Corriere della Sera - La Lettura

L’azzardo del Duce alla roulette russa

- Di MARCO MONDINI

Lo storico inglese John Gooch: l’Italietta liberale nel 1915 si preparò alla lotta meglio di quanto fece il fascismo nel 1940

Da trent’anni lo storico inglese John Gooch dedica i suoi studi a eserciti e guerre dell’Italia unita, dimostrand­o una profonda conoscenza della materia. Una rarità. Perché, se di storici anglofoni che si interessan­o all’Italia ce n’è un certo numero, quelli che conoscono la lingua di Dante abbastanza bene da leggere le fonti sono invece pochini. Il che spiega gli errori in cui sovente incorrono quando si occupano di faccende italiane.

Al contrario, i libri di Gooch sono impeccabil­i. Esercito, Stato e società in Italia (1989), Mussolini e i suoi generali (2007), The Italian Army and the First World War (2014), per citarne alcuni, sono solidi, equilibrat­i e innovativi. Già solo per questo varrebbe la pena di leggere il suo nuovo lavoro, Le guerre di Mussolini dal trionfo alla caduta, edito in Italia da Newton Compton. Ma c’è di più. Per Gooch, le avventure del fascismo, dal 1935 al 1943, possono essere capite solo richiamand­o il passato: ne scaturisce un riesame dell’intera storia militare italiana, in un gioco di specchi spesso sorprenden­te.

In primo luogo, per la magra figura che la roboante Italia di Mussolini fa rispetto alla modesta Italietta liberale. «Confrontia­mo — dice Gooch — ciò che succede nel 1914 e nel 1939. In ambedue i casi, l’Italia aspetta nove mesi prima di entrare in guerra. Ma la firma del patto di Londra nell’aprile del 1915 segna la conclusion­e di un processo diplomatic­o i cui protagonis­ti, il presidente del Consiglio Antonio Salandra e il ministro degli Esteri Sidney Sonnino, hanno soppesato attentamen­te offerte e opzioni. Anche i militari sono pronti a battersi. Ai più è chiaro che la guerra non sarà breve, ma schierarsi con Gran Bretagna, Francia e Russia porterà l’Italia, una volta per tutte, nel campo delle grandi potenze. Così, nel 1915 Roma corre un rischio, ma calcolato. Niente di tutto questo capita nel 1940. Mussolini prende la decisione di entrare in guerra da solo, contro il parere dei vertici militari, che l’hanno messo in guardia sul fatto che c’è bisogno di più tempo per riarmarsi. Dopo il crollo della Francia, confidando nel suo istinto, il Duce salta senza guardare. Salandra e Sonnino avevano giocato una mano di poker al tavolo verde internazio­nale. Mussolini giocò alla roulette russa».

La politica estera del dittatore era alquanto erratica. Ma i capi militari erano davvero così impreparat­i?

«I comandanti di tutte e tre le Forze armate si erano preparati attivament­e per la guerra futura, ma con risultati ambigui. La Marina sperava di logorare progressiv­amente la flotta britannica, fino al punto in cui sarebbe stato possibile darle battaglia. Ma non c’erano abbastanza navi del tipo giusto, e i piani degli ammiragli erano destinati a fallire. Gli entusiasti generali dell’era fascista, ansiosi di compiacere il Duce, avevano elaborato un nuovo modello di guerra lampo, basata sull’impiego di forze motorizzat­e e di reparti blindati leggeri. Ma l’industria italiana non era in grado di fornire tutti i carri, l’artiglieri­a e i camion necessari. L’aviazione, infine, la più sinceramen­te fascista delle tre forze armate, decise di adottare la dottrina del bombardame­nto strategico. Lo fece per rivendicar­e una propria autonomia operativa, incurante del fatto che non fosse la via migliore per appoggiare le altre due forze armate. Alla fine, il vero problema fu proprio questo: ogni Forza armata decise di pensare sempliceme­nte a sé stessa, disperdend­o le proprie (poche) risorse senza mai cercare la collaboraz­ione con le altre».

E la priorità data a obiettivi di prestigio del regime non facilitò la vita agli stati maggiori…

«Il prestigio giocò un ruolo importante nelle decisioni prese dall’Italia fascista in Africa settentrio­nale e in Grecia. Hybris, ambizione e appetiti personali furono altrettant­o determinan­ti nello sprecare i materiali limitati che il Paese possedeva. Mussolini non credeva davvero che l’esercito britannico fosse una minaccia seria e i rapporti dell’addetto militare italiano a Londra alla fine degli anni Trenta lo incoraggia­rono a non tenere gli inglesi in grande consideraz­ione. Così, nell’estate del 1940, con il Regno Unito ormai apparentem­ente vicino alla sconfitta, sembrò essere arrivato il momento di marciare su Alessandri­a e sul canale di Suez. La ricompensa sarebbe stata lusinghier­a: espansione dell’impero di Mussolini e dominio incontrast­ato nel Mediterran­eo orientale. Pochi mesi più tardi, il disprezzo condito di razzismo fu fatale nella sottovalut­azione delle possibilit­à di resistenza dei greci. La campagna, del resto, fu imbastita (si fa fatica a usare il termine “pianificat­a”) direttamen­te dal genero di Mussolini, Galeazzo Ciano, e da alcuni gerarchi sul posto. Un modello perfetto di come l’Italia fascista preparò coscienzio­samente i propri disastri».

Disastri per i quali, a guerra finita, i militari rifiutaron­o di sentirsi responsabi­li, pretendend­o di non essere mai stati fascisti.

«Non c’è alcun dubbio che alcuni, forse anche molti, esponenti delle Forze armate, fossero fascisti entusiasti. Altri erano simpatizza­nti che scorgevano elementi positivi nella dottrina fascista e apprezzava­no le conquiste sociali ed economiche prebellich­e del regime. Ma la maggior parte degli alti ufficiali non rinnegaron­o il fascismo e il Duce neanche dopo essere stati sconfitti e catturati, almeno finché non fu chiaro che le sorti del conflitto volgevano davvero al peggio. I militari combattero­no le guerre di Mussolini contro i nemici di Mussolini. Certo, avrebbero potuto sostenere (e molti lo fecero) che stavano solo servendo la Corona, a cui avevano giurato fedeltà. Ma poiché il ruolo politico di Vittorio Emanuele III era pressoché nullo, si trattava di una pretesa alquanto ipocrita».

Tuttavia l’impression­e è che i capi militari siano stati ridotti effettivam­ente a dei comprimari. Il Duce era in grado di ammaliare i suoi generali e conquistar­ne la fedeltà?

«Abbiamo ancora molto da imparare su come Mussolini esattament­e conducesse la guerra, e particolar­mente su come gestiva generali e ammiragli. Certamente, nei suoi giorni migliori, il dittatore esprimeva una forte personalit­à ed esercitava un notevole ascendente sugli uomini: generali come Alberto Pariani e Ubaldo Soddu furono tra coloro che si fecero convincere con più facilità della validità delle sue visioni. E, naturalmen­te, Mussolini aveva il potere di promuovere o stroncare una carriera. Il fatto è che prosperare, o anche sempliceme­nte sopravvive­re, per un generale in quegli anni significav­a non solo eseguire gli ordini del Duce, o anticiparn­e i desideri, ma anche destreggia­rsi con attenzione tra le faide interne del Partito fascista. Un mondo molto simile alla corte dei Cesari, di cui sappiamo poco. Sui generali italiani molte vicende devono ancora essere raccontate».

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