Corriere della Sera - La Lettura
Che interprete quello scarafaggio
Tra maggio e novembre dell’anno appena trascorso ci sono state diverse occasioni in cui Franco Cordelli si è occupato sul «Corriere» del Teatro di Roma,
occasioni non teatrali. Riguardavano la gestione politica e amministrativa. Compreso il ruolo di Giorgio Barberio
Corsetti. Ora che Barberio Corsetti è tornato alla regia con una «Metamorfosi», passata in tv a causa dei palcoscenici chiusi, Cordelli ha assistito allo spettacolo, forte di altre due «Metamorfosi» viste (una addirittura con Roman Polanski in scena). Ecco com’è andata
Tra maggio e novembre dell’anno appena trascorso (è una premessa necessaria) ho scritto una quantità di articoli che riguardavano la direzione del Teatro di Roma. Giorgio Barberio Corsetti a causa di una irregolarità registrata dal Collegio dei revisori dei conti, era stato retrocesso da direttore a consulente artistico.
Fu a mio parere una scelta sbagliata: consulente artistico ce n’era già uno, c’era poi un direttore organizzativo, con la nomina a venire di un direttore manager ma competente in questioni di teatro, i direttori sarebbero diventati quattro. Più tardi m’infastidì che Barberio Corsetti nelle dichiarazioni pubbliche parlasse come se il direttore di fatto fosse lui, indipendentemente da chi sarebbe stato nominato. In effetti, fu nominato il dottor Pier Francesco Pinelli, laureato in Ingegneria idraulica.
La questione non è del tutto risolta, il direttore organizzativo che c’era prima dette le dimissioni, il consiglio d’amministrazione non ha ancora stabilito l’entità dello stipendio per il nuovo direttore.
Ma siamo di fronte ora al nuovo e primo spettacolo di Barberio Corsetti in programma per la stagione 2020-21.
La metamorfosi di Franz Kafka. Il calendario ne prevedeva il debutto all’Argentina, lo abbiamo potuto vedere trasmesso da Rai 5, in attesa di eventualmente rivederlo su Rai Play e in teatro, si auspica per marzo o aprile.
A causa di quanto fin qui accaduto, vederlo, descriverlo e scriverne non sarebbe stato facile, o meglio: non lo è. Avevo pensato di tralasciare, ma a soppesare le cose, questa scelta non mi convinceva, nonostante in tanti abbiano pensato che i miei articoli pubblicati sul «Corriere della Sera» non riguardassero il Teatro di Roma ma fossero contro Barberio Corsetti, dettati da ragioni personali e comunque ad personam.
In realtà, di Giorgio Barberio Corsetti conosco quasi per intero il lavoro, dal lontano 1976; e lui e gli appassionati di teatro ben sanno quanto io lo abbia sostenuto, fino al suo Re Lear — non fosse che per la presenza in scena di un attore del valore di Ennio Fantastichini che con rimpianto ricordiamo. Per altro, sembrerà paradossale, Barberio Corsetti non lo conosco: ci salutiamo con cordialità, non ci siamo parlati come fossimo in qualche modo amici. Perché, mi sono detto, non dovrei vedere, descrivere, valutare il suo spettacolo — che comunque apre la stagione del Teatro di Roma?
Di spettacoli tratti da La metamorfosi ne avevo visti almeno due, o due che ricordo.
Il primo nel 1968; era il debutto in teatro niente meno che di Giancarlo Sepe. Il secondo a Spoleto vent’anni dopo: in quell’occasione il regista era Steven Berkoff, in scena c’era Roman Polanski. Come dimenticarlo là, imprigionato in una ragnatela, da cui forse tentava di uscire, in cui disperatamente si muoveva assumendo ogni posizione — orizzontale, verticale, obliqua?
