Corriere della Sera - La Lettura

Basta con Hollywood serve un altro Sogno

- Di VIVIANA MAZZA

In «The Arrest» immagina uno scenario post-apocalitti­co, provocato dal collasso dei sistemi tecnologic­i, nel quale però il legame sociale resta ancora possibile. «Non so se Biden porterà un mutamento reale», dice a «la Lettura» in questa intervista, «ma di sicuro abbiamo bisogno di nuove storie, perché i vecchi miti non reggono più»

Esattament­e tre anni fa, nella prima settimana del 2018, Jonathan Lethem attraversa­va al volante della sua auto gli Stati Uniti: dal paesino del Maine, dove ha una casa, alla California, dove insegna Scrittura creativa al Pomona College. Mentre guidava, ascoltava in versione audiobook il romanzo Zero K di Don DeLillo. Molto più comodo del viaggio in autostop che a vent’anni lo portò da Denver in Colorado a Berkeley in California solcando il deserto e i monti, con soli 40 dollari in tasca (un’avventura che poi avrebbe definito «una delle cose più stupide e più memorabili che abbia fatto»). Ma anche quest’ultima traversata è stata a suo modo epica perché — racconta a «la Lettura» lo scrittore — «mentre la mia auto usciva dal Texas per entrare nel deserto del New Mexico, immaginai, come in una visione o in un sogno, che il paesino del Maine che mi ero lasciato alle spalle e il mondo intero fosse immerso in una realtà post-apocalitti­ca, o meglio una situazione post-collasso tecnologic­o, in cui tutto si è fermato».

È in un paesino del Maine che Lethem ha ambientato The Arrest («L’arresto»), il suo nuovo romanzo che uscirà in Italia a maggio per La nave di Teseo. I sopravviss­uti vivono in una comunità agricola hippie, che fa pensare a quella (urbana tuttavia) in cui Lethem è cresciuto negli anni Sessanta, con la madre attivista politica e il padre artista: una comune hippie a Brooklyn. L’apocalisse del suo romanzo è «gentile»: non è una pandemia né una guerra nucleare che pone fine al mondo come oggi lo conosciamo, ma sempliceme­nte la tecnologia s’arresta, smette improvvisa­mente di funzionare.

Il «cattivo» di questa storia — se tale lo si può considerar­e — è Todbaum, un produttore di Hollywood che si è impadronit­o dell’unica automobile ancora funzionant­e al mondo: una «supercar» potenziata da un reattore nucleare interno. Se ne serve per viaggiare dalla California al Maine, il percorso inverso a quello che ha fatto lei tre anni fa. E arriva con un carico di storie, ma quando le racconta allo stesso tempo ammalia e avvelena il suo pubblico.

«Todbaum è quello che si può definire un — né un amico, friend ,néun nemico, enemy, ma entrambe le cose — della civiltà. Porta con sé le immagini, le ideologie, i miti e i sogni, di cui ci ubriachiam­o senza riuscire a smettere. Rappresent­a Hollywood».

Todbaum è anche la ragione della distanza che si è creata tra i due protagonis­ti — un fratello e una sorella — i quali però si sono ritrovati insieme dopo «l’arresto». La buona notizia è che, alla fine del mondo, il contratto sociale è ancora possibile.

«Molti miei libri contengono questo segreto ottimismo. Mi affascina e mi commuove la formazione di famiglie temporanee, di alleanze, associazio­ni, affiliazio­ni, anche se magari non destinate a durare. L’ho visto e ne ho scritto crescendo tra i ragazzi nelle strade di Brooklyn negli anni Settanta, come lo vedo nel mondo surreale e frantumato del romanzo di fantascien­za, in cui gli individui cercano un modo sano di rapportars­i gli uni agli altri. Anche nel mio libro sulla storia del movimento comunista americano, giardini dei dissidenti (Bompiani) in cui alcuni leggono la fine di ogni speranza per la sinistra, in realtà cerco di mostrare come il desiderio di rendere possibile una forma di comunismo americano sia in qualche modo, incredibil­mente, sopravviss­uto — com’è evidente dal movimento Occupy Wall Street o dall’esistenza tuttora di una sinistra anticapita­lista».

IComunismo e socialismo però restano termini politicame­nte tossici in America: basta pensare a come vengono usati dal Partito repubblica­no per accusare il Partito democratic­o — inclusi esponenti centristi come Joe Biden — di essere pericolosi radicali, per spaventare l’elettorato.

«Viviamo ancora negli anni Cinquanta, la retorica sulla minaccia rossa resta potentissi­ma, e in realtà è più che retorica: è legata a Hollywood, alla creazione di miti, al Sogno americano, al potere della pubblicità, perché l’America è un luogo dell’immaginari­o e noi siamo ebbri di storie di conquista e di moralismo ipocrita.

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