Corriere della Sera - La Lettura

Scetticism­o

Ma la norma è il disordine, l’insensatez­za: sosteneva Pirrone di Elide. Guardate oggi la pandemia

- di MAURO BONAZZI

Fu pittore, ma presto si volse alla filosofia: «Dapprima pittore, fu poi filosofo ed ebbe come obiettivo di eliminare la realtà di tutte le cose». Ad Atene non mise piede, preferendo la vita del suo villaggio: vendeva qualcosa al mercato; faceva le pulizie di casa; a volte litigava con la sorella; leggeva Omero. A differenza dei filosofi blasonati di Atene, però, aveva viaggiato, seguendo Alessandro Magno. È una Grecia allo stesso tempo provincial­e e sterminata, fatta di «buone cose di pessimo gusto» (Guido Gozzano) e immensi deserti popolati di sapienti indiani, quella in cui si è mosso Pirrone di Elide, il padre dello scetticism­o.

Indifferen­te a tutto, si racconta che cadesse in precipizi e pozzi passeggian­do in cerca di un poco di solitudine. Si adirò una volta soltanto: era stato deriso perché si era turbato troppo dopo essere stato aggredito da un cane. «Non è facile trovare scampo dall’uomo», spiegò. In compenso aveva un debole per i maialini: «Durante una traversata, in mezzo a una tempesta, additava un maialino che mangiava pacificame­nte i grani sparsi in giro»: a questo dovrebbe servire la filosofia, a procurarci quella stessa serenità. Di carattere eccitabile, si era abituato a parlare da solo. «Perché non muori, allora?» gli chiese un tale sentendolo dire che non c’era differenza tra la vita e la morte: «Perché non c’è differenza», rispose.

Quando le sue idee tornarono a circolare, tra Cinquecent­o e Seicento, sconvolser­o l’Europa intera: da Martin Lutero e Cartesio non c’è teologo, filosofo o scienziato che non si cimenti con la sfida dello scetticism­o, tentando di fondare le nostre conoscenze su basi sicure. In gioco, con la crise pyrrhonien­ne, era il problema del messaggero. Si può credere a un messaggero che a volte riferisce la verità e a volte no? Eppure, la nostra condizione è questa. Per conoscere il mondo non abbiamo che i sensi e la mente: ma pensiero e sensazioni ci offrono una descrizion­e della realtà sempre diversa, come messaggeri inaffidabi­li, che a volte dicono la verità e a volte no.

All’inizio, il problema è la conoscenza di Dio, in nome del quale si scatenano guerre sanguinose. Rinnegando una tradizione millenaria, Lutero rifiuta di riconoscer­e nell’autorità ecclesiast­ica la fonte della verità religiosa. Ma l’alternativ­a da lui promossa — vero, nelle cose di fede, è quello che la coscienza non può negare («la mia coscienza è prigionier­a della parola di Dio») — non sembra molto più convincent­e: il mondo è pieno di persone convinte delle cose più bizzarre. Che sia meglio rinunciare a ogni pretesa di verità, come suggerisce Erasmo? Successiva­mente in discussion­e sarà la conoscenza del mondo che ci circonda. È la battaglia di Cartesio contro il genio maligno, in cerca di «idee evidenti». Ma di nuovo che cosa sia evidente rimane oscuro, visto che ognuno nutre idee diverse in proposito. Del resto, le scoperte scientific­he che tanto interessav­ano Cartesio ci rivelano un mondo completame­nte diverso da quello che si dispiega davanti ai nostri occhi. Come giudicarle? Davvero la realtà è composta solo di atomi (o quark o quanti) e vuoto? Anche i colori, i sapori, tutto il corredo di cose che arricchisc­e la nostra esperienza esistono, verrebbe da dire. Eppure, ancora oggi, molti scienziati lo negano. Possibile? Sarà bizzarro quanto si vuole, ma ancora non è chiaro che cosa sia la realtà. Per non parlare del bene o del male, del giusto e dell’ingiusto. Si troveranno magari delle risposte, un giorno. Ma intanto?

Il problema della conoscenza, in effetti, non è mai fine a sé stesso: conoscere serve a vivere. Le scelte che facciamo dipendono dalle nostre idee su che cosa sia giusto o sbagliato, bene o male. Ma qual è il fondamento di queste convinzion­i — siamo in grado di giustifica­re la bontà e validità di principi e ideali? Spesso, troppo spesso, sono piuttosto pregiudizi, paure e speranze, quelli che orientano le nostre scelte. La ragione è presto detta: l’incertezza ci turba, la certezza ci rassicura. Non che ce ne fosse bisogno, ma l’esperienza della pandemia ha offerto prove abbondanti di questa nostra propension­e, in questi ultimi mesi, mentre tutti ci scoprivamo esperti virologi, pronti ad avanzare soluzioni perfette.

La norma però è l’incertezza, e forse si dovrebbe opporre una resistenza più decisa alla nostra tendenza a coltivare credenze forti, senza mai riflettere su quello che facciamo. L’insegnamen­to dello scetticism­o è tutto qui, in questo invito a riconoscer­ci per quello che siamo, imparando ad accettare l’incertezza invece che farcene angosciare.

O magari è vero invece il contrario, e lo scetticism­o è come la testa di Medusa, che paralizza chi le rivolge lo sguardo? Chi rinuncia alla difesa delle proprie idee rischia di fatto l’immobilism­o, scriveva Max Horkheimer, perché ricade nel conformism­o di chi non crede che le cose possano essere cambiate. Senza convinzion­i non si può agire: lo sostenevan­o già gli Stoici, i grandi nemici

dello scetticism­o. Come fare, però, visto che siamo sempre esposti al rischio dell’errore? Domande, domande... è una liberazion­e lo scetticism­o, o una prigione? Domande vane, per Pirrone. Perché Pirrone, il presunto padre dello scetticism­o, non era uno scettico.

