Corriere della Sera - La Lettura
Ma quant’è tenera quest’allegra crudeltà
Dopo tante raccolte di racconti, e non solo, il primo romanzo di Giulio Mozzi è «una riepilogazione, un testamento», praticamente l’opera della sua vita. Un meccanismo a orologeria dove verità e menzogna si confondono
«No se capisse cossa ch’i gai», non si capisce cos’hanno, se la ridono Meneghello e il suo amico-maestro Franco, entrambi cospiratori e partigiani, parlando dei filosofi dell’angoscia (Karl Jaspers, Martin Heidegger, forse qualche epigono italiano…). Questa la frase che mi ronza da sempre per la testa quando leggo le opere di Giulio Mozzi. L’assonanza è superficiale: la battuta è detta a Padova, una delle basi operative di Mozzi, il dialetto è veneto, ma tipo umano e personalità stilistica che ci stanno dietro sono diametralmente opposti. Eppure è così. Tanti anni che lo leggo e lo ammiro, la frase è sempre lì. Ma forse d’ora in poi sarà diverso, visto che in Le ripetizioni, primo romanzo dopo alcune memorabili raccolte di racconti, l’autore ci assicura via «Notizia finale» che questa è l’opera della sua vita, «una riepilogazione, un testamento, un addio, vedete voi, forse una profezia”. Che sia la volta buona? Che cos’è che ha Mozzi, cosa rode lui e i suoi personaggi, alter ego e no?
Le ripetizioni è strutturato in una sequenza di capitoli intitolati ai temi e ai personaggi che gli fanno materia, corredati di numero (esempio: La storia di Viola 1, La storia di Viola 2, La storia delle fototessere 5, eccetera), quasi avesse la struttura della fuga musicale. Ma non è difficile leggerlo come un romanzo classico. I personaggi sono pochi, le vicende si intersecano, il protagonista, Mario, fa da comodo tramite ed è quasi sempre presente o comunque implicato. Alcune scene si svolgono più di una volta, non è certo quale sia vera e quale sia immaginata, non è chiaro chi sia il narratore, talora un «io», talaltra gli amici di Mario, talaltra ancora una voce non identificata, nessuno comunque che abbia un ruolo nella storia narrata. Anche il fatto che quasi ogni evento si svolga il 17 di giugno mette un po’ in allarme, ma lo si accetta presto senza far storie.
A Mario, Mozzi presta un bel po’ delle sue circostanze biografiche, si spera non tutte, visto le atrocità che costui commette. Altri personaggi notevoli sono Viola, che forse sposerà ma che ha comportamenti di degradazione sessuale compulsiva derivanti da un trauma infantile, anche se a lui non importa granché né indagherà in merito. Bianca, che gli si è sottratta dopo aver dichiarato di essere incinta, non si sa se di lui, e che continua però a chiedergli assistenza per la figlia Agnese. Il Gas, ovvero il Grande Pittore Fallito, destinato però a fine romanzo a produrre un capolavoro. Santiago, dedito a pratiche erotiche estreme, come si dice oggi, cui Mario fa da assistente. (Piccolo inciso: Mario gode agevolmente con chiunque si accoppi, dalla potenziale mogliettina allo sventracani). Sullo sfondo, il Terrorista Internazionale, alle cui spalle non è difficile riconoscere Franco Freda; un Martellatore di Monaci, serial killer reo confesso di una generazione precedente; un Capoufficio, maestro mancato, che ha molte caratteristiche della talpa veneta della strage di Piazza Fontana. L’arco temporale coperto è più di un trentennio.
Così riassunto il romanzo suona come una rinfusa inverosimile, ma Mozzi è abilissimo nel connettere storie che potrebbero essere anche lette in autonomia in un arazzo perfettamente decifrabile, se solo si accetta di escludere dal proprio orizzonte la domanda: perché? «Cossa ch’i gai», tutti loro e Mario per primo, che ritrova la propria infanzia perduta sulla base di un falso ricordo (incipit che sta sulla soglia del romanzo come un angelo con la spada fiammeggiante: il Paradiso del Significato è precluso, non restano che creature nude e vergognose, salvo che qui non sembra vergognarsi nessuno, forse perché di vergogna universale è impregnato il fatto stesso di avere relazioni)?
E come potrebbe d’altra parte un senso fare anche solo capolino là dove anche il personaggio alter ego è convinto che in ogni rappresentazione, letteraria, artistica, fotografica, ma forse già solo in ogni nostra immagine degli altri, si rappresenti solo colui che rappresenta? Che domande potrebbero porsi tra di loro i personaggi se non domande su sé stessi, ognuno sigillato nella sua ampolla? Ogni tanto si sputano in faccia verità spiacevoli, questo sì, ma ciò non innesca alcun processo di conversione. Ciascuno resterà com’è, diverrà quello che doveva divenire, caso o destino che sia, incastonato nel bassorilievo gotico che Mozzi gli riserva. E non si sente alcuna necessità di distinguere tra verità e menzogna, fatto e immaginazione, tenerezze e crudeltà irriferibili. Con la più irriferibile di tutte si chiude la vicenda, inaccettabile nel suo arbitrio a meno che il lettore non si sia lasciato irretire nella monotonia metafisica del «perché sì».
Di qui il paradosso di un romanzo con un intreccio di alta orologeria ma in cui non c’è peripezia, nel senso alto, aristotelico del termine. Il povero Edipo e i suoi spettatori alla fine lo sanno «cossa ch’i gai». Mario no. E Giulio Mozzi? Forse, ma solo forse, Mozzi sì, e nel caso la scommessa di aver scritto il proprio testamento sarebbe vinta: la maledizione di poter venire a patti col peccato soltanto reiterandolo, con la tautologia, la ripetizione di cui al titolo. Dopo di che, non è detta l’ultima parola. Come si sa, i testamenti si possono sempre cambiare e non tutte le profezie si avverano.