Corriere della Sera - La Lettura
Il mondo di Yasmina Reza Disordine, come la vita
È autrice di romanzi di raffinata spietatezza e grande drammaturga. Marco Missiroli l’ha inseguita per un mese e mezzo. Cechov diceva che bisogna cercare la vita nella punteggiatura. Quella delle opere della scrittrice francese è un punto interrogativo
La conversazione con Yasmina Reza è avvenuta per posta elettronica, in circa un mese e mezzo. Avevamo intenzione di incontrarci a Parigi, sua città di residenza, o a Venezia, dove la scrittrice ha casa, o a Milano. Non è stato possibile a causa della pandemia.
Reza è la più grande drammaturga vivente, e autrice di romanzi di raffinata spietatezza. Non ama le interviste, ne rilascia con il contagocce ed è preoccupata che le sue parole non siano tradotte con precisione. Abbiamo conversato anche in italiano, lingua che parla per un legame forte con il nostro Paese: «Faccio parte di una generazione in parte nutrita dal vostro cinema, dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta. Non si poteva non amare l’Italia attraverso quel cinema. Genio, audacia, senso estetico, c’era tutto. Sono stata anche una appassionata lettrice di scrittori italiani del XX secolo». In lei confluisce la nostra cultura, e soprattutto Anton Cechov.
È stato proprio lo scrittore russo a dire «Cercate nella punteggiatura: lì si nasconde la vita». Nelle opere di Yasmina Reza è il punto interrogativo a nascondere chi siamo davvero: il dubbio, il bivio, le domande che non abbiamo il coraggio di farci e che scoperchiano verità nascoste.
«Ammettendo che io possa avere un’idea precisa dei miei moventi narrativi, certamente il dubbio vi occupa un posto centrale. Mi sembra — e tenderei sempre a dire mi sembra perché ho grandi difficoltà ad avere una visione critica del mio proprio lavoro — che io scriva solo per porre delle domande e non per mettere in ordine il mondo. Le domande possono andare dalle più banali alle più raffinate, senza alcuna scala di valori. I personaggi che invento hanno raramente delle certezze e anche se maneggiano la cattiva fede, come spesso accade nei miei testi, in un modo o nell’altro finiscono sempre per scantonare in logiche impreviste. In realtà, l’assenza di un progetto prestabilito nella scrittura rende possibili tutti i bivi intellettuali ed emotivi. Indubbiamente è nelle esitazioni, negli abissi nervosi, nei dubbi che si trova l’essenziale di un carattere».
In quegli abissi nervosi si annida il suo dio del massacro, una libertà narrativa che sembra rispondere solo alla vita.
«Dopo un certo numero di pagine, abbastanza presto in verità, che si tratti di un romanzo o di un testo drammaturgico, i personaggi hanno già una loro autonomia. Non è più possibile guidarli con la forza. Sono resistenti. È per questo che il progetto prestabilito mi sembra un’impossibilità quasi fisiologica. La grande libertà è iniziale, si manifesta quando si decidono i personaggi, il loro nome, il loro mestiere, cosa li lega l’uno all’altro. Dopo diventa in qualche modo un’avventura condivisa.
Non so niente del libro quando comincio a scriverlo. Parto sempre da una scena, che tra l’altro non è necessariamente la prima. Una scena che vedo, che mi interessa per ragioni puramente intuitive, atmosferiche, per nulla intellettuali. Come una fotografia che ti viene voglia di scattare. E da quel momento in avanti le cose si articolano intorno a, oppure a partire da, quella scena. In Felici i felici, un libro la cui struttura in fin dei conti è piuttosto sofisticata, avevo scritto la prima scena del supermercato senza immaginare che mi sarei diretta verso un girotondo o una costellazione di personaggi tutti segretamente legati gli uni agli altri. Le prime pagine che ho scritto per Babilonia si trovano al centro del libro. Una coppia si mette a letto dopo aver dato una festa a casa, suonano alla porta, è il vicino del piano di sopra che ha ucciso sua moglie. Vedevo la scena senza sapere nient’altro, l’ho scritta e intorno ci ho costruito il libro. Che cosa sia a guidarmi mi è davvero ignoto. È un impulso misterioso. Le cose si chiariscono poco alla volta, a mano a mano che il lavoro procede. Anne-Marie la Beltà, per esempio, è dedicata a un certo attore che mi ha ispirato per il testo. Eppure il personaggio è una donna e la sua vita non è affatto quella di quest’attore. Ma qualcosa in lui, nella consistenza della sua persona mi ha permesso di creare Anne-Marie e questo monumento dedicato ad attori sconosciuti, e di mettere nel testo cose molto personali».
Impulsi misteriosi imprigionati in confini precisi: se pensiamo a «Babilonia», a «Anne-Marie la Beltà», a molti suoi testi, gli esseri umani si muovono in «acquari» offrendo di sé stessi la versione peggiore ma anche la più autentica. In questi spazi circoscritti converge Reza drammaturga e Reza autrice di romanzi.
«È interessante che lei parli di acquari. La scenografia della più bella messinscena de Il dio del massacro era appunto un acquario. Era una splendida produzione di Jürgen Gosch alla Schauspielhaus di Zurigo. La domanda sul genere mi viene fatta spesso: teatro, romanzo o racconti... Sinceramente credo non ci sia molta differenza, a parte un desiderio casuale. Non esprimo nulla di fondamentalmente diverso in un genere o nell’altro. Ho iniziato abbastanza tardi a scrivere romanzi. La mia formazione teatrale ha esercitato una grande influenza. Nei romanzi ho mantenuto una forma di unità di tempo, di luogo e quasi di azione. E la regalità dei personaggi. In fondo sono felice nei vincoli. Mi piace scrivere all’interno dell’esiguo corridoio che mi autoimpongo. La decisione di partenza è una decisione d’impulso. Può scaturire da un desiderio collaterale: ho voglia di vedere gente o no? Se sì, allora mi oriento verso la forma teatrale. Non mi è mai successo di cambiare rotta. Può capitare che il testo abbia una natura ambivalente, come Anne-Marie la Beltà che ritengo sia destinato sia alla lettura sem