Si tratta di spettacoli che per una ragione o per l’altra, come ho appena detto, non ho dimenticato. Pure, quando sono andato a cercare ciò che ne scrissi, mi ha colpito che non risparmiavo critiche né all’uno, come incerto, diciamo immaturo (pur lodandone la sceneggiatura con un inedito inquisitore cui si affidava il racconto) né all’altro, in quanto, seguendo il regista inglese la propria natura, il suo realismo stilizzato mi parve troppo sarcastico nei confronti di Kafka.
Un giudizio analogo, favorevole e meno favorevole, credo sia quello più equilibrato per La metamorfosi di Barberio Corsetti.
La scena ha una sua eleganza (nel senso di intima eleganza rispetto alla povertà dell’ambiente descritto da Kafka): una stanza occupata da Gregor Samsa, l’uomo che si sveglia una mattina mutato in scarafaggio, e una stanza, dove la famiglia si riunisce e nella drammatica circostanza assedia il giovane uomo. Nella prima stanza vi sono un canapè, una scrivania, un letto; nell’altra un tavolo da cucina. Sul fondo una scura parete lascia leggere, tutta maiuscola, la parola MONDO.
L’aspetto eccellente dello spettacolo è l’interpretazione di Michelangelo Dalisi. Non c’è un momento in cui si lascia andare. È piegato in due all’altezza dei reni, le braccia sono come
rattrappite e incollate ai fianchi, le due mani e le dita sono aperte-chiuse, come fossero artigli, fermo restando che artigli non sono, non so come si chiamino le terminazioni nervose di uno scarafaggio.
Il nostro Samsa-Dalisi prima è sdraiato sul letto in cui si è svegliato, poi ne scende a fatica, poi si lascia andare a terra e lì rimane, disteso, in ginocchio, a volte sollevandosi nel fare leva sui muri — lungo i quali perfino si arrampica. Questa performance è, direi, connaturata al lavoro di Barberio Corsetti, alla parte migliore del suo lavoro più visivo che recitativo in senso tradizionale. Ma è anche il suo limite: sembra che a Dalisi sia toccato in sorte di eccedere le proprie stesse capacità, che nell’esprimere i suoi pensieri diventi un virtuoso — della diversità, o dell’estraneazione. E a questa altezza è impossibile non notare quanto gli altri interpreti, tranne la cameriera, siano relativamente inadeguati, in specie il padre e la figlia che tuttavia si esibisce, in piedi sul tavolo, in una esecuzione canora al violino (direi più o meno arrangiata) di Lascia ch’io pianga da Händel.
Da una parte abbiamo un figlio che (ne osservo la peculiarità) chiude a chiave la porta della stanza in cui dorme — ed è la sua condizione di abnorme normalità, di cui ha infine preso coscienza; dall’altra gli apprensivi ma banalmente frenetici familiari: il troppo sollecito padre non descrive in modo persuasivo il fondo del conflitto che, come sappiamo, è tra padre e figlio.
Un altro aspetto lodevole dello spettacolo è la drammaturgia, che lascia scorrere con semplicità, quando ciascun personaggio si pronuncia, la terza persona dalla prima, dunque il racconto dalla rappresentazione. Ma qui è il senso dello spettacolo. Ne risulta una lettura naturalistica o, se si preferisce, letterale di Kafka in linea con la scrittura non solo teatrale del mondo narrativo in cui viviamo. Quanto nello scrittore praghese (era in fondo l’accusa che gli venne mossa da Günther Anders e in parte da Giuliano Baioni) appare una «divina megalomania» per un’«epica della sterilità» e nello stesso tempo una impassibile normalità; per Gregor tutto è difficile ma tutto è come è, nulla si può perché muti.
Nel passaggio dal racconto alla scena non si arriva a una qualsivoglia critica, ovvero a una trascendenza dei fatti (una poesia), come nel caso di Berkoff-Polanski. C’è, ridondante, una deformazione espressionistica, alla fine grottesca — in specie disdicevole quando gli avari pigionanti, che appaiono in un secondo momento, sono rappresentati come ebrei.