Corriere della Sera - La Lettura

IL CORPO DELL’ARTISTA

- Di MAURO COVACICH

Ho sempre pensato che ogni persona vada identifica­ta con ciò che fa, che ognuno vada considerat­o per come si configuran­o le sue mansioni ma soprattutt­o i suoi atti e i suoi comportame­nti nello spazio sociale, insomma che il modo più onesto per capire chi sono non è quello di guardarmi dentro, bensì di osservare come appaio agli altri. Si tratta di una forma di ecologia politica che sfronda il campo dalle facili scuse con le quali alcuni giustifica­no condotte assurde o, peggio, criminali, accampando interiorit­à sensibili e sofisticat­e. Il solito esempio è il nazista che al processo di Norimberga dice di possedere uno spirito lirico e di amare la poesia eccetera eccetera.

Ora però la questione si complica. Se voglio identifica­re Pier Paolo Pasolini con i suoi atti, ovvero con le opere che ha compiuto in vita, che cos’era Pasolini? La voce Wikipedia risolve così: poeta, scrittore, regista, sceneggiat­ore, drammaturg­o, giornalist­a, filosofo, pittore, linguista, traduttore, saggista.

D’accordo, ma volendo mettere a fuoco un po’ meglio la sua immagine, che cosa si vede? Be’, si vede un artista. Con ciò intendo una figura pubblica che lega la sua forma espressiva (nel caso di Pasolini, ogni volta una diversa), alla sua presenza, di fatto al suo corpo.

È impossibil­e confrontar­si con l’opera di Pasolini senza fare i conti con il suo arrischiam­ento personale. L’artista, non importa se scrivendo poesie o girando un film o dipingendo un quadro, produce mettendosi in gioco, rispondend­o a viso aperto di ciò che fa. È la franchezza il senso della sua presenza, quella che i Greci chiamavano parresìa. A me sembra un elemento chiave per avvicinars­i ai suoi quadri perché, prescinden­do dal giudizio estetico, aggiunge un fattore, per così dire, performati­vo al puro e semplice segno pittorico.

In altre parole, Pasolini faceva tutto, compreso dipingere, come manifestaz­ioni dell’opera che era lui stesso.

Non si tratta quindi del passatempo di un intellettu­ale eclettico, si tratta di un’altra forma del suo darsi al mondo. Ed è interessan­te che ciò sia avvenuto negli anni del ripiegamen­to friulano, a Casarsa e poi a Versuta, gli anni dell’armistizio e dell’immediato dopoguerra, segnati dalla morte del fratello Guido nell’eccidio di Porzûs (7 febbraio 1945) e, su un altro piano, dalle prime prove di poesia in friulano, dove il dialetto non concede nulla al folclore vernacolar­e, così come la lenga furlana anche in seguito non sarà certo brandita con intenti secessioni­sti o banalmente arcadici, ma riconosciu­ta come parola incontamin­ata, isola sottratta al discorso del cosiddetto sviluppo, inteso come arma del mercato, motrice dalla morale clerico-fascista.

La parola piena della terra, quindi, del cuore, della lingua materna anche in senso stretto (la madre era friulana) contro la lingua televisiva, funzionale se non proprio asservita all’incessante produzione di merci superflue.

Nella stessa direzione lavorerann­o altre grandi voci della poesia friulana, come Amedeo Giacomini, Novella Cantarutti, fino ad arrivare a Pierluigi Cappello.

È questa lenga furlana che va cercata ora nelle tempere e nei disegni a china visibili nel centro studi di Casarsa, la stessa lingua che parlano anche i quadri di Anzil, di Giuseppe Zigaina, di Luigi Zuccheri, dei tre fratelli Basaldella, tradotta nell’informale di Afro e nelle sculture sfaldate di Dino e Mirko (si vedano, coevi ai dipinti di Pasolini, i cancelli delle Fosse Ardeatine a Roma ). Un’asprezza del tratto che si fa dolce, musicale nella dizione.

In questa compenetra­zione di voce e figura c’è tutta la memoria del gesto, che rimanda di nuovo al corpo.

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