Corriere della Sera - La Lettura
Il Québec censura l’arte ma non la vita
Anaïs Barbeau-Lavalette rievoca la figura ribelle della nonna pittrice
Arduo conciliare la vita familiare con l’arte. Difficile per gli uomini, impossibile per le donne, specie a metà del secolo scorso. Suzanne Meloche, artista canadese del dopoguerra, era una ribelle e ci ha provato. La sua quotidianità fu un’epopea: a ricordarla è la nipote Anaïs Barbeau-Lavalette nel romanzo Suzanne, dedicato alla nonna. Un affetto che brilla per la mancanza ma attraverso la sofferenza è riuscito comunque a lasciare un’impronta: «La tua assenza fa parte di me, mi ha forgiata. A te devo questa acqua torbida che innaffia le mie radici, multiple e profonde».
Grazie a testimonianze e documenti ritrovati, con una scrittura poetica e appassionante, l’autrice racconta la biografia della Meloche, inquadrandola nella realtà del Québec di allora. Al potere il partito conservatore di Maurice Duplessis: per le donne il ruolo era in famiglia e l’arte considerata strumento di trasgressione. Per mitigare il rischio fu promulgata la «legge del lucchetto», le opere più oltraggiose messe al bando. Il questo panorama repressivo la giovanissima Suzanne lascia la casa paterna per studiare a Montréal dove, inebriata dalla libertà, scopre il suo talento artistico.
La reazione alle censure è forte fra i giovani, nasce il movimento degli Automatisti, versione canadese dei Surrealisti, viene redatto il manifesto del «Rifiuto Globale» contro le regole. Suzanne ne fa parte: scrive poesie, sposa un pittore squattrinato e mette al mondo due bambini. Per sbarcare il lunario vanno in una comune in campagna a coltivare barbabietole, una scelta in teoria romantica, in pratica insopportabile. Allora comincia la fuga, dai doveri famigliari, dalle regole. La donna lascia il Canada, segue l’arte, va a Londra poi a New York, dorme nello studio di Jackson Pollock. Squattrinata, approfitta delle tele e dei colori, dipinge Métronome, il suo quadro più importante. Poi continua a vagare, inquieta fino all’ultimo. «Insegui la sensazione di non appartenenza. La indossi fin dall’infanzia. La conosci così bene che ti rassicura». Nel romanzo la nipote riesce a perdonare quand’abbandona ogni giudizio.