Corriere della Sera - La Lettura
Il romanzo dal Canada sulle madri in trappola
Si intitola «La spinta» ed è il romanzo d’esordio della canadese Ashley Audrain: attraverso le forme del thriller psicologico fa detonare il ricatto del diventare mamma, dell’essere espropriate di sé per assolvere a un compito che le convenzioni sociali impongono a chi, magari, un figlio non lo voleva avere
Dei molti capitoli che mi hanno fatta sussultare leggendo La
spinta di Ashley Audrain, ce n’è uno su cui sono tornata più volte con il pensiero: Blythe, la voce narrante, è madre da poco, sua figlia Violet ha sette mesi; sono sole in casa, il padre si trova in ufficio come al solito; è pomeriggio, Violet sta dormendo e Blythe, anziché riposare, ne approfitta per fare ciò che ha sempre amato: scrivere. Solo che Violet dorme appena un paio d’ore, e Blythe vorrebbe scrivere molto di più. Il pianto del risveglio le infligge ogni volta una sorda frustrazione. Così decide di non accorrere. Per non sentirla piangere, infila le cuffie nelle orecchie, ascolta musica, si lascia travolgere dall’ispirazione, accesa da un’urgenza nuova. Ancora una pagina e poi basta, si dice. Da quel giorno compirà questa inaudita trasgressione ogni pomeriggio, lasciando la figlia gridare nel lettino per una, due ore, e le sembrerà di non aver mai scritto così bene. Finché il marito, rientrando prima dal lavoro, la coglie in fallo.
Un fallo ignobile, vergognoso; imperdonabile. Lui fresco, elegante, reduce da una giornata di creatività con i colleghi architetti, torna nella casa dove sue moglie sta confinata tutto il giorno, tutti i giorni, senza aiuti, senza distrazioni, a pulire, nutrire e sorvegliare Violet. E s’indigna, trema di rabbia perché lei ha trascurato sua figlia, la sua creatura, che però di fatto lui culla solo un po’ la sera, prima di addormentarsi e risvegliarsi nella solita vita — non stravolta, solo arricchita, dall’arrivo di un figlio.
Mi rendo conto, con queste righe, di aver già fornito una chiave di lettura del romanzo d’esordio della canadese Ashley Audrain, che è un fine thriller psicologico, un meccanismo narrativo furioso e avvincente, ma soprattutto, a mio avviso, uno spudorato documento sulla solitudine delle donne che diventano madri, sulla violenza con cui si tenta di imprigionarle dentro uno stereotipo ingiusto, e impossibile.
Audrain mette a fuoco lo scarto vertiginoso tra narrazione di massa, e di comodo, e realtà; uno scarto su cui ancora oggi si tace pesantemente, ma che ogni madre — e quindi ogni figlio — in misura più o meno lieve, con strascichi più o meno dolorosi, ha sperimentato.
La protagonista è una donna del nostro tempo: laureata, ambiziosa, ha un marito di cui è innamorata e con cui sa divertirsi. Quando rimane incinta, pur avendolo desiderato, ha paura. Un po’ perché proviene da un abbandono: sua madre se n’è andata di casa quando aveva undici anni, e lei teme che questo trauma potrebbe inficiare alla radice la sua possibilità di diventare una «buona madre». Un po’ perché teme di perdere qualcosa di prezioso: la propria indipendenza e complessità.
Ma il racconto della famiglia felice, che è una sola e deve funzionare per tutti allo stesso modo, è così ben congegnato e così ficcante da insinuarsi in una parte di noi scoperta e indifesa, e premere a fondo. Chi non ha subito, come Blythe, questo canto delle sirene che vorrebbe noi donne simili ad angeli, perfettamente pacificate in un abbraccio con il nostro bambino che profuma di latte e innocenza, con l’uomo sullo sfondo, ma adorante, e l’intera società intorno, plaudente? Ha qualcosa di feroce e appagante, questo disegno, dove siamo consegnate a una sorta di santità, ma carnale, perfino sottilmente erotica. Ogni donna è cresciuta con questo modello di perfezione spianato di fronte agli occhi: la maternità che aumenta a dismisura il proprio potere. E la postilla è così ben camuffata che quasi non te ne accorgi: questo potere è murato vivo in una stanza, e finisce appena i figli crescono. O non inizia mai, perché i figli non sono creature ideali, ma altri concreti, stranieri, e possono anche causare, come Violet, un moto di inquietudine e disorientamento. Infine, che il prezzo da pagare per questa sublimazione è altissimo: l’annullamento di sé stesse.
Il tutt’uno con i nostri figli è un imperativo categorico, ammantato di idillio. La madre con il bambino — un quadro che ricorre non a caso ne La spinta —è un’immagine di così straziante bellezza, uno stereotipo di così abbagliante semplicità, da soverchiarci.
