Corriere della Sera - La Lettura
Chisciotte in psichiatria con gli eroi di Moresco
Lo scrittore di Mantova s’imbatte di nuovo nel personaggio di Cervantes, questa volta ricoverato in un ospedale dove crede di incontrare Tolstoj e Leopardi ed Emily Dickinson. L’ambizione è sempre la stessa: non arrendersi
Camicia da notte bianca, cappello piumato, un’espressione «idiota ed eroica» sul viso, Antonio Moresco è sulla copertina del suo nuovo romanzo, Chisciotte. Lo ha pubblicato Sem che oltre a mandare in libreria i nuovi romanzi ha iniziato da qualche anno a riproporre alcune opere del catalogo. Dopo Il canto degli alberi (Aboca Edizioni), uscito a maggio, in cui raccontava le passeggiate notturne nella Mantova della prima quarantena, a fine ottobre è arrivato questo libro nato da un progetto non ancora realizzato a cui Moresco lavora ormai da qualche anno: il film dedicato al Don Chisciotte di Miguel de Cervantes.
Sul suo sito lo scrittore ci consegna un autoritratto in cui le sue storie, personali e editoriali, sono strettamente intrecciate: «La mia infanzia, la mia adolescenza e la mia giovinezza sono state contrassegnate da una condizione famigliare anomala, da grave difficoltà ad apprendere e problematico rapporto con la scuola, da tre anni di seminario e da dieci anni di lotta rivoluzionaria. La mia vita di scrittore è stata contrassegnata da una lunga gestazione sotterranea per il rigetto da parte dell’editoria»: dall’esordio, a 45 anni, con un libro scritto a 30, Clandestinità, che lo ha sottratto dalla condizione di scrittore sotterraneo e invisibile (Bollati Boringhieri, ora Sem), sono usciti molti titoli che hanno ritagliato a Moresco un posto preciso nel canone letterario.
L’eroe letterario di Cervantes nutre l’immaginario di molti scrittori e, con la sua carica simbolica, si è sempre prestato a letture e reinterpretazioni. Moresco lo ha già affrontato anni fa in Don Chisciotte e la risoluta volontà del sogno, dove rinarra la vita di Cervantes, un testo finito nel volume L’adorazione e la lotta. Un altro Quichote uscito quest’anno, quello di Salman Rushdie (Mondadori), fa un triplo salto metanarrativo e compone un romanzo picaresco contemporaneo dove il Cavaliere dalla triste figura si innamora di una star della tv e si crea, come Geppetto con Pinocchio, un figlio di nome Sancho. Anche Moresco scaraventa il suo Chisciotte «in una via di una grande città — oggi — nell’ora di punta» in fondo alla quale si erge l’Ospedale Miguel de Cervantes Saavedra. C’è una palazzina con la scritta Psichiatria e, fuori, legati a una sbarra, uno vicino all’altro, un cavallo macilento e un asino. Lì è ricoverato Chisciotte che scambia gli altri ricoverati per i suoi amati poeti e scrittori: crede di incontrare nei corridoi Tolstoj e Leopardi, mentre Emily Dickinson, in abiti ottocenteschi e con un mazzolino di fiori in mano, è costantemente assisa su un trono-toilette.
«Ma che cosa dice? Qui dentro non ci sono poetesse e scrittrici antiche, qui ci sono solo zoccole, tossiche, fuori di testa, uomini con le rotelle fuori posto, malcagati, fissati» gli dice il suo infermiere Sancho, un ragazzo semplice con «un cespuglio di capelli sopra la testa, i piercing, i tatuaggi scemi, la cintura bassa dei jeans da cui spunta un ciuffo di peli pubici». Anche il primario rimprovera Chisciotte con un’invettiva contro una letteratura ridotta alla contrapposizione tra realismo e fiction e una società letteraria che «si accomoda», uno dei temi narrativi dello scrittore fin dall’inizio: «Si metta il cuore in pace. Anche gli scrittori di questa epoca l’hanno finalmente capito, sono diventati realistici, ragionevoli, si sono fatti furbi, intrattengono i lettori nel tempo che precede la loro e la nostra morte, stringono alleanze utili, si posizionano nelle istituzioni culturali, nei media...».
Chisciotte non si arrende (l’inarreso è parola cara allo scrittore) e osserva quello che succede nel mondo dalla tv nella saletta d’attesa del reparto. È convinto di dover andare a salvare gli uomini, non vuole rinunciare ai suoi ideali, alle sue illusioni, nonostante quell’idea diffusa, blandamente nichilista, per cui non c’è niente da fare, ma bisognerebbe solo lasciarsi andare, «dondolarsi», come gli dice appunto il primario che nel suo ufficio ha un’altalena.
Come è solito fare, anche qui Moresco rompe i piani, sconfina, attira a sé i personaggi che arrivano dalla letteratura mescolando i vivi e i morti. È lei, Dulcinea, ricoverata in un reparto di ortopedia, accudita dalle suore, figura tutta bianca, a condurlo — attraverso una porta carnale e al tempo stesso ideale — agli scrittori che lo infiammano, con cui riesce a innescare una insurrezione delle idee. Loro si ergono, gli parlano come le anime dei morti che Dante vede nel suo viaggio ultraterreno: Melville con la barba grigia, «marinaio, pensatore, sconfinatore e poeta», Lev Tolstoj «animale religioso, uomo anelante e ingenuo, prepotente e infantile»; Kafka con le mollette da bucato sulle orecchie, disperato e mite. C’è anche l’Alighieri, inventore dell’illusione d’amore, «pellegrino tra la vita e la morte del mondo». E poi Rimbaud, Whitman, Emily Brontë, Lawrence, Ildegarda di Bingen, persino Pinocchio.
I rovelli di Moresco trovano in Chisciotte l’innesco per mettere insieme realtà e sogno, mentre la luce della piccola fiammiferaia, anche lei tra i corridoi dell’ospedale, illumina la complessità del mondo e dice che una via d’uscita c’è.