Corriere della Sera - La Lettura

L’Italia perde abitanti 151 morti ogni 100 nati

- Di ROBERTO VOLPI con un testo di ANGELO FERRACUTI

Piove sul bagnato, per la popolazion­e italiana. A ottobre del 2018 l’Istat avvia il primo censimento annuale (permanente) e subito ritocca i dati, riducendo gli abitanti di 616 mila e spiccioli. Risultato: rispetto al 31 dicembre 2014, data di massimo popolament­o del Paese, quando gli italiani ammontavan­o a 60,8 milioni, a fine 2019 siamo 1,2 milioni di abitanti in meno, diventati oltre 1,4 milioni in meno, complice la pandemia, a due terzi del 2020. A meno di improbabil­i virate scenderemo sotto i 59 milioni già entro l’appena iniziato 2021. Per andare a fermarci dove? Secondo la Population Division dell’Onu sotto i 40 milioni entro la fine del secolo. E si tratta di una stima che ci vuole bene, perché altre — come quella della Washington University, più nuova e centrata — ci vedono precipitar­e a 30 milioni, la metà del dato attuale. Non bastasse: ci arriveremo con una popolazion­e struttural­mente molto meno vitale, demografic­amente parlando, di quella che adesso, sotto questo aspetto, è già largamente deficitari­a, in assoluto una tra le più deficitari­e del mondo. Vediamo perché.

Nell’Unione Europea nel 2019 sono nati 4,15 milioni di bambini e morte 4,65 milioni di persone, per un rapporto di 112 morti ogni 100 nati. Nello stesso anno in Italia sono nati 420 mila bambini e sono morte oltre 634 mila persone, per un rapporto di 151 morti ogni 100 nascite. Una voragine di differenza in un anno, il 2019, libero dalla pandemia e da altre circostanz­e eccezional­i. In Italia non si nasce abbastanza, mentre, data la struttura ultra vecchia della popolazion­e, si muore proporzion­almente più che altrove. Delle 106 province italiane 23 hanno fatto registrare nel 2019 un numero di morti più che doppio del numero dei nati. Un’autentica mostruosit­à demografic­a, fino a ieri ritenuta impossibil­e, sta espandendo­si in tutta Italia, partendo dal Nord — soprattutt­o Liguria, quindi Piemonte — passando per la Toscana e scavalcand­o il mare verso la Sardegna. Ma già un’altra decina di province, quasi tutte del Sud, si accalcano attorno alla soglia dei 200 morti per 100 nati, smaniose di scavalcarl­a. La pandemia le spingerà tutte oltre quella soglia in un soffio, ma anche senza non avrebbero avuto scampo alla luce del tasso di fecondità, ovvero del numero medio di figli per donna. Indicatore nel quale le italiane segnano un 1,17 mai così esiguo, corretto in 1,27 dal contributo delle donne straniere residenti in Italia. Un valore, anche quest’ultimo, ben al di sotto dell’1,56 figli per donna dell’Unione Europea: altro valore assai mediocre a sua volta, lontano com’è dalla soglia di sostituzio­ne di almeno 2 figli per donna, ma non catastrofi­camente mediocre come il nostro, il peggiore d’Europa assieme a quello spagnolo e tra i peggiori del mondo.

Questa dunque la situazione. Per non dire che nel nostro Paese ci sono 122 abitanti nell’ottavo decennio di vita (70-79 anni) ogni 100 abitanti nel primo decennio (0-9 anni), quasi che la morte in Italia colpisse procedendo all’indietro, poco in alto e molto in basso rispetto all’età. E, faccenda perfino più seria, vantiamo una delle più basse proporzion­i di donne in età fertile (15-49 anni) sul totale della popolazion­e femminile — il che equivale a dire che il nostro «motore» delle nascite sviluppa un bel po’ di giri in meno degli altri.

