Corriere della Sera - La Lettura
Una procedura immaginata per le 13 colonie del Settecento
George Washington giurò come primo presidente degli Stati Uniti il 30 aprile 1789. Lo fece a New York, allora capitale del nuovo Stato, dopo un viaggio di venti giorni in carrozza e in battello, segnato da brevi soste in cittadine plaudenti, dalla sua abitazione di Mount Vernon in Virginia, dove il 6 aprile gli era stata ufficialmente comunicata dal Congresso la notizia dell’elezione. Quest’ultimo, eletto nel novembre 1788, avrebbe dovuto certificarla il 4 marzo quando si era insediato, non fosse che vari deputati e senatori non erano riusciti ad arrivare in tempo ed era mancato il quorum. Anche l’elezione presidenziale si era tenuta in novembre; ma la Costituzione stabilisce un sistema di elezione indiretta per cui negli Stati si vota per i grandi elettori i cui voti sono trasmessi al Congresso che li conta e nomina il vincitore. Questi, però, prima di insediarsi deve giurare fedeltà alla Costituzione nella cerimonia di
inauguration (Biden giurerà sulla Bibbia il 20 gennaio davanti al Campidoglio appena devastato dai sostenitori di Trump nel pomeriggio dell’Epifania).
Si può capire la ratio di un processo così farraginoso facendo attenzione all’intreccio fra il dover pensare uno Stato repubblicano in un’età di monarchie, il federalismo adottato per necessità e le difficili comunicazioni di fine Settecento in uno Stato già più grande di tutti quelli europei, tranne la Russia. Occorreva, infatti, darsi un monarca, cioè un capo di Stato, repubblicano. Un interrogativo non da poco alla Convenzione costituzionale di Filadelfia del 1787, dove si pensò anche a una presidenza triadica. Un monarca, per di più, che doveva essere espressione della sovranità popolare, principio fondante della rivoluzione del 1776; ma l’unica realtà del popolo americano erano allora i popoli dei singoli Stati e gli Stati, che avevano istituzioni efficienti fin dall’età coloniale, avevano storie, culture, interessi tanto diversi che si dovette inventare il federalismo per farli coesistere. E il federalismo portò alla trafila dei grandi elettori che trasmettono al Congresso federale, cioè nazionale, la volontà del popolo degli Stati. Nel Settecento il popolo erano praticamente le élite che dominavano i Parlamenti statali e non per nulla furono quasi ovunque questi a designare gli elettori. Le poche strade e la loro difficile praticabilità rendevano il processo arduo e lento.
Il bizantino sistema statunitense, con i suoi mesi di attesa fra il voto e l’insediamento del presidente, è giunto quasi inalterato fino a noi. La cosa appare bizzarra in un Paese diventato simbolo di velocità; ma è il
custom, la forza della tradizione istituzionale ereditata dalla Gran Bretagna, ad aver mantenuto il sistema. È il custom costituzionale a essere il perno che ha consentito agli Stati Uniti di essere senza traumi il Paese del cambiamento, un Paese «liquido» fin dal Settecento. E questo
custom ha reso simbolico e immutabile l’intricato, lunghissimo processo di elezione del presidente fino all’inauguration, una sorta di rito che con il crescere della potenza americana e dei poteri presidenziali è divenuto un grande spettacolo pubblico.