Corriere della Sera - La Lettura
«Osiamo di più Il teatro è vivo solo se è folle»
Regista tra i più audaci, Leone d’Oro, Romeo Castellucci èil «Grand Invité» della Triennale: una formula, inedita in Italia, ripresa dal Louvre. «La Lettura» gli ha chiesto qual è la sua idea di cultura e che cosa porterà a Milano.
«Il teatro è fuoco: è la riunione intorno al fuoco, è l’arte che più somiglia alla vita. La pandemia ci impone una rifondazione, ma le risposte che sento sono flebili. A Milano lavoreremo con persone e luoghi, dentro e fuori uno dei posti che meglio interpreta l’eredità rinascimentale di questo nostro Paese»
Regista tra i più audaci d’Europa, Romeo Castellucci, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia e Chevalier des Arts et des Lettres della Repubblica francese, è il «Grand Invité» di Triennale Milano per il quadriennio 2021-2024. Una formula, inedita per l’Italia, ripresa dall’esperienza del Louvre di Parigi con Patrice Chéreau, una partnership che intende mettere a servizio della potenza immaginifica di Castellucci non solo il teatro, ma l’intera architettura originale della Triennale, pensata come una grande macchina scenica. «La Lettura» ha incontrato il regista per indagare il compito dell’arte nella società contemporanea, il significato dello stare insieme davanti a un’immagine, la necessità inderogabile del teatro in un momento in cui siamo sopraffatti dal potere delle immagini.
Castellucci, qual è lo stato di salute della cultura nel nostro Paese?
«La cultura o è vivente o è conservazione. La cultura vivente, per come la vedo io, non rende conto alla dittatura della maggioranza, bensì alimenta la contraddizione, instilla la goccia di veleno indispensabile alla coscienza. Sono necessarie opere artistiche che nuovamente si impongano sul dibattito culturale. Smettiamo di dire “non abbiamo spazio”, inventiamolo! Trovo che la lamentazione degli artisti, quando non è supportata dal fare, sia dolorosamente prevedibile, remissiva, ineffettuale. Le risposte che sento sono flebili, là dove questo periodo imporrebbe una riconfigurazione radicale della necessità stessa del teatro. Il riscatto degli artisti consiste in ciò che fanno, anche in mezzo a una carestia o in mezzo a una guerra. Questa pandemia può essere un’occasione per rifondare alcuni paradigmi e separare il grano dal loglio: cosa significa riunirci in una sala, cosa significa guardare ed essere comunità davanti a un’immagine. La politica poi, dovrà prendere atto della forza apodittica dell’arte».
Si muove in questa direzione la sua collaborazione con la Triennale?
«Partirà dalla tabula rasa che questa epoca ci consegna e sulla quale bisognerà lavorare con immaginazione geometrica e follia. Ho accettato con grande slancio la proposta di Triennale perché trovo questo luogo un’eccellenza italiana. È uno dei pochi luoghi in grado di interpretare in chiave contemporanea l’eredità “rinascimentale” del nostro Paese. Credo che molti siano i progetti che qui si possano realizzare in virtù di questa vocazione».
In che modo?
«Si tratterà di lavorare con la città di Milano, perché ogni teatro o istituzione culturale compone sempre un ritratto della propria città. Il desiderio che ci muove è quello di riuscire a realizzare cose che possano essere vive e pressanti, capaci cioè di rendere speciale l’andare a teatro. Con il presidente di Triennale Stefano Boeri e con i direttori artistici Lorenza Baroncelli e Umberto Angelini c’è un rapporto di grande sintonia. A breve ci incontreremo, ragione per cui, ora, non posso sbilanciarmi sui modi e i temi, ma cominceremo a lavorare presto».
Come si concretizzerà il lavoro con la città?
«Mi piacerebbe lavorare con persone e luoghi di Milano, in una drammaturgia degli spazi urbani che preveda, oltre ai luoghi consacrati, anche realtà della città ignorate. Se è vero che Triennale ha una dimensione legata alla storia di Milano, è altrettanto vero che la sua fondazione, come istituzione culturale, trae origine da un’apertura allo scenario internazionale che, in senso teatrale, oggi manca quasi del tutto al nostro Paese. Sarà essenziale rivolgersi a un pubblico europeo, così come ospitare artisti di altri Paesi ancora poco conosciuti. Tutto questo sarebbe ancora più efficace se ci fosse un rapporto di collaborazione con i grandi festival europei».
Ha in mente qualche nome?
«Ci sono nomi interessanti, certamente, ma la scelta è appannaggio di Umberto Angelini, che sa fare molto bene il suo mestiere. Io potrò dare delle suggestioni, ma la programmazione e lo sguardo generale spettano a lui».
Che cos’è per lei il teatro?
«Domanda impossibile. È forse l’incontro con l’ignoto che si trasforma in una riflessione sull’enigma del linguaggio. Ma come spettatore dico questo: vado a teatro per avere un tuffo al cuore, per essere finalmente visto dallo spettacolo, per guardare dentro me. C’è chi cerca l’illustrativo del letterario, l’attivismo politico, l’intrattenimento — va benissimo — ma, dal mio punto di vista, il teatro è un luogo di solitudine in cui ci si incontra con sé stessi. Nella ricerca della forma è però essenziale contemplare la dimensione dell’errore e assumerne il rischio: e questo è vero anche per un’istituzione culturale. Perché chi osa si assume
una responsabilità morale, oltre che estetica».
Osare non è la funzione dell’arte?