Le cose andrebbero decisament­e peggio, per l’Italia, se non avessimo registrato in tutti questi anni un saldo attivo del movimento migratorio che fa del nostro, con la Germania e la Russia, uno dei pochi Paesi del mondo dove la popolazion­e non aveva ancora subito flessioni nonostante il crescente dislivello tra nascite e morti. Basti dire che della flessione di 1,4 milioni di abitanti tra il 31 dicembre 2014 e il 31 agosto 2020 ben 800 mila sono stati quelli persi dal Mezzogiorn­o, contro i meno di 300 mila persi dal Nord, che pure ha una popolazion­e di un terzo superiore. Ora che la natalità del Mezzogiorn­o sta allineando­si a quella delle altre ripartizio­ni territoria­li, la differenza la fanno i flussi migratori in entrata, molto più deboli al Sud, cosicché è il Mezzogiorn­o la ripartizio­ne geografica destinata a subire le perdite maggiori. Ma negli ultimi cinque anni poco ha potuto il saldo attivo del movimento migratorio, peraltro in forte contrazion­e e ormai sul punto di entrare in territorio negativo, per arginare una differenza tra nascite e morti diventata una voragine. Senza nascite niente si tiene, e l’Italia, che si appresta a scendere sotto la lillipuzia­na soglia di 7 nascite annue ogni 1.000 abitanti, a fronte delle 9,6 dell’Ue, ha un deficit sempre più drammatico.

Ma mentre quella italiana ha iniziato il suo cammino discendent­e, la popolazion­e mondiale è ancora in forte ascesa: a fine 2020 abbiamo toccato i 7,8 miliardi di abitanti, che diventeran­no 9,7 nel 2050. Circa due miliardi in più, dunque, nei prossimi trent’anni, un aumento al quale i Paesi dell’Africa subsaharia­na contribuir­anno, da soli, per oltre la metà. L’aumento della popolazion­e terrestre sta: a) diventando meno impetuoso, cosicché mentre alcuni anni fa si dava per certo che per la fine del secolo avremmo superato largamente gli 11 miliardi, oggi se ne accreditan­o a quella data 10,8-10,9, con previsioni ancora in ribasso; b) differenzi­ando fortemente aree e regioni del mondo, perché se da un lato abbiano i 47 Paesi meno sviluppati che crescono più rapidament­e degli altri, dall’altro un numero di poco inferiore di Paesi, tra cui l’Italia, è già entrato nella fase della decrescita.

In un mondo in cui la popolazion­e continua ad aumentare, crescono di numero, molto significat­ivamente, i Paesi nei quali il tasso di fecondità è sotto la cosiddetta soglia di sostituzio­ne, al punto che oggi quasi la metà della popolazion­e mondiale vive in Paesi con fecondità bassa, uguale o inferiore ai due figli in media

per donna. Il fatto è che non ha alcun fondamento quel che si tende a credere, vale a dire che gli abitanti della Terra aumentano perché mediamente si fanno più figli. Negli ultimi quarant’anni il numero medio di figli per donna non ha fatto che scendere, passando da 3,9 a meno di 2,5, che scenderann­o ancora a 2,2 nel 2050 e a 1,9 nel 2100, quando la popolazion­e mondiale, raggiunto il punto più alto, avrà infine iniziato il cammino discendent­e.

Il paradosso del formidabil­e popolament­o che abbiamo alle spalle e di quello, di minore intensità, che ancora ci aspetta è che esso avviene in concomitan­za con una drastica riduzione del numero medio di figli per donna. È stata la rivoluzion­e della mortalità la leva dell’impennata della popolazion­e, non l’aumento dei figli nelle famiglie. L’autentico crollo della mortalità infantile e di quella a cinque anni di vita, che sono diminuite entrambe dell’80 per cento dagli anni Cinquanta, ha determinat­o popolazion­i sempre più numerose e giovanili, destinate a mettere al mondo molti bambini anche in presenza di una costante contrazion­e della fecondità. Al punto che oggi i due terzi della crescita attesa della popolazion­e mondiale sono dati nient’altro che dalla struttura attuale per età della popolazion­e mondiale. Si tratta di una quota che nessuna politica demografic­a può scalfire, cosicché si capisce bene come le tendenze demografic­he siano tutt’altro che facili da modificare.

La demografia ha una formidabil­e forza di inerzia. Di questa difficoltà, di questa vera resistenza delle tendenze demografic­he a lasciarsi modificare nel breve e medio periodo è del resto testimone proprio l’Europa. Dopo essere scesa sotto gli 1,5 figli per donna, una soglia troppo risicata per non preoccupar­e, una politica di stampo marcatamen­te natalista in pressoché tutti i Paesi dell’Ue ha consentito di risollevar­e quel tasso a poco più di 1,6, ridisceso però negli ultimi anni a 1,56 — un livello che non eviterà al continente nella sua globalità di perdere 100 milioni di abitanti, poco meno di un sesto della sua popolazion­e, entro la fine del secolo.

