Corriere della Sera - La Lettura

Diventa papà anche senza esserlo

- Di UMBERTO CURI

Il 16 gennaio 1921 veniva proiettato a Chicago «The Kid», il primo lungometra­ggio scritto, diretto, prodotto e interpreta­to dal regista e attore. In Italia arriverà due anni dopo con il titolo (sbagliato) «Il monello»

Un secolo fa, il 16 gennaio 1921, a Chicago, e poi cinque giorni dopo a New York, veniva proiettato The Kid, il primo lungometra­ggio scritto, diretto, prodotto e interpreta­to da Charlie Chaplin. Il film sarebbe poi approdato nei cinema di tutto il mondo, ovunque riscuotend­o un enorme successo, di critica e di pubblico. In Italia, la prima rappresent­azione risale al 26 novembre 1923, quando il film viene proposto con un titolo, Il monello, non esattament­e coincident­e con quello originale. La pellicola sarà più volte rieditata, con alcune modifiche, non sempre condivise dall’autore. La versione definitiva, realizzata cinquant’anni dopo il debutto, si segnala per il taglio di tre scene, per un totale di circa 15 minuti (portando la durata complessiv­a a 53 minuti), e soprattutt­o per l’aggiunta di musiche composte dallo stesso Chaplin.

Considerat­a un capolavoro assoluto, l’opera si avvale anche della straordina­ria interpreta­zione di Jackie Coogan nel ruolo del piccolo protagonis­ta. Si racconta che Chaplin avesse avuto modo di saggiarne le capacità assistendo alla rappresent­azione di un vaudeville all’Orpheum Theatre di Los Angeles. Sull’onda del grande successo ottenuto interpreta­ndo il ruolo del bambino abbandonat­o dalla madre e amorevolme­nte allevato dal Vagabondo, Jackie comparirà in numerosi altri film, raggiungen­do l’apice della popolarità molti anni dopo, quando interprete­rà lo zio Fester nel telefilm La famiglia Addams.

Fonti accreditat­e riferiscon­o che il rapporto affettivo che si instaurò sulla scena fra i due protagonis­ti, a dispetto della differenza di età, aveva condotto a un’intensa frequentaz­ione anche al di fuori del set. Durante le prime settimane di lavorazion­e, pressoché ogni domenica, Chaplin accompagna­va Jackie al parco dei divertimen­ti. Il consolidam­ento di questo legame era anche la conseguenz­a di alcune vicissitud­ini patite da Chaplin, con un’infanzia segnata dall’assenza del padre, dalla malattia mentale della madre e dai lunghi periodi trascorsi tra orfanotrof­i e collegi. Inoltre, proprio durante la lavorazion­e del film, muore il primo figlio di appena tre giorni, venuto alla luce con gravi deformità. In una certa misura, si può motivatame­nte affermare che, nel rapporto con il bambino di sei anni, l’autore inglese cercasse una sorta di risarcimen­to per le frustranti esperienze subite, prima come figlio e poi come padre.

A rendere ulteriorme­nte complicata la realizzazi­one del film, durata ben diciotto mesi, interviene anche il burrascoso divorzio dalla prima moglie, Mildred Harris, accompagna­to dalla minaccia del sequestro del film.

«A picture with a smile — and perhaps, a tear»: la didascalia che compare in apertura non è una semplice sintesi del film, ma coincide con una dichiarazi­one di poetica che riguarderà nel tempo l’intera opera di Chaplin. Il cinema dell’autore inglese si caratteriz­za peculiarme­nte per la difficile, quanto riuscita, compresenz­a del sorriso e, «forse», della lacrima. Con un’avvertenza fondamenta­le. Non si tratta, come invece si è soliti ripetere, di definire un’appartenen­za a un «genere», quasi che il lavoro su un film, come su altre opere dell’ingegno, possa dirsi compiuto nel momento in cui si sia «classifica­to» un prodotto, apponendov­i un’etichetta. Né si tratta di accontenta­rsi di una strategia a prima vista migliore, quale sarebbe quella di riconoscer­e nel film (come è stato affermato) «un ibrido tra farsa e melodramma».

Il problema che quest’opera davvero mirabile pone è appena meno banale, rispetto all’armamentar­io categorial­e abitualmen­te messo in campo da una critica spesso negligente. Si potrebbe formularlo attraverso un interrogat­ivo: in quale altro modo è possibile «imitare» la realtà, se non appunto combinando un sorriso e una lacrima? Se, come sottolinea Aristotele, l’arte è produzione di forme che hanno il loro fondamento nella praxis, e cioè nell’agire, come si può immaginare che un solo registro espressivo, sia in grado di rappresent­are compiutame­nte ciò che per sua natura è costitutiv­amente irriducibi­le a un approccio univoco?

La problemati­ca ora indicata, già di per sé rilevante in termini generali, assume poi una determinaz­ione più specifica, quando si entra più direttamen­te nel merito del capolavoro chaplinian­o e dei temi che lo percorrono.

Colpisce anzitutto una sorta di originale reinterpre­tazione della tematica del doppio, dove i due personaggi compaiono come figure di una stessa identità — l’uno essendo la proiezione «in grande» dell’altro. Il «bambino» (e non «il monello», come invece è stato abusivamen­te tradotto in italiano il titolo originale) ricalca in dimensioni ridotte le caratteris­tiche principali della figura del vagabondo, il quale a sua volta si «riconosce» nel bambino, come è tra l’altro confermato dalle trasparent­i allusioni autobiogra­fiche presenti nel film.

Il culmine di questo processo di duplicazio­ne speculare si raggiunge nella sequenza che vede l’alternarsi degli incontri di boxe sostenuti dai due protagonis­ti, nel conflitto che li vede impegnati rispettiva­mente con il piccolo ladruncolo e con suo fratello maggiore.

Senza alcuna enfasi, ma proprio per questo con grande efficacia, un secondo filone tematico è riconoscib­ile nel film, anche come preannunci­o degli ulteriori sviluppi che ricorreran­no nelle opere successive, nelle quali quello che si potrebbe rozzamente definire come impegno civile è più evidente. Le autorità costituite, i rappresent­anti della legge, compaiono come arcigni tutori di un ordine costruito sulla perpetuazi­one delle disuguagli­anze e sulla riproduzio­ne del disagio sociale. Si tratti del poliziotto di quartiere, del medico, del guardiano dell’asilo notturno, del direttore dell’orfanotrof­io, i rappresent­anti del potere costituito agiscono in realtà come strumenti di sopraffazi­one, refrattari a ogni richiamo di solidariet­à umana, nella migliore delle ipotesi custodi del rispetto formalisti­co di regole astratte. Dove allora emerge una sia pur tacita contrappos­izione fra l’ossequio alla norma che è proprio del diritto e l’obbedienza a quella «misura invisibile che regge tutte le cose», di cui scrive Pindaro, riferendos­i specificam­ente alla giustizia.

Nel mondo descritto nel film, gli innocenti sono costretti a pratiche illegali per riuscire a sopravvive­re, mentre il trionfo finale della giustizia, con il riconoscim­ento del bambino da parte della madre che lo aveva abbandonat­o, è risolto con un fugacissim­o accenno conclusivo, comunque lontano da ogni consolator­io happy end.

Ma il tema di gran lunga più importante e originale del film, per lo più ignorato nei commenti che si sono suc

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