Corriere della Sera - La Lettura

Una storia in anteprima per il secolo di Highsmith

- Di PATRICIA HIGHSMITH

«La Lettura» ha aperto il numero narrando l’America di oggi. Ebbene, la storia di chiusura è scritta da un’autrice di ieri che racconta l’America di sempre. Una grande scrittrice: si chiama Patricia Highsmith e nacque un secolo fa, il 19 gennaio 1921

«Ellie, mangia la colazione», disse dietro di lei la madre di Elspeth, con la voce di una che pensa a qualcos’altro. «Guarda che bella panna densa c’è stamani».

«Mm-hmm», sussurrò educata Elspeth. Strinse le mani in grembo guardando l’orzo ancora fumante circondato dalla panna come un castello grigio in mezzo a un lago. Era inutile che la madre fingesse che la panna densa fosse un caso, quella mattina. Era densa perché erano a New York. Tutto quello che c’era in tavola quella mattina era stato comperato a caro prezzo. Il caffè aveva un profumo lucido, nero, nell’aria poteva sentire il sapore del bacon. Dietro l’odore della colazione c’era l’odore della stanza, non buono, un miscuglio di profumo e di cipria per signore, del tessuto del tappeto e della tappezzeri­a, della vernice del radiatore caldo. Elspeth aveva capito che molti altri avevano abitato in quella stanza prima di loro. Non era un odore preciso come quello che aveva notato nelle case di certa gente.

«Mamma, questa casa è una chiesa?», chiese Elspeth preoccupat­a.

«No, cara, è un condominio».

Quando erano arrivati, la sera prima, Elspeth insonnolit­a aveva notato i vetri colorati di una porta al piano terra.

«Nemmeno parte di una chiesa?».

«No, Ellie, da dove ti viene questa idea? È solo un grande condominio. Ci sono molti grossi edifici come questo a New York».

Elspeth si girò, convinta.

Si ricordò di come l’aveva esaltata il nome di New York quando lo aveva sentito a casa. Ogni volta che i genitori parlavano di andare a nord, come una sciocchina saltava in piedi e gridava: «Voglio andare a New York subito!». Si era anche vantata con Francey Pat e Jordy, le sue due migliori amiche, che sarebbe andata a Nord e avrebbe avuto un sacco di avventure e visto cose che loro non potevano nemmeno pensare. Ora si sentiva vecchia e si vergognava. La sera prima era andata a letto pensando all’Empire State Building, l’edificio più alto del mondo, e a come ci sarebbe andata su e giù. Ma ora non ci voleva più andare.

Spinse più a fondo le mani intrecciat­e nel grembo e abbassò gli occhi. «Scusami, New York. Scusami».

In silenzio aveva mosso le labbra come se quelle parole le avesse effettivam­ente pronunciat­e.

«Devi scrivere a Mrs Sears e ringraziar­la per il portafogli­o, Ellie. È stata gentile a darti un regalo di addio». «Um-hmm».

Sua madre era in piedi dietro di lei e le accarezzav­a i capelli biondo-castani che si allargavan­o morbidi sul colletto rotondo di cotone del vestito. Rassicurat­a dalle mani della madre, dal motivo conosciuto, appena accennato, che sua madre canticchia­va mentre le mani le scivolavan­o sotto il mento, Elspeth si appoggiò contro di lei e si guardò intorno nella stanza, lenta, preoccupat­a.

La stanza aveva lo strano aspetto di un luogo pubblico. Le cose della famiglia, lì, sembravano fagotti in una sala d’attesa. Le pareti erano di un grigio-bianco freddo ed Elspeth sapeva che le macchie sulle pareti e le chiazze consumate del tappeto erano state fatte da altri, sconosciut­i. Nel bagno c’era una lunga vasca con vere zampe e strisce marroni sotto i rubinetti dove l’acqua continuava a scorrere con un rumore confuso come il mormorio di persone L’aveva sentito la notte scorsa dalla branda nell’angolo dove dormiva. Ora poteva sentirlo a tratti quando la caffettier­a smetteva di borbottare.

«Perché papà è uscito di nuovo?».

«È andato a cercare un giornale. Torna subito».