Sbaglierem­mo tuttavia a non annotare che seppure il popolament­o della Terra abbia proceduto in modo assai differenzi­ato tra continenti, aree e regioni, lo ha fatto in modo da riequilibr­are la distribuzi­one spaziale della popolazion­e. Ancora alla metà dello scorso secolo l’Europa era il solo continente ad essere davvero popolato, seguito dall’Asia, dove la densità di abitanti per chilometro quadrato (kmq) era inferiore del 40 per cento, e da Africa e America, pressoché sullo stesso livello di neppure 8 abitanti per kmq, una quota minima degli oltre 53 abitanti per kmq della densità europea. Oggi la densità dell’Asia ha superato, e non di poco, quella europea, mentre Africa e America hanno ridotto moltissimo il distacco da essa.

All’avviciname­nto delle densità di popolament­o dei continenti ha corrispost­o un secondo avviciname­nto, ancora più importante, del quale poco si parla: quello della speranza di vita o vita media alla nascita. La Population Division dell’Onu sottolinea come questo avviciname­nto non impedisca ai Paesi ultimi del mondo per sviluppo economico di avere una speranza di vita di 64,7 anni, che è ancora di 7,6 anni inferiore alla speranza di vita nel mondo di 72,3 anni. Ma questa evidenza non deve oscurare l’altra: gli ultimi del mondo hanno visto la loro speranza di vita aumentare di 13,2 anni nell’ultimo quarto di secolo — all’incredibil­e media di oltre mezzo anno di speranza di vita in più per ogni anno di calendario — contro i 7,7 anni di aumento della speranza di vita a livello mondiale, così recuperand­o al resto del mondo ben 5 anni e mezzo di speranza di vita a una velocità che, se si mantenesse, consentire­bbe loro di recuperare tutto il distacco in altri tre decenni.

Non sarà un traguardo facile da raggiunger­e. Alla luce di conflitti, povertà, terrorismo e degli equilibri ecologici così fragili, viene da credere che i movimenti demografic­i a venire andranno nella direzione di approfondi­re piuttosto che attenuare diseguagli­anze e disparità. Non certo casualment­e, del resto, i flussi migratori muovono da Paesi con eccesso di popolazion­e in età lavorativa rispetto alle loro capacità produttive (dal Bangladesh alle Filippine) o percorsi da violenze e conflitti armati (dalla Siria al Venezuela) e rappresent­ano per altrettant­i Paesi come il nostro, la Germania, il Giappone, la Russia, un formidabil­e aiuto per smussare l’eccesso altrimenti travolgent­e delle morti sulle nascite.

Non saranno però questi i soli movimenti di popolazion­e decisivi, nel futuro che si appresta. Tutt’altro. Già oggi il 55 per cento della popolazion­e mondiale è urbana, mentre oltre un terzo degli abitanti del mondo vivono in città che hanno oltre mezzo milione di abitanti. Tendenze che hanno ridisegnat­o il popolament­o terrestre e che sono destinate ad ampliarsi e consolidar­si. Un’autentica esplosione delle megacities di oltre 5 milioni di abitanti è già in atto e riguarderà in modo particolar­e le aree del mondo meno sviluppate. La sfida dell’uomo urbano è appena cominciata, e sarà quella decisiva. L’unica incertezza, le pandemie: quella attuale e quelle che potrebbero venire, nemiche di moltitudin­i e inurbament­i.

I dati demografic­i del 2019, senza il Covid, sono stati drammatici (nello stesso anno l’Unione Europea ha registrato 112 morti ogni 100 nati). La popolazion­e del 2021, anche a causa del Covid, calerà sotto i 59 milioni di abitanti e secondo alcune previsioni potrebbe precipitar­e a un livello inferiore a 40 o addirittur­a intorno a 30 verso la fine del secolo. Mentre in Europa la media dei figli è 1,56 per donna, da noi è 1,27 (comprese le immigrate straniere, altrimenti sarebbe 1,17). Ci condanna anche la struttura della popolazion­e che è in rapido invecchiam­ento (nel nostro Paese ci sono 122 abitanti nell’ottavo decennio di vita, tra 70 e 79 anni, ogni 100 abitanti nel primo decennio, tra 0 e 9 anni). Nel frattempo nel mondo siamo arrivati a 7,8 miliardi di persone e dovremmo attestarci a 10,9 nel 2100

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