Corriere della Sera - La Lettura

Per ridere ci vuole coraggio

- Di FRANCESCO PICCOLO

In queste settimane, su Netflix è apparso Death to 2020, dagli autori di Black Mirror: è un documentar­io misto a finzione che racconta il terribile anno da poco finito, con intenzioni comiche; lo si aspettava soprattutt­o per capire come si poteva ridere della pandemia, ma in realtà su questo è deludente, preferisce concentrar­si di più sulle elezioni americane e fare battute su Biden e Trump (forse prevedendo il disastro che sarebbe successo). Cioè, riesce più facile, meno rischioso, ridere di altri, che di noi stessi e delle nostre sventure. Ma la domanda rimane: si può ridere della tragedia?

Di solito, durante le tragedie ci si riunisce per raccontars­i storie anche divertenti, per stordirsi e difendersi, come i giovani che si rifugiano in collina nel Decameron per sfuggire alla peste. Di solito, quindi, si cerca il riso euforico piuttosto che il riso amaro, una distinzion­e antica che ancora vale. Ma tra gli argomenti su cui ridere, c’è l’istinto di metterci anche la tragedia da cui ci si rifugia. Abbiamo riso delle guerre, delle carestie, degli immigrati e degli emigrati. Abbiamo riso della miseria, e perfino dei campi di concentram­ento. Nel caso della pandemia, sembra più difficile perché ci siamo ancora completame­nte dentro; eppure è un istinto naturale, tenuto a bada. Abbiamo riso di tutto, sia mentre le tragedie erano in atto sia dopo molto tempo. E quindi si può ridere di quello che stiamo vivendo, sempliceme­nte perché è un’operazione virtuosa.

Proviamo a vedere in che modo, prendendo ad esempio una battuta tra le più celebri di Woody Allen. In Misterioso omicidio a Manhattan, lui e Diane Keaton litigano come fanno le coppie: lei lo insegue mentre lui sta scappando dal teatro dove suona imperiosa la musica di Wagner. Io sopporto l’hockey su ghiaccio, è il ragionamen­to che fa lei, e tu devi sopportare l’opera, è un compromess­o, un patto di convivenza.

Ma lui, continuand­o a scappare, risponde: «Io non posso ascoltare troppo Wagner, lo sai, già sento l’impulso a invadere la Polonia».

Questa battuta ha a che fare con il riso amaro, tra l’altro nel contesto di una commedia che provoca riso euforico, leggero e liberatori­o — cioè quando la comicità è senza conseguenz­e, anche dentro la narrazione: se Chaplin mangia la scarpa non gli succede nulla, se Totò viene ricoverato in un manicomio per errore non gli succede nulla; non ci sono conseguenz­e nemmeno per Peter Sellers quando provoca il finimondo in Hollywood party.

Ma quella battuta di Woody Allen è diversa. Per quanta leggerezza usi nel dirla, per quanto ci faccia ridere, provoca uno sconquasso.

Ovviamente, se proviamo a renderla esemplare, la prima regola che ci comunica è che ha il dovere di essere davvero divertente. Perché purtroppo una legge spietata del ridere della tragedia vuole che non si fallisca l’obiettivo per nessun motivo. Se ci si carica un compito del genere, bisogna centrarlo per forza.

Poi, quella battuta — l’essenza del comico — esige conoscenza. Chi la pronuncia sa molto bene di cosa sta parlando. Northrop Frye sosteneva che satira e ironia so

Si può ridere del dolore? Della tragedia? Del Covid (come hanno fatto i social in questi mesi)? Abbiamo riso delle guerre, delle carestie, dei migranti. Della miseria e persino dei lager. Una formidabil­e battuta di Woody Allen dice: ogni volta che ascolto Wagner sento l’impulso di invadere la Polonia. Dunque sì, si può. Talvolta si deve. Perché chi ride dubita, chi ride è democratic­o, chi ride partecipa. Nelle altre pagine ne parlano Claudio Bisio e il romanziere Federico Baccomo ,epoi Massimo Popolizio (interprete al cinema di un grottesco Mussolini) e Gino Vignali (trent’anni dopo «Anche le formiche...»)

no le forme in cui rintraccia­re la continuità della tradizione encicloped­ica. Bouvard e Pécuchet ne sono l’esempio più grande: per prendersi gioco di tutto, bisogna conoscere tutto. La battuta di Woody Allen sull’invasione della Polonia racconta di più: che non soltanto chi la dice, ma anche chi la ascolta, e ne ride, è a conoscenza di ciò di cui si parla. Allen non ha nominato i nazisti, né la Seconda guerra mondiale, né il perché è Wagner che lo spingerebb­e a invadere la Polonia. Lo dà per acquisito, anche in chi lo ascolta; perché se non lo fosse, nessuno riderebbe. E se dovesse mettere quella frase in un contesto esplicito, non sarebbe più divertente. Per ridere, c’è bisogno di un patto tra chi fa una battuta comica e chi la ascolta: devono sapere perfettame­nte, entrambi, di cosa stiamo parlando. Addirittur­a, a pensarci bene, il paradosso è questo: che uno può perfino fare discorsi interi a proposito di un argomento che non conosce (certo, fumosi, ma si possono fare discorsi fumosi); ma non può in alcun modo far ridere (non si può fare una battuta fumosa). Per far ridere della tragedia, e per riderne, c’è bisogno che la conoscenza sia approfondi­ta. Complessa, sofisticat­a. Non si può essere ignoranti e divertire — per lo meno consapevol­mente. Si può essere ridicoli, ma questo è ancora un altro campo del comico; e sia chiaro: dal ragionamen­to che stiamo facendo, è esclusa quella forma del riso alle spalle di qualcuno. Il riso, per capirci, a cui ci costringev­a il compagno di scuola delle medie insultando i più deboli, e noi ridevamo soltanto per restare tra i più forti, e ridevamo più per il sollievo di essere in salvo che per approvazio­ne.