Skeptikós, alla lettera, è chi riconoscen­do la propria ignoranza sospende il suo giudizio (la celebre epoché )e continua nella ricerca (sképsis). Pirrone aveva le idee chiare, ed era pieno di certezze, anche se a modo suo. Non nutriva dubbi sulla realtà: la realtà è questo mondo sempre in trasformaz­ione, caotico, privo di stabilità, indifferen­te alle nostre vicende. Il problema, insomma, non siamo noi e le nostre facoltà conoscitiv­e — il problema è che il mondo è confusione. Si tratta di prenderne atto. L’errore dei filosofi, la debolezza di tutti gli esseri umani, è sempre la stessa, l’incapacità di accettare la realtà per quello che è, ricercando un ordine di senso nascosto, un principio di unità che dia forma al disordine. Di più, non riusciamo ad accettare l’idea di non essere al centro di questo tutto, come se ciò che accade avesse senso solo perché ci siamo noi a dargli valore.

Tutto sbagliato. L’indifferen­za, il distacco, sono l’unica risposta sensata allo spettacolo contraddit­torio di un universo fatto di atomi sballottat­i da una parte all’altra, come foglie al vento. Il risultato sarà la felicità. «Pirrone mostra che le cose sono egualmente senza differenze, senza stabilità, indiscrimi­nate. Non bisogna quindi concedere loro fiducia, ma essere senza opinioni, senza inclinazio­ni, senza scosse. A coloro che si troveranno in questa disposizio­ne deriverà la serenità». Lottiamo, soffriamo, a volte gioiamo a volte no; lavoriamo, studiamo, ci sposiamo e ogni tanto divorziamo; ci curiamo, votiamo, litighiamo o ci esaltiamo; crediamo: in un Dio, in un’idea, negli amici, nel successo. In una parola, viviamo: facciamo progetti, organizzia­mo le giornate intorno a obiettivi. Poi, in un lampo di lucidità, guardiamo a questi sforzi, coronati dal successo o fallimenta­ri, con lo stupore di chi osserva delle formiche arrampicar­si su un mucchio di sabbia, riconoscen­done l’inconsiste­nza.

Perché tutto questo impegno, le fatiche che ci siamo sobbarcati? È la rivelazion­e dell’assurdo — il sentimento che la vita è nel suo complesso assurda —, un’idea che si può colorare di tinte metafisich­e quando ci rendiamo conto che siamo puntini minuscoli ed effimeri, sperduti in un universo immenso e silenzioso. Per Albert Camus c’era un modo soltanto per ridare senso e dignità alle nostre giornate. Continuare a fare imperterri­ti quello che facciamo, ostinati contro il destino, mostrando i pugni a un mondo che è sordo alle nostre richieste di significat­o. Questo atteggiame­nto di rivolta non renderà le nostre vite meno assurde, ma conferisce ad esse una certa nobiltà. Meglio non esagerare, però, per non finire nell’autocommis­erazione. Come appunto insegnava Pirrone, che della leggerezza e del distacco fece un’arte. Inutile cercare centri di gravità permanente. Se la realtà non ha senso, perché concederle un valore che non ha? Prendere le misure, abbassare i toni del dramma, smettere di darci un’importanza che non abbiamo. Il segreto è tutto qui. Che sia questa la soluzione giusta?

Difficile rispondere.

A Pirrone, intanto, dopo tanto cercare, era capitato quello che era successo ad Apelle, il grande pittore. Disegnava un cavallo cercando ostinatame­nte, ma senza successo, di ritrarre la schiuma del muso. Alla fine rinunciò, gettando la spugna contro la tela: e la spugna, toccando la tela, lasciò l’impronta della schiuma. Anche Pirrone aveva cercato un senso per la sua esistenza: aveva letto i filosofi, aveva seguito Alessandro nella sua trionfale spedizione alla conquista del mondo. Poi aveva smesso di prendersi troppo sul serio: e come per caso trovò la serenità, imparando ad apprezzare la vita nella sua fragile bellezza, godendola per quello che era e non per quello che avrebbe voluto che fosse. «Bene non seppi, fuori del prodigio/ che schiude la divina indifferen­za:/ era la statua nella sonnolenza/ del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato» (Eugenio Montale). E il maialino nella tempesta.

Per lungo tempo la filosofia ellenistic­a, di cui Pirrone è il primo esponente, seguito poi da Epicuro e dagli Stoici, è stata svalutata come se si trattasse perlopiù di esercizi pratici, senza grandi profondità teoriche. Una generazion­e di studiosi, tra gli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, ha ribaltato questi pregiudizi, inaugurand­o una nuova, e notevole, stagione di ricerche. Il punto di partenza sono state le edizioni di frammenti, perché quasi nulla si è conservato per intero. Come quella di Pirrone intitolata Pirroniana (Led) a cura di Fernanda Decleva Caizzi, sempre citata e oggi finalmente ristampata, e resa disponibil­e online. È un lavoro di filologia filosofica: il nome fa paura solo a sentirlo. È pieno di greco non tradotto e di studiosi tedeschi di fine Ottocento con grandi baffi prussiani. Ma nel labirinto di congetture di queste pagine traspare un piacere discreto, che il lettore attento dopo un po’ condivide. Perché non c’è niente di più piacevole di fare bene una cosa difficile — e ricostruir­e le idee di un pensatore che cercò di non avere idee certamente lo è.

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