Però nessuna donna è un angelo. Nessun bambino lo è.
Siamo persone. Non ci conosciamo, all’inizio. Abbiamo bisogno di imparare ad amarci, ad accettarci per quello che siamo. Blythe e Violet potrebbero forse riuscirci benissimo, se non fossero lasciate sistematicamente sole, e se non si chiedesse loro di corrispondere a quel quadro. La scena in cui Blythe viene scoperta dal marito a scrivere anziché a cullare la bambina, e per questo subisce una dura umiliazione, mi ha fatta gridare dentro di me contro di lui: E tu dov’eri, mentre tua figlia piangeva? Perché tu puoi dedicarti ai tuoi progetti mentre tua moglie non può scrivere il suo racconto e deve per forza, sempre lei, accorrere ogni volta che Violet ha fame o il pannolino bagnato? «Era l’unica cosa di cui t’importasse. Mi volevi vigile e paziente; mi volevi riposata in modo che potessi assolvere ai miei doveri» scrive Blythe. «Una volta t’importava di me come persona: della mia felicità, delle cose che mi facevano stare bene. Adesso ero una fornitrice di servizi. Non mi vedevi più come una donna. Ero solo la madre di tua figlia».
In questo passo per me si gioca la vera partita della parità di genere, che non verrà mai realizzata finché la famiglia sarà impostata su questa mostruosa asimmetria: la madre che, a differenza del padre, tutto sacrifica per la felicità altrui e cessa di essere riconosciuta per ciò che è — ossia, una donna.
Le donne sono tutte diverse. Le madri però si pretende che siano tutte uguali. Che disciolgano la propria identità in una perfezione forgiata a uso e consumo degli altri.
Ma chi sono questi altri che godono di un simile, inaccettabile, sacrificio? Non certo i figli.
Blythe non riesce a voler bene a Violet, e Violet avverte il suo rifiuto. D’altra parte Blythe, come accennato, proviene da una lunga catena di rifiuti che si tramanda di generazione in generazione. Sua madre, sua nonna, sono donne che non hanno retto il peso di questa maternità assoluta, imposta dall’alto come una missione. I vuoti sono anche ereditari e spezzare la catena della ripetizione è una delle imprese più eroiche che si possano tentare. Naturale è ripetere gli errori, culturale è sforzarsi di cambiare, di liberarsi della parte più oscura di sé stessi o, quantomeno, di imparare a sorvegliarla. Ma chi può riuscirci, da solo?
La spinta è una lunga lettera al marito. Blythe racconta la sua storia, chiude i conti con sé stessa e, insieme, si rivolge all’uomo che ha amato e che ha perduto nello stesso istante in cui entrambi sono diventati genitori. O meglio, in cui si sono sforzati di incarnare quel tipo di famiglia pubblicizzata come l’unica giusta: una bella casa, tanti figli, lui con un lavoro di prestigio e lei teneramente dedita a pappine e bagnetti. Ma può esserci davvero un unico modo di essere felici e di essere famiglia?
Se Blythe avesse potuto continuare a esercitare la sua voce, esprimere le sue fragilità, valere per sé stessa; se non si fosse sentita difettosa e manchevole a ogni passo rispetto al dipinto della Madonna con bambino; se non fosse stata costantemente messa sotto esame da parte del marito, e giudicata dalle altre madri in competizione tra loro, forse ce l’avrebbe fatta, a non distruggere la propria vita.
«È il mestiere più bello del mondo, la mamma, eh? Così aveva detto la pediatra, che aveva tre figli, a un appuntamento per le vaccinazioni di Violet. Io le avevo raccontato delle emorroidi che erano
tornate, grosse come acini d’uva; e poi da quanto io e te non avevamo più rapporti». Ma nessuno vuole ascoltare la banale, prosaica realtà. Sui social dilagano fotografie di madri felici e bambini meravigliosi, commentate con frasi del tipo: «Il mio angelo», «La mia principessa», che non fanno altro che reiterare le più antiche illustrazioni della maternità. Quelle in cui i padri non ci sono.
Quando Blythe si azzarda a proporre al marito di far frequentare il nido a Violet per riprendere le fila del suo lavoro, lui le risponde piccato che sua madre li aveva tenuti a casa, i figli, fino alla prima elementare. Altra usanza diffusa: il paragone. La suocera, donna di altra generazione e di ben altra tempra, si era dimostrata eccellente laddove lei, Blythe, stava fallendo miseramente. Non solo: ricorrendo alla storia del nido che sviluppa meglio le facoltà cognitive, stava in realtà cercando di sbarazzarsi di Violet per portare avanti i suoi biechi interessi. Stava anteponendo sé stessa a sua figlia. Questa è un’altra velenosa convinzione dura a morire: che la madre che richiede indietro la propria libertà di persona sia un’egoista. Degenere, non all’altezza del compito. Laddove i padri non sono mai oggetto di paragoni, di esami, di giudizi. Loro possono, e anzi devono, proseguire con il proprio lavoro, i propri hobby, i propri amici. Le donne no. Pena il senso di colpa.