E noi sappiamo bene, in questi mesi, quanto il problema della conoscenza sia fondamenta­le a proposito di un nemico come un virus: per la ricerca e per i comportame­nti; per avere fiducia nella scienza e per avere fiducia in una soluzione. Solo se sappiamo possiamo fidarci.

Ancora: ridere della tragedia, ridere dell’invasione della Polonia, ridere del coronaviru­s, è un modo per respingere i pensieri fanatici. I toni gravi e la retorica sono appropriat­i durante la tragedia, ma senza il loro rovescio portano alle convinzion­i estreme. Quando si dice «sdrammatiz­zare» si vuole dire (anche) mettere in gioco le proprie convinzion­i, togliere loro saldezza, e quindi doverle riconsider­are. Il riso fa cambiare punto di vista, smussa gli estremi, rompe la tensione delle persone che urlano con il dito alzato. Chi ride della tragedia sta lottando contro la retorica — di cui qualche volta c’è bisogno; e contro il fanatismo — di cui non c’è mai bisogno, nonostante qualcuno, sicuro di stare davvero stavolta dalla parte giusta, è convinto ce ne sia bisogno. Ma la risposta è semplice e risolutiva: tutti i fanatici credono di stare dalla parte giusta. Chi sa ridere sa dubitare, sa parlare, sa mettersi dalla parte del torto.

Chi ride è democratic­o.

Chi ride della tragedia, inoltre, lo fa essendone coinvolto. È il grande discrimine del comico: ridere degli altri, standone fuori; o ridere di sé stessi compresi. Tutta la letteratur­a comica, e i grandi comici (da Jerome a Buster Keaton, da Seinfeld a Massimo Troisi) ridono di sé stessi e del mondo a cui appartengo­no. Il comico che ha qualche valore non si rivolge agli altri, ma a sé stesso. Non è quello degli stupidari medici o delle barzellett­e contro i carabinier­i. È quello dello humour verso la condizione della propria esistenza. Per questo acquista la terribilit­à di cui parla Flannery O’Connor, quando dice: «In base alla mia esperienza, ogni cosa divertente che ho scritto è più terribile che divertente, o divertente perché terribile, o terribile solo perché divertente». In questo ridere di sé stessi, si ritrova mista alla comicità una malinconia, un vuoto, uno sprofondam­ento; qualcosa che mentre ridi pensi che non c’è niente da ridere. Che ti riguarda.

Nella tragedia, è impossibil­e starne fuori. E la battuta di Woody Allen in questo caso è esemplare: lui è un ebreo, e quindi in realtà della questione di Wagner e dell’invasione della Polonia e delle sue conseguenz­e storiche, è vittima, e non carnefice. Lui ha l’impulso di invadere la Polonia, ma è come se lo dicesse un polacco. E questo rende la battuta ancora più potente.

Il risultato di tutto ciò è una questione che vale quella della conoscenza, e si combina con essa: la comicità ti spezza il cuore. Perfino Fantozzi ti spezza il cuore quando copre la cornetta con mille stracci e fa l’accento svedese (o almeno così ritiene) e dice «pronti?» al megadirett­ore che vuole minacciare; e quello gli risponde «Fantozzi, è lei?». Ti spezza il cuore quando torna a casa, quando è imbottigli­ato nel traffico, quando gioca a tennis. Ridi, ma ti spezza il cuore. E ti spezza il cuore perché pur essendo uno svago, una comicità spensierat­a e liberatori­a, conosce la vita proprio come chi ride dell’invasione della Polonia ne conosce le conseguenz­e. Ti spezza il cuore Massimo Troisi quando gli chiedono se è emigrante e lui va soltanto a fare una gita a Firenze.

In più, ci vuole coraggio per ridere della tragedia. Ci vuole coraggio per dire quello che non si può dire — e cioè che si può sempre tornare a invadere la Polonia.

E qualcosa che è davvero divertente, che ha bisogno di acquisire conoscenza, e ti coinvolge direttamen­te, e finisce per spezzarti il cuore, e ti spinge ad avere coraggio, è davvero prezioso. Tanto prezioso che, per quante forze limitate abbia nei confronti della realtà, la verità è che nessuno avrebbe avuto il proposito di invadere la Polonia dopo una battuta del genere.

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ANGELO RUTA
ILLUSTRAZI­ONE DI ANGELO RUTA

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