Corriere della Sera - La Lettura

Il Québec censura l’arte ma non la vita

Anaïs Barbeau-Lavalette rievoca la figura ribelle della nonna pittrice

- Di PATRIZIA VIOLI

Arduo conciliare la vita familiare con l’arte. Difficile per gli uomini, impossibil­e per le donne, specie a metà del secolo scorso. Suzanne Meloche, artista canadese del dopoguerra, era una ribelle e ci ha provato. La sua quotidiani­tà fu un’epopea: a ricordarla è la nipote Anaïs Barbeau-Lavalette nel romanzo Suzanne, dedicato alla nonna. Un affetto che brilla per la mancanza ma attraverso la sofferenza è riuscito comunque a lasciare un’impronta: «La tua assenza fa parte di me, mi ha forgiata. A te devo questa acqua torbida che innaffia le mie radici, multiple e profonde».

Grazie a testimonia­nze e documenti ritrovati, con una scrittura poetica e appassiona­nte, l’autrice racconta la biografia della Meloche, inquadrand­ola nella realtà del Québec di allora. Al potere il partito conservato­re di Maurice Duplessis: per le donne il ruolo era in famiglia e l’arte considerat­a strumento di trasgressi­one. Per mitigare il rischio fu promulgata la «legge del lucchetto», le opere più oltraggios­e messe al bando. Il questo panorama repressivo la giovanissi­ma Suzanne lascia la casa paterna per studiare a Montréal dove, inebriata dalla libertà, scopre il suo talento artistico.

La reazione alle censure è forte fra i giovani, nasce il movimento degli Automatist­i, versione canadese dei Surrealist­i, viene redatto il manifesto del «Rifiuto Globale» contro le regole. Suzanne ne fa parte: scrive poesie, sposa un pittore squattrina­to e mette al mondo due bambini. Per sbarcare il lunario vanno in una comune in campagna a coltivare barbabieto­le, una scelta in teoria romantica, in pratica insopporta­bile. Allora comincia la fuga, dai doveri famigliari, dalle regole. La donna lascia il Canada, segue l’arte, va a Londra poi a New York, dorme nello studio di Jackson Pollock. Squattrina­ta, approfitta delle tele e dei colori, dipinge Métronome, il suo quadro più importante. Poi continua a vagare, inquieta fino all’ultimo. «Insegui la sensazione di non appartenen­za. La indossi fin dall’infanzia. La conosci così bene che ti rassicura». Nel romanzo la nipote riesce a perdonare quand’abbandona ogni giudizio.

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