Il loro orologio ticchettav­a piano su un grande cassettone, segnando un’ora che non aveva alcuna importanza. Dieci e mezzo. La domenica alle dieci e mezzo, di solito stava seduta sulla sedia a dondolo nel portico davanti a casa, con la schiena dritta per non stropiccia­re il vestito, ad aspettare che lo zio John, la zia Lettie e sua cugina Paully arrivasser­o in macchina e la portassero al catechismo. Aspettando, leggeva la pagina dei fumetti sul giornale, ma era distratta, pensava che sarebbe stato meglio leggerla dopo il catechismo.

«Non consegnano i giornali a casa qui?».

«Certo, quando le persone sono qui da un po’ di tempo. Ma siamo arrivati solo ieri, Ellie. Pensi che sappiano che vogliamo un giornale?». Sua madre si chinò e rise, cercando di far ridere anche lei.

Le labbra di Elspeth rimasero strette, una sottile linea orizzontal­e. Per lei non c’era niente di buffo nel fatto che nessuno sapesse o si preoccupas­se se ricevevano o meno il giornale della domenica.

All’improvviso l’intima sensazione di paura che la tormentava esplose di colpo.

«Mamma, che cos’ha questa casa?». La sua voce era acuta come se stesse piangendo.

«Niente, tesoro! Che cosa vuoi dire?».

Elspeth, vergognosa, chinò la testa, come se avesse visto qualcosa che non avrebbe dovuto vedere. In quel momento seppe che sua madre sapeva. C’era qualcosa che non andava con la casa e con l’intera mattinata. Era qualcosa che potevano sentire, udire, assaggiare, annusare — tutto tranne che vedere. Qualcosa che la faceva sentire piccola e che non la faceva respirare, incapace di trovare le parole per raccontare a sua madre quello che sentiva. Se sua madre non ne parlava, forse non se ne poteva parlare. La sensazione sarebbe svanita, si chiese Elspeth, o sarebbe successo qualcosa?

La luce delle due alte finestre era una lama sottile e allo stesso tempo abbagliant­e, arrivava fino agli angoli più remoti della stanza. La madre di Elspeth era ancora pallida per essersi a lungo protetta da un sole impossibil­e e la strana luce sembrava attraversa­rla come un filo d’erba appena uscito dalla terra. Non aveva nemmeno trent’anni e sembrava ancora più giovane.

Smise di guardare le finestre e abbassò la fiamma sotto le fette di bacon, spingendo la paletta sotto le cinque fette e girandole una alla volta.

Provò di nuovo la sensazione che quello che stava facendo fosse un inizio solitario e solenne. Aveva pensato: questo era il primo pasto che cucinava a New York, queste erano le prime fette di bacon. E ora, di nuovo un pensiero assurdo, questa era la prima volta che girava il primo bacon che avrebbero mangiato a New York. C’era, nelle cose semplici che ognuno di loro tre aveva fatto quella mattina, un elemento di dramma iniziale che l’avrebbe fatta ridere se non ci fosse stato anche il senso della loro solitudine. La sensazione di quella domenica sarebbe rimasta con lei per tutta la vita. Questa stanza, indifferen­te alla loro presenza come tutto il Nord, il rumore esterno che ogni tanto diventava assordante e lei sapeva che doveva essere il treno sopraeleva­to, il suono di un fonografo in fondo al corridoio che continuava a suonare una canzone popolare, di nuovo e poi ancora.

Non ci voleva credere, ma si rese conto che tutti i suoi sensi le dicevano che questa mattina e questa città sarebbero diventate così importanti per lei che tutto ciò che sapeva di altre mattine e di un’altra città sarebbe sparito dalla memoria, forse anche intriso di paura. Non avrebbe mai dimenticat­o, e il ricordo le avrebbe sempre fatto rivivere in modo preciso la consapevol­e sensazione di questo istante, in questa stanza.

Spense per la terza volta la fiamma sotto il caffè, poi lentamente riaccese il fornello perché ad A.J. il caffè piaceva forte. Questa mattina aveva voluto cucinare una vera colazione come quella che avrebbero fatto la domenica a casa. Era passato tanto tempo dall’ultima volta che si erano cucinati un pasto, non dalla grande cena di giovedì sera da sua madre prima di prendere il treno. Sembrava passato molto tempo da quando aveva fatto le carote caramellat­e e le aveva portate in tavola. E ora erano qui in un appartamen­to di New York. Sono stati fortunati a trovarlo, anche squallido com’era, perché non potevano permetters­i un albergo troppo a lungo.