«Se così non fosse si scadrebbe nell’abitudine, nel risaputo. Intendiamoci: non voglio demonizzare chi non fa ricerca, d’altra parte la parola “teatro” è talmente grande che può ospitare miriadi di concezioni e pratiche. Il teatro che ritengo sia degno di essere vissuto è quello che evita le retoriche certezze, gli appoggi letterari, il commento all’esistente. Anche quello che oggi studiamo come “tradizione” è stato, a sua volta, forma incandescente, aporìa del linguaggio, scandalo. Beckett, per fare solo un nome».
Come ha vissuto il lockdown?
«È stato un periodo molto difficile. Non sono riuscito a trasformarlo in qualcosa di “mistico”, come ho sentito qualcuno dire. Non ho fatto meditazione, né yoga. Ho letto una cinquantina di libri e non ne ricordo nemmeno i titoli. È stato duro, punto e basta. Abituato a muovermi in continuazione, non ero preparato alla paralisi. Mi sono sentito un idiota e l’ho vissuto come tale. Vivo in una zona molto isolata, ma ho avuto l’enorme privilegio di poter uscire di casa quando volevo. Potevo passeggiare intorno a casa, sotto gli alberi. C’è una quercia di 400 anni, è successo che le parlavo. Per me era già moltissimo. Ma non sono stato capace di creare, di fare progetti. Ora va meglio. Ricordo ciò che leggo. Prendo appunti».
I social non l’hanno aiutata?
«Non ho attività social, ho preferito sentire la solitudine forzata, senza anestesie. Ricevere in pieno volto la durezza di tutto questo. Non c’era altra soluzione, era una cosa che andava fatta. Non era lo “stato di eccezione” che viene proclamato da un potente. No, questa era — è — una “eccezione” che poteva mettere a repentaglio la specie umana. Un fatto scabrosamente concreto e reale, non un pensiero filosofico».
Le manca il teatro?
«Ho evidentemente un rapporto di amore/odio con quello che faccio. Ma non poterlo fare, be’, me lo fa desiderare. Lo dico meglio come spettatore: avere una persona davanti a me sulle tavole di un palcoscenico è come essere chiamati a raccolta davanti a un fuoco. E di questo abbiamo bisogno. Il teatro è l’espressione umana che più risponde alla necessità antropologica di riunirsi insieme, tra sconosciuti. Riunirsi insieme intorno al fuoco di un’immagine. Il teatro è l’arte che più assomiglia alla vita, l’arte del contatto. È anche la forma d’arte più primitiva, nata nelle caverne, prima dei graffiti. Per la stessa ragione è anche la più gravida di futuro. È invincibile».
Il tempo ha in qualche modo influito sul suo sguardo?
«Necessariamente. Sono un volto nella folla. Vivo nel fenomeno di questo tempo. Non mi ritengo un maestro perché non ho raggiunto nessuna sapienza
e né, d’altra parte, mi interessa farlo. Non ho una visione “sacerdotale” dell’artista né cerco l’uomo nuovo. Non so ancora cosa sia il teatro ma qualunque cosa esso sia io so che la disciplina della forma è l’architrave che lo sorregge. Questo mi preoccupa. Cerco il punto di contraddizione nel mio lavoro perché so che il nemico si nasconde nell’autobiografia. L’atteggiamento storiografico è lontano da me, non guardo al passato come una conquista o una sequenza lineare. Osare una forma: è questa, per me, la sola dimensione possibile. Cercare di fissare in una immagine quello che accade intorno a me come individuo e come specie umana. Quando non sarò più scandalizzato dalla bellezza del teatro, smetterò di farlo e di vederlo».
Prima ha citato Beckett. Per lei è un autore di riferimento?
«Certamente, ed è per questo che mi è impossibile rappresentarlo. È troppo vicino. Il teatro contemporaneo si basa su due “pilastri”: Beckett e Antonin Artaud. Entrambi hanno dimostrato come il teatro sia un campo di battaglia in cui si combatte la lotta tra il vivente e il linguaggio. Alla “parola” intesa come casa comune, Beckett appicca il fuoco. Con sgomento scopriamo che la parola non veicola più nessuna presunta comunicazione; al contrario: è potenza carceraria».
La stessa cosa ha fatto Artaud...
«Sono autori che lavorano ai poli opposti dello stesso oggetto, rovesciando il banco delle categorie classiche della parola. Il teatro non elabora diagnosi né terapie, essendo il muto sintomo del tempo che viviamo. E questa epoca è fortemente marcata dal dominio esistenziale della comunicazione che ha invaso gli spazi intimi delle persone. La comunicazione inculcata e obbligatoria è il vero assolutismo, perché vuole tutto da te. Il teatro è un dispositivo per disinnescare questo meccanismo di disfunzione; permette allo spettatore di fare un passo indietro, di considerare il panorama che ha davanti, “vedere” il quadro umano più ampio in cui ci troviamo. Vedere, giudicare, scegliere piuttosto che credere».
La comunicazione come una specie di malattia. Ipertrofica.
«È la parola umana sotto l’aspetto brutale della quantità. Non il cosa, ma il quanto che non lascia nessuno spazio alla scelta, al discernimento, al silenzio. Si dice tutto per non dire nulla. La quantità senza alcun principio di scelta. Siamo spettatori in stato permanente. E se non è una scelta, è dominio. Credo che l’arte sia uno dei pochi ambiti in cui ci è concesso di scegliere di essere spettatori, là dove “scegliere” è il significato stesso di cultura. Quindi torniamo a Beckett, che è riuscito a trattare la negligenza esistenziale del nostro rapporto con il linguaggio: una parola circolare, auto-efficace, parola sarcofago. Con Giorni felici Beckett lo ha rappresentato perfettamente».