Corriere della Sera - La Lettura
Noi siamo le guerre che facciamo
La studiosa di Oxford Margaret MacMillan sostiene che i conflitti non sono incidenti di percorso: «Hanno forgiato il nostro pensiero, il linguaggio, la politica e la società» Quanto al futuro, dice, «la cyberwar è già tra noi. L’esercito francese sta com
L’Europa occidentale non dovrebbe cullarsi nei settant’anni di pace seguiti alla fine del secondo conflitto mondiale. Nessuna illusione: questa situazione, tutto sommato rara e circoscritta, non è destinata a diventare permanente o universale. Perché la guerra fa parte integrante dell’esperienza umana. Noi tutti siamo il prodotto di millenni di guerre. «Sono una storica, e credo fermamente che si debba includere la materia guerra nello studio della storia, se siamo davvero intenzionati a dare un senso al passato», scrive Margaret MacMillan nel nuovo libro pubblicato negli Stati Uniti, War. How Conflict Shaped Us («Come il conflitto ci ha plasmati», Random House) e lo ripete durante una lunga conversazione con «la Lettura» al telefono. «La guerra non è affatto un’aberrazione casuale e certo non un incidente di percorso da dimenticare al più presto possibile. Di più, non è la semplice assenza della pace, che ingannevolmente si ritiene essere lo stato normale delle cose. Tutto il contrario. La guerra è parte di noi. Ha forgiato i nostri modi di pensare, i nostri linguaggi, l’organizzazione della coesistenza tra umani. La guerra e la minaccia che scoppi resteranno con noi, segneranno il nostro futuro».
I suoi studi navigano nei millenni: esplorano l’archeologia, indagano l’aggressività dell’uomo preistorico, analizzano le tensioni tra popolazioni nomadi e agricoltori, affrontano la guerra del Peloponneso, e poi l’organizzazione dell’esercito romano, gli assedi medievali, la scoperta delle armi da fuoco, la «rivoluzione militare» del Cinquecento, le campagne napoleoniche, la guerra civile americana, il secondo conflitto mondiale, quello del Vietnam, le guerre del Golfo e la jihad di Al Qaeda e Isis. Sono numerosi naturalmente i rimandi alla Prima guerra mondiale, che MacMillan ha raccontato nei suoi ultimi libri. Pronipote di David Lloyd George, premier britannico dal 1916 al 1922, non esita a tracciare un allarmato parallelo tra i modi di pensare odierni e la fallace convinzione, molto diffusa tra i leader di allora, per cui si potevano mobilitare gli eserciti per uno scontro veloce, quasi indolore, destinato a «porre fine a tutte le guerre». Salvo poi amaramente scoprire che «è molto più semplice iniziare un conflitto che terminarlo, ma soprattutto che spesso una guerra ne alimenta altre».
In che senso la guerra ci ha forgiati?
«Ha creato le organizzazioni politiche, la struttura dei governi, l’andamento delle frontiere, i valori fondativi delle nostre società. Per esempio, quello del sacrificio dell’individuo per il bene comune. Alcuni pilastri delle economie nazionali derivano dalle necessità delle guerre, le comunicazioni, le strade, si pensi alle linee ferroviarie per trasportare armi e soldati. L’arte, tanta arte dalla guerra. La scienza, la medicina. Gran parte dei farmaci e delle tecniche mediche nascono dalla guerra, per esempio il triage, le trasfusioni, le pratiche del pronto soccorso. Ha rappresentato una forza fondamentale per elaborare i trattati internazionali, gli accordi sul commercio, le regole di transito. Anche la posizione delle donne, il loro ruolo, ne sono stati condizionati. La loro emancipazione nel Novecento deve tanto alla mobilitazione femminile sui posti di lavoro per sostituire gli uomini reclutati. L’economia di guerra necessita delle donne».
Però, le guerre possono funzionare da deterrente. Se la Seconda guerra mondiale non fosse terminata solo 17 anni prima della crisi di Cuba, Kennedy e Krusciov avrebbero facilmente optato per l’opzione della forza. Non crede?
«Sì, in genere chi ha vissuto l’esperienza della guerra è meno prono a ripeterla. La memoria dei testimoni diretti aiuta a evitare il ripetersi dell’orrore. Krusciov e Kennedy avevano visto la rovina delle città europee. L’Unione Sovietica aveva subito decine di milioni di morti. Kennedy aveva combattuto nel Pacifico. Ciò aiutò a evitare il conflitto nucleare nel 1962. Ma non è sempre così. Tra il 1938 e il 1939 i leader europei occidentali si sforzarono in mille modi di non tornare in guerra con la Germania. Le loro opinioni pubbliche avevano ancora in mente le sofferenze delle trincee. Però, alla fine, si marciò contro l’esercito di Hitler e fu una guerra totale, terribile, ancora più aspra della precedente».