La spinta, attraverso la figura di un padre accessorio ed esigente, illustra bene questa sottocultura velata e dominante.
Eppure Blythe e il marito hanno frequentato l’università insieme. Lui non è un retrivo patriarca. Possibile che ancora
oggi «la stanza tutta per sé» sia lo spazio sistematicamente negato alle donne?
Basterebbe poco, in fondo, per ribaltare questa montagna di infelicità. Ad esempio: che ciascun membro della famiglia fosse considerato un soggetto autonomo, anziché parte di una placenta. E che la famiglia fosse intesa come una polifonia, dove tutti sono chiamati a una certa dose di presenza — in casa, nella cura gli uni degli altri — ma anche di assenza — là fuori, nel mondo, a costruire ciascuno il proprio percorso.
Con il secondo figlio, Sam, Blythe tenta di diventare la madre ideale per riscattarsi da quella anaffettiva e fallimentare che è stata con Violet. E ci riuscirà alla grande: impazzirà d’amore, lo coccolerà visceralmente come non ha mai coccolato l’altra. Peccato che anche questa volta i risultati siano devastanti: amare troppo poco, amare troppo. In entrambi gli eccessi i figli non sono considerati altro da noi, ma fulcro della nostra identità. La minacciano, la realizzano. Il legame che si crea non è una relazione perché i due soggetti non dialogano: si annullano. È una dinamica pericolosa che La spinta narra all’ennesima potenza, fino alle estreme conseguenze, ma che la società incoraggia ogni volta che chiede a una donna di farsi da parte e diventare «una cosa sola» con il proprio bambino.
Nei suoi saggi, la psicoanalista Laura Pigozzi analizza la figura della «plus madre» che divora i figli e al contempo soffoca sé stessa come una delle chiavi per leggere la modernità — una modernità assai poco moderna, in cui la scuola, i padri e ogni altra agenzia educativa sono chiamati a recitare un ruolo troppo debole rispetto alla diade fusionale mamma-bambino. La spinta scava in profondità nell’anima buia di una «plus madre», dando voce alla ribellione del femminile che non può essere ridotto né disciplinato.
Una donna, diventando genitore, non risolve il proprio mistero. Anzi, non deve sacrificarlo in nome di un’astrazione irrealizzabile e tossica: la Madre in maiuscolo. «La madre (in minuscolo) è l’Altra
madre — scrive Laura Pigozzi in Mio figlio mi adora. Figli in ostaggio e genitori
modello (Nottetempo, 2016) — la madre simbolica, che non elide la sua femminilità. (...) Occorre sostenere la donna nella madre, perché la donna viene prima della madre». Ma è proprio questo sostegno che viene a mancare ne La spinta, e nella nostra quotidianità ogni volta che ci viene proposto uno stereotipo di famiglia che, anziché aprirsi al mondo, si chiude, gli si oppone e, così facendo, diventa luogo non di vita, ma di morte.
Mi ha molto colpita che il legame più sincero e autentico del romanzo sia il solo esterno alla famiglia: l’amicizia tra Blythe, rimasta sola dopo una tragedia che non svelerò, e una giovane donna che avrà un ruolo non secondario. Le due, ritagliatosi uno spazio altro, riescono a dialogare, a confrontarsi, a sentirsi accettate e accettabili. È un punto di luce fragile, ma prezioso.
La spinta è la perfetta distruzione del mito della «famiglia del Mulino bianco». Ashley Audrain ha scritto un romanzo spietato, vorticoso, serrato, inquietante, in cui si muovono personaggi senza scampo. L’incipit, in questo senso, è esatto e meraviglioso: «Di notte casa tua splende come se tutto quello che c’è dentro andasse a fuoco». Blythe, tagliata fuori, dalla propria auto osserva la famiglia perfetta che lei non è riuscita a realizzare: adornata di luci natalizie, riscaldata dalla musica, dalle effusioni che si intravedono dai vetri. È solo una montagna di apparenza, ma è così efficace.
Pure, è la verità il luogo che dobbiamo abitare. E se una felicità vera può darsi, è solo nell’imperfezione, nello sperimentare nuovi modi di essere padri e madri.
Dando fuoco alla «famiglia del Mulino Bianco», forse ci si può liberare. Per poi, sulle ceneri, ricostruire.