Quella mattina il gas non era stato allacciato e l’amministra­tore del condominio le aveva detto che non poteva essere riparato fino a lunedì. Era rimasta interdetta, morendo di vergogna per la sua stessa petulante insistenza, dicendo: «Ma mi piacerebbe molto, se fosse possibile». Alla fine, l’amministra­tore, in modo sgarbato, l’ultima umiliazion­e, aveva chiamato il cueccitate.

Il testo del 1946, mai prima pubblicato in italiano, può essere letto come un apologo perfetto sul sogno americano e sulla sua fragilità, sull’illusione di cambiare luogo, oltre che un colpo d’occhio implacabil­e sulla dolorosa solitudine dell’essere bambini

stode e gli aveva fatto allacciare il gas poco prima che A.J. tornasse dal negozio di alimentari. Non lo aveva raccontato ad A.J. In futuro, ci sarebbero state tante altre piccole difficoltà da affrontare per tutti e due. Era orgogliosa del successo con l’amministra­tore. Tutti le avevano detto che al Nord dovevi insistere e che alla fine ai settentrio­nali saresti piaciuta proprio per questo.

Domani, A.J., in cerca di lavoro, avrebbe dovuto fare così. Era difficile immaginare A.J. che insisteva, ma i campioni del suo lavoro avrebbero parlato da soli. Era il miglior letterista di Birmingham e doveva esserci un lavoro per lui, da qualche parte a New York. All’improvviso si rese conto della fiducia illimitata che aveva in lui.

Era strano, ma adesso che erano a New York aveva più fiducia di quanta ne avesse a casa, quando avevano parlato di venire al Nord. Ne avevano discusso tante volte, prima se andare, poi quando andare, spaventati come uccellini in procinto di spiccare il primo volo dal nido. «Chiunque abbia una vera ambizione vuole andare a New York, Leila», diceva spesso A.J. Ma dopo ogni discussion­e c’era stato un secondo di silenzio, quando ognuno di loro, persino Ellie, aveva visualizza­to un particolar­e sogno di New York, un sogno fatto di grattaciel­i, di folla, e in qualche modo di una vita più felice per tutti loro, ma il sogno era sempre bloccato dalla paura, una volta arrivati, di non essere abbastanza bravi per restare a New York.

E adesso siamo qui, pensò Leila, e il primo problema è risolto. L’amministra­tore quella mattina, per esempio, non era stato il duro che era sembrato all’inizio. Quello che serviva era coraggio e tenacia, ed era sicura che tutti e tre ne avessero abbastanza, sia di coraggio che di tenacia. Vide la nuova pelliccia di zibellino appesa dietro la porta dell’armadio e sentì la commozione di un altro ricordo. La mamma, Lettie e suo fratello Reeves gliel’avevano regalata giovedì sera. Era troppo bella per il resto del suo guardaroba, ancora troppo nuova e comunque troppo per sembrare sua. Gliel’avevano data come una specie di corazza contro il Nord sconosciut­o, un’affermazio­ne della dignità sua e della sua famiglia. La pelliccia, a differenza della stanza, sarebbe cresciuta con lei. Non avrebbe mai più avuto la coscienza della sua giovinezza, della sua vulnerabil­ità e del suo orgoglio come in quel momento, nemmeno la prossima volta che l’avesse guardata.

L’ascensore si chiuse rumorosame­nte nel corridoio e i passi di A.J. risuonaron­o sul pavimento di pietra. Leila sorridendo gli andò incontro, lisciandos­i i capelli, e aprì la porta prima che lui la toccasse.

Il suo viso magro e quasi serio si aprì subito in un sorriso. «Ciao, Lei!», disse da dietro a un pacco di giornali. L’aria fredda di fuori era rimasta nel suo soprabito, nei suoi capelli biondi corti e lisci, e nel profumo di inchiostro fresco del pacco di giornali.

«La colazione ha un buon profumo! Ciao, Ellie. Vedo che ci hai aspettato, come al solito».

Elspeth si torse le mani, ma ora con piacere. «Certo!». Era contenta di aver aspettato.

«Certo?», la prese in giro.

Leila lo guardò mentre appendeva il soprabito nell’armadio e si aggiustava i polsini nel modo garbato e timido che aveva notato la prima volta che lo aveva incontrato. Non avrebbe mai dimenticat­o il suo sorriso

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FRANCESCA CAPELLINI
LE ILLUSTRAZI­ONI DI QUESTA PAGINA E DELLA SUCCESSIVA SONO DI FRANCESCA CAPELLINI

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