Curioso come sia rapido il passaggio dalla pace alla guerra. Anche oggi, osservando il mondo dalle nostre case sicure, parrebbe impossibile. Non crede?
«Dobbiamo essere vigili. Resta sempre l’illusione di essere migliori e più intelligenti delle generazioni del passato. Dire che noi in quelle condizioni non avremmo combattuto significa non sapere leggere la storia. Negli ultimi anni le nostre società laiche non sono state in grado di capire Isis, le visioni eroiche dei jihadisti, la loro disponibilità alla morte. Li guardiamo come vittime di un lavaggio del cervello. In verità, parlano un linguaggio bellico a noi incomprensibile, ma che è una componente importante della mobilitazione alla guerra».
Oggi va molto di moda il parallelo tra guerra e pandemia. Concorda?
«Sono molto riluttante ad accettarlo. Vedo elementi simili: l’urgenza di mobilitare le risorse nazionali per fare fronte al virus, l’emergenza negli ospedali, la necessità di cooperazione internazionale. Però il Covid è un fattore naturale, non un nemico umano, non è un avversario ideologico. La guerra è causa di distruzioni incomparabili, ha in sé dinamiche assolutamente diverse».
Lei descrive bene come la nostra percezione di un evento bellico cambi con il trascorre del tempo. La guerra giusta diventa sbagliata e viceversa.
«La storia viene continuamente riletta. Ogni epoca, ogni generazione rivedono il passato alla luce dei nuovi valori e dei canoni correnti. Basti pensare alla nuova centralità del ruolo delle donne. Inizialmente la Prima guerra mondiale fu considerata legittima, un evento per cui era valsa la pena combattere, soffrire e morire. Ma già meno di un ventennio dopo quel giudizio diventava negativo, tanto che era necessario un nuovo conflitto per correggere gli effetti perniciosi del primo. All’inizio del secondo conflitto mondiale il regime sovietico alleato di Hitler era visto come pericoloso nemico dagli occidentali. Poi la Germania invase l’Unione Sovietica e Stalin divenne nostro amico. Salvo poi che arrivò la guerra fredda e l’Urss tornò l’avversario da battere, così minaccioso da costringerci a rivedere in chiave critica gli anni precedenti».
C’è di più: le chiavi di lettura nazionali divergono.
«Gli Stati Uniti guardano al 1914-18 come a un evento in cui furono marginali. Centrale nella loro narrativa resta la Seconda guerra mondiale, che li vide trionfare al centro del nuovo ordine internazionale. La Russia di Putin legge con imbarazzo il primo conflitto, dove l’esercito zarista si sfaldò al fronte e la rivoluzione comunista ancora non sa come interpretarla. A Mosca dimenticano volentieri il periodo dell’alleanza con Hitler, ma cantano le glorie della grande guerra patriottica contro i nazisti. Tedeschi e giapponesi hanno poco interesse a commemorare entrambi i conflitti. Per i nazionalisti polacchi va esaltato il periodo finale della Grande guerra, in cui furono sconfitti i loro nemici storici: Germania, impero asburgico, Russia. I francesi devono ancora fare i conti con Vichy e la sua collaborazione allo sterminio degli ebrei. Però la memoria può costituire uno strumento di riconciliazione: il museo della città slovena di Kobarid, una volta chiamata Caporetto, vuole commemorare indistintamente tutti i morti di quella battaglia».
La guerra per porre fine a tutte le guerre?
«Un concetto pericoloso, che è stato utilizzato tante volte nei millenni. Serve per mobilitare la popolazione e motivare le truppe. Facilmente si trasforma in ideologia e persino in religione. L’avversario va battuto, distrutto totalmente, diventa il nemico assoluto, perché la pace passa soltanto attraverso il suo annientamento».
La guerra totale, in cui i civili vengono metodicamente massacrati, sembra costituire una costante. Il progredire della civiltà non è servito a nulla?
«Le armi moderne di distruzione di massa e il progresso della tecnologia bellica rendono molto più semplici i massacri e i genocidi di civili. Lo provano le bombe atomiche sul Giappone e i bombardamenti a tappeto delle città tedesche, come le devastazioni di Stalingraviene