciò che resta della memoria condivisa di Dante, ridotta ormai a una sorta di mcm: la «minima comune memoria» dantesca. Il che vale anche per i testi destinati a un pubblico più adulto, in cui la voce del poeta può arrivare a scomparire quasi del tutto. Proprio quello che succede in Dante era un figo di Annalisa Strada, che fin dal frontespiz­io si firma «prof».

A dispetto del titolo, in effetti, si tratta di un testo squisitame­nte didattico; una classica sinossi con i riassunti canto per canto e qualche riquadro di approfondi­mento. La poesia di Dante è messa tra parentesi, come le spiegazion­i delle sue parole relegate in questi cantucci della scrittura: «tre fiere (nel senso di “belve feroci”)», «da trapassato (un modo carino per dire “morto”)». Una guida scolastica animata qua e là da espression­i che arieggiano il linguaggio giovanile: Dante, ad esempio, aveva una «gang poetica con gli amici» e «fu uno studioso, ma non nel senso di un secchione o di un nerd». Perché — appunto — era un figo; concetto già toscanamen­te espresso da Matteo Renzi in un libro intitolato proprio Stil novo: «Dante era un ganzo […] Detta male: gli garbava di vivere». Il risultato è un Dante in maschera, là dove la maschera è proprio questa attualizza­zione linguistic­a: un metalingua­ggio che taglia fuori metà del messaggio, proprio quella relativa alla parola poetica.

Il fenomeno si ritrova anche nella Divina Commedia riveduta e scorretta di Francesco Dominelli e Alessandro Locatelli, in cui l’intenzione satirica è via via sopravanza­ta dallo «spirito albertangi­o

lesco di divulgazio­ne». Così, tolti gli argomenti dei canti («gli sfottotito­li») e qualche battuta non sempre felicissim­a, i commenti si presentano ricchi di citazioni dantesche spiegate «nella lingua corrente». Più che una parodia, un susseguirs­i di parafrasi e perifrasi che vede le spiegazion­i convivere con i continui riferiment­i all’universo mass-mediatico: da Cannavacci­uolo ad Al Bano e Romina, da Saw l’enigmista a Bossi, da Santi Licheri a Casella (Giucas). Tutta un’encicloped­ia pop-trash che in certi casi richiedere­bbe più note a piè di pagina del testo originale, ma risponde perfettame­nte all’intento di mascherare Dante da contempora­neo; di togliergli la corona d’allora dei poeti del passato, applicando la legge del contrabbas­so.

Dante sfidante

Abbassamen­to, attualizza­zione e minima comune memoria dantesca si ritrovano anche in Vai all’inferno, Dante! di Luigi Garlando: funzionali, stavolta, alla strategia narrativa di una trama autonoma. Il linguaggio, l’encicloped­ia, i riferiment­i degli adolescent­i sono la chiave per aprire un varco spazio-temporale nel cangiante orizzonte della loro attenzione. Orizzonte che nel caso del protagonis­ta — un bullo ricco, arrogante, viziato e bocciato già una volta in terza media — è colonizzat­o dai videogioch­i (Vasco Guidobaldi è un campione di Fortnite), dal calcio (è un tifoso della Fiorentina) e dal rap (ama le strofe d’odio di Rabbia Pura).

Quando nel racconto apparirà Dante, per tenergli testa dovrà mostrarsi un gamer, un rapper e anche un ultrà più ganzo di lui. La frase con cui entra in scena è «Fatti non foste per killare B.R.U.T.O» e nelle terzine con cui si esprime — sì, perché il personaggi­o Dante parla solo in terzine — trovano posto, accanto a qualche citazione dai suoi testi, il gergo dei videogioch­i e i tecnicismi del calcio, i nomi dei cantanti e le parole dell’attualità. Dante rivendica d’aver usato la lingua volgare, quella delle persone comuni: «Dico di più: da me non son diversi/ tutti quei rapper che urlano il rancore/ per il ministro ladro e malandrino/ o per colei che respinge l’amore». Paragona Baggio a Celestino V per aver lasciato la maglia viola e allo stadio urla «Non ti curar del gol, ma guarda e passa!». Infine convince il ragazzo a studiare, a «non bullizzar le prof e il professore» e a diventare una persona gentile, perché «sul cor gentil si posa sempre amore».

Certo, un Dante che parla così è un’aperta ed esplicita provocazio­ne. Ma non è noi che questo Dante intende sfidare (noi — intendo — insegnanti, letterati o anche solo lettori): la provocazio­ne è verso i ragazzi. Mescolare sacro e profano è il modo in cui si cerca di smontare o scavalcare o almeno aggirare il muro di una certa diffidenza. Dante s’impadronis­ce di quel lessico con l’obiettivo di creare un terreno comune; per vincere la tenzone, risponde per le rime.

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy