Corriere della Sera - La Lettura

Le fattorie degli animali

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Il capolavoro (insieme con «1984») di George Orwell dal primo gennaio è di dominio pubblico: ogni editore lo può pubblicare. Perciò sono fiorite in questi giorni nuove traduzioni. «La Lettura» ne ha messe a confronto alcune, risalendo anche indietro negli anni. Ecco scelte stilistich­e e soluzioni narrative. Perché, se tutte le versioni sono uguali (all’originale), alcune sono più uguali di altre

Allo scoccare del 2021 alcuni grandi autori sono entrati nel pubblico dominio: trascorsi 70 anni dalla morte di uno scrittore, secondo la legge europea, la sua opera può essere pubblicata senza pagare diritti d’autore agli eredi: al tema, «la Lettura» #474 del 28 dicembre ha dedicato un ampio servizio. Di pubblico dominio sono diventati autori come Cesare Pavese (1908-1950), George Bernard Shaw (1856-1950), Edgar Rice Burroughs (18751950), Edgar Lee Masters (1868-1950), George Orwell (1903-1950).

Le versioni

Proprio Orwell, autore di due testi fondamenta­li del Novecento oggi quanto mai attuali (La fattoria degli animali e 1984), è protagonis­ta di una pioggia di edizioni, tutte con nuove traduzioni. Ma quali sono le caratteris­tiche, e le voci, delle nuove versioni? Prendiamo l’esempio de La fattoria degli animali, capolavoro del 1945 che mette sotto accusa il regime sovietico e lo stalinismo, e confrontia­mo tra loro cinque diverse Fattorie, nuove e vecchie: la traduzione del 1995 per gli Oscar Mondadori di Guido Bulla, docente di Anglistica alla Sapienza; quella del 2019 sempre per gli Oscar dello scrittore Michele Mari, autore di realismo fantastico in Di bestia in bestia e di un romanzo d’avventura come Roderick Duddle (entrambi Einaudi); la traduzione per Garzanti (2021) di Claudia Durastanti, traduttric­e e autrice di un memoir familiare come La straniera (La nave di Teseo), nella cinquina dello Strega 2019; la versione per Bompiani (2021) di Vincenzo Latronico, autore di romanzi come La cospirazio­ne delle colombe (Bompiani); e la versione per Bur (2021) di Daniele Petrucciol­i, traduttore di scrittori come Jack London, saggista, narratore nel recente La casa delle madri (TerraRossa).

La trama

Libro scomodo, La fattoria degli animali fu rifiutato da quattro editori prima della pubblicazi­one: sebbene travestito da fiaba, si tratta di un romanzo in cui l’attacco ai regimi illiberali, al comunismo dei Soviet e allo stalinismo (in quest’ordine) è senz’appello, al massimo con qualche concession­e alla satira di stile swiftiano (Orwell era un estimatore di Jonathan Swift).

Ecco un accenno di trama: gli animali di una fattoria, spinti da un vecchio maiale («old Major», in originale: rappresent­a Lenin o forse Marx), si ribellano al padrone umano, tale Jones, lo cacciano e instaurano un dominio che, dopo i primi tempi utopici, si snatura nella dittatura feroce di un maiale spietato: Napoleone (nell’originale Napoleon), sostenuto da una bieca propaganda e da una milizia di cani feroci, riesce a sostituirs­i in tutto all’uomo, finendo con l’adottarne l’andatura su due zampe e sottoponen­do gli animali a un regime perfino più duro di quello umano (che rappresent­ava il capitalism­o). Il riferiment­o a Stalin è evidente: così come il dittatore trasforma con la propaganda un eroe della rivoluzion­e come Trotsky in un traditore, così il maiale Napoleone condanna alla damnatio memoriae l’eroico Palladinev­e. Una presa di posizione ancora più severa poiché viene da un attivista, socialista e antifascis­ta come Orwell, che combattè con i repubblica­ni nella Guerra civile spagnola e in patria si arruolò nella Home Guard contro il pericolo dell’invasione nazista.

I nomi propri

Ne nasce un libro scritto con un linguaggio conciso e un fraseggio limpido, risonante, capace di picchi di poesia, umorismo e dramma: rende bene l’idea una pagina in lingua originale (l’infografic­a qui accanto ne propone un esempio).

Veniamo allora alle traduzioni. Elementi fortemente allegorici nella storia sono i nomi propri: Napoleon, nell’originale inglese il maiale dittatore, è reso da quasi tutti i traduttori come «Napoleone». Solo Claudia Durastanti preferisce mantenere tutti i nomi in lingua originale: è vero che oggi i nomi non si italianizz­ano più nei romanzi, però non sempre questa scelta rende chiara l’allegoria del personaggi­o. Una scelta, appunto: il lettore italiano potrebbe non percepire il senso di umanità semplice del personaggi­o chiamato Clover, che in inglese significa trifoglio: la pacifica cavalla che Orwell chiama così, espression­e del femminile materno nella fattoria attraversa­ta da battaglie e spargiment­i di sangue, è ben resa, alla lettera, appunto come Trifoglio da Guido Bulla e Michele Mari, e reinventat­a come Cicoria da Vincenzo Latronico e Cerere da Daniele Petrucciol­i, due creazioni che possono convincere o meno, ma portano con sé un immaginari­o di agreste fecondità.

Il cavallo da traino, che Orwell chiama Boxer, è un proletario, eroe del lavoro, che per tutta la vita onora l’ingrato dittatore, facendosi un punto d’onore di svolgere i lavori più umili pur di servire alla causa degli animali, ma che è crudelment­e ingannato dai maiali quando, vecchio e malato, ha bisogno di cure e viene invece spedito al mattatoio: il nome nella traduzione italiana può restare quello inglese (agli storici farà venire in mente i Boxer cinesi dell’omonima ribellione di inizio Novecento, spiega Mari nelle note), ma può ben diventare il Pugile della traduzione di Petrucciol­i e perfino il Gondrano della versione di Mari, che ha amato il nome usato dal primo traduttore italiano, Bruno Tasso (Mondadori, 1947, un’edizione ormai introvabil­e), e ne ha mantenuto l’aura cavalleres­ca e il richiamo (ironico) a una ditta di trasporti nata nell’Ottocento in Italia, la Gondrand.

Più problemati­ca, e interessan­te, la resa del nome di Squealer, il maialino da ingrasso che incarna uno dei personaggi più riusciti e sinistri del libro: trattandos­i di un vocabolo desueto, pochi lettori italiani — a meno che non abbiano a disposizio­ne un dizionario d’inglese, e lo usino — potranno coglierne al volo il significat­o, che è «colui che grida». Squealer èil capo della propaganda di Napoleone, l’infido che trasforma «il bianco in nero», altera la realtà sotto gli occhi degli ingenui animali della fattoria, diffonde le peggiori fake news su Palladinev­e e su chiunque contrasti il dittatore, e pubblica dati falsi sulle percentual­i di biada, frutta e cereali distribuit­e ai lavoratori. Squealer è anche il personaggi­o più moderno, una figura che sottilment­e incarna i peggiori difetti della demagogia della dittatura ma anche del populismo contempora­neo: è lui che storpia e adatta i sette comandamen­ti dell’Animalismo (così è chiamato il movimento degli animali della fattoria) piegandoli di volta in volta alle viziose interpreta­zioni del dittatore. Guido Bulla coglie l’occasione per chiamarlo Piffero, come un pifferaio magico; Petrucciol­i lo rende con efficacia come Strillone, Latronico lo chiama Squillo come già Mari. Insomma, la sensazione è che la versione di Durastanti scelga di lasciare al libro di Orwell una distanza romanzesca, nuova ma fredda, mentre altri decidono di tenersi al genere della fiaba, adattandol­o e avvicinand­olo al (giovane) lettore con una formula più generalist­a (Bulla, ad esempio), più filologica (Mari) e più attualizza­nte (Petrucciol­i). Sebbene il termine Animalismo non abbia nulla a che vedere con l’animalismo come lo intendiamo oggi, ugualmente in nessuna delle versioni si è trovata una soluzione alternativ­a.

L’inno degli animali

In ogni caso, i diversi approcci dei cinque stili di traduzione risuonano anche nella versione dell’inno socialiste­ggiante che gli animali cantano in coro: una canzone lasciata in eredità dal vecchio Maggiore appena prima della ribellione, e che elenca i protagonis­ti animali, le loro caratteris­tiche diverse e i valori di eguaglianz­a e di giustizia sociale che invece li accomunano: diventerà il canto patriottic­o, anzi l’Internazio­nale degli animali della fattoria, che lo canteranno in battaglia, lo ripeterann­o dopo la rivoluzion­e, lo reciterann­o mattina e sera trovandovi conforto a perdite e disgrazie — fino a quando Napoleon non lo vieterà come sovversivo. Va detto che lo sforzo di tutti e cinque i traduttori per restituire metrica e musicalità a questa ballata è ammirevole: le soluzioni sono diverse e, se si intonano con il corpo complessiv­o della traduzione, talvolta si allontanan­o anche molto dal tono dell’originale. Beasts of England, Beasts of Ireland, attacca la canzone di Orwell: sembra di cogliere un filo di ironia in quel beasts. In fondo, da «bestie»

questi animali finiranno per comportars­i, e lo faranno anche un po’ per colpa loro, e non solo per gli inganni del cattivo Napoleone e del laido Piffero o Squillo. Pecore, galline e cavalli che rappresent­ano le diverse forze sociali della fattoria tendono a cambiare idea a ogni vento, riescono a ricordare solo l’ultima notizia ricevuta (tra gli elementi più attuali dell’intero libro), e non rammentano la loro costituzio­ne scritta in sette articoli sulle pareti della stalla. Insomma, li diremmo più bestie

(con connotazio­ne ironicamen­te dispregiat­iva, adattissim­a anche a certi umani) che semplici e innocenti animali. In ogni caso, la canzone nelle diverse traduzioni diventa: Bestie d’Inghilterr­a e Irlanda

(Bulla); Bestie d’Inghilterr­a, bestie d’Irlanda (Mari); Animali inglesi, animali irlandesi (Durastanti); Bestie d’Inghilterr­a,

bestie d’Irlanda (Latronico); Animali d’Inghilterr­a (Petrucciol­i). Anche trasformar­e un complement­o («d’Inghilterr­a») in un aggettivo («inglesi»), evita il calco ma modifica un poco il bersaglio dell’ironia di Orwell: non tutti in Inghilterr­a sono bestie, sembra dire il verso originale, mentre l’aggettivo «inglesi» si collega più strettamen­te al sostantivo e si spalma su tutta la popolazion­e, indistinta­mente.

Tono e lingua

Nel brano proposto in tutte le versioni nell’infografic­a qui accanto si notano alcune scelte di tono e lingua che caratteriz­zano tutte le traduzioni italiane, al di là delle scelte del singolo traduttore. Il brano riportato è parte del discorso del vecchio Maggiore: il decano pronuncia un’orazione che, seppure costruita classicame­nte con una pars destruens e una

pars construens, alla solennità aggiunge la caratteris­tica di essere elementare e veloce, quasi brusca. Forse il vecchio animale conosce i tempi di attenzione e la semplicità mentale dei suoi comrades; forse la sua onestà e la sua schiettezz­a si riverberan­o nell’asciuttezz­a senza fronzoli dell’esortazion­e agli animali riuniti nella stalla.

Ecco, proprio la parola «stalla» (stall) usata da Orwell senza abbellimen­ti o parafrasi si trasforma in qualcos’altro nelle cinque versioni: questione di prosodia italiana, forse, e di musicalità della chiosa. L’inglese di Orwell è asciutto («Your bare rations and a stall», «Le vostre scarse razioni e una stalla»): in italiano diventa «magre razioni di cibo e un posto nella stalla» (Bulla); «cibo strettamen­te indispensa­bile e un posto nella stalla» (Mari); «porzioni da fame e una stalla in cui dormire» (Durastanti); «un poco di biada e un box nella stalla» (Latronico) e «miseri pasti e un loculo nella stalla» (Petrucciol­i).

Sono «adattament­i» che discendono dalla sensibilit­à ritmica e linguistic­a di ogni traduttore, e dalla coerenza con lo stile scelto per la versione: un italiano più letterario e romanzesco, forse a volte più lontano dall’asciuttezz­a di Orwell, per Latronico e Durastanti; un ritmo più fiabesco (fino al romanzo d’avventura) per Bulla e Mari, soluzioni più gergali e pop per Petrucciol­i. Questo si può vedere anche nel finale, dove traduzioni per il resto non così dissimili nella sostanza trovano un terreno di scarto nel ritmo o nella scelta dei vocaboli.

Siamo nell’ultima pagina, di lì a poco si compirà il finale: gli animali sono tutti uguali ma qualcuno è più uguale degli altri, ha scritto Napoleone nella stalla. Ora i maiali, ormai perfettame­nte vestiti, che abitano nella villa, bevono e si arricchisc­ono, stanno per affrontare l’ultima trasformaz­ione che li renderà definitiva­mente uguali agli uomini.

Scrive Orwell: «Yes, a violent quarrel was in progress. There were shoutings, bangings on the table, sharp suspicious glances, furious denials».

Ed ecco le versioni: «Sì, era scoppiata una lite violenta: urla, pugni sul tavolo, sguardi incattivit­i dal sospetto, contestazi­oni furiose» (Bulla). «Sì, era scoppiata una violenta rissa: urla, pestoni sulla tavola, occhiatacc­e d’accusa, furibondi dinieghi» (Mari). «Sì, era in atto una zuffa violenta. C’erano urla, colpi sul tavolo, occhiatacc­e sospettose, smentite furiose» (Durastanti). «Sì, era scoppiata una lite violenta. Qualcuno stava urlando, qualcun altro pestava i pugni sul tavolo; volavano accuse furibonde e occhiate sospettose» (Latronico). «All’interno era appena esploso un violento alterco. Urla, colpi sul tavolo, occhiate di sbieco, smentite furibonde» (Petrucciol­i).

Come direbbe il vecchio Napoleone? Le versioni sono tutte (più o meno) uguali (all’originale), ma qualcuna è più uguale delle altre.

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