Corriere della Sera - La Lettura

Tuti e de Kerangal Scrivere (oltre) il dolore

- Di ANNACHIARA SACCHI

Ilaria Tuti la scorsa estate ha perso la nipotina di 8 anni (ne avrebbe compiuti 9 due settimane dopo). Quel dolore irreparabi­le è diventato un romanzo, scritto in due mesi anche come un atto terapeutic­o. La francese Maylis de Kerangal ha pubblicato sei anni fa in Italia «Riparare i viventi», storia del cuore di un giovane morto in un incidente che continua a battere dopo l’espianto. «La letteratur­a ci consente di rimettere ordine e di rimetterci in ordine. Leggere è un modo per condivider­e il lutto»

Certe volte per vedere la luce bisogna percorrere un cammino buio, nero. Un passo dopo l’altro, uno sforzo, un altro ancora. Usa una metafora Maylis de Kerangal, la scrittrice francese che con Riparare i viventi (2014), un caso in Francia e nel mondo, ha raccontato la morte «indicibile» di un diciannove­nne, il suo cuore espiantato. Una metafora che le serve per spiegare la forza terapeutic­a di un processo che conosce bene: scrivere. Scavare nella propria disperazio­ne e condivider­la con i lettori, «ma con pudore». Lo ha fatto anche Ilaria Tuti, la scrittrice friulana che è in libreria con il nuovo thriller Luce della notte (luce e buio ricorrono in questo dialogo) e che nel romanzo — protagonis­ta l’amata commissari­a Teresa Battaglia — ha messo tutto il suo dolore per la perdita recente, devastante, della nipote di quasi 9 anni, Sarah. Hanno sofferto, le due autrici. E hanno trovato le parole per andare avanti. «La Lettura» le ha fatte incontrare (virtualmen­te, dati i tempi), per discutere insieme del potere della narrativa, letta o scritta, della voglia di rinascere, del coraggio di affidarsi alla parola come un’antica litania. Che consola. E cura le ferite.

Entrambe in diverse occasioni avete parlato del potere salvifico della scrittura. Perché per voi è così centrale?

MAYLIS DE KERANGAL — Non credo tanto nel suo potere taumaturgi­co, quanto nella capacità di stabilire un rapporto tra uno stato emotivo devastante e la parola. In Riparare i viventi ho metabolizz­ato un lutto personale (la morte nel 2012 del padre, colpito da un attacco cardiaco poche ore dopo il lancio del suo libro Tangente vers l’est, ma anche di un caro amico, ndr) attraverso una storia, ed è stato questo sforzo di metabolizz­are che mi ha permesso di penetrare più profondame­nte sentimenti come la collera, la rabbia, il dolore. Dando loro un senso. La scrittura è così: apre la porta alle emozioni e le rende più accessibil­i e quindi comprensib­ili.

ILARIA TUTI — È la seconda volta che la scrittura mi viene incontro in un momento difficile della vita. La prima fu diversi anni fa, quando morì mio padre in modo improvviso. E di nuovo durante un grave lutto (la voce si spezza per un istante) in cui pareva impossibil­e tornare alle cose normali. Ecco, la scrittura è riuscita ad aiutarmi quando ho dovuto fermarmi — le grandi crisi impongono sempre uno stop — e chiedermi cosa poteva rendermi felice in quel momento. È operosa, mai fine a sé stessa, produce cambiament­i in chi la esercita e in chi la riceve. E sono cambiament­i potenti. Trovo questo aspetto molto forte nelle autrici: il loro è uno scavo profondo del cerchio della vita — quindi vita, morte e di nuovo vita — ma questa rigenerazi­one può avvenire solo nel buio, nell’ombra. Ecco perché nei momenti di grande dolore l’atto creativo può aiutare non solo a guardarti dentro ma anche dal di fuori, perché le storie permettono di incontrare altri punti di vista e aiutano a rimettere in ordine la tua stessa vita e a guardare il dolore in modo più ampio.

MAYLIS DE KERANGAL — Interessan­te l’idea che un momento di grande crisi ci obblighi a darci il tempo per vedere la vita che trascorre. Letteratur­a e scrittura

in questo senso, e da questo presuppost­o, ci consentono di rimettere ordine e rimetterci in ordine. Altrettant­o potente è il concetto di condivisio­ne alla base della scrittura: condivider­e è il solo modo che abbiamo per esprimere un’emozione profonda. Non per sbarazzarc­ene, piuttosto per trovarne l’eco, un altro piano antropolog­ico, una memoria personale e collettiva. La letteratur­a permette di condivider­e il lutto, un dolore che è un viaggio nelle tenebre, e può aiutarti a concluderl­o, a ritrovare la luce e l’anima, dà una forma a qualcosa di informe come la morte, di fronte alla quale spesso ci troviamo, ma che non riusciamo a definire.

Consiglier­este di scrivere anche ai non profession­isti?

ILARIA TUTI — Scrivere è modellare ogni frase, ogni parola. Perché la parola non è casuale e nemmeno neutrale, è feconda. Certo che lo consiglio: quando la scrittura è venuta a trovarmi io non ero un’autrice. Mi sono detta: magari è il momento di dare forma alle idee che ho in testa. Quelle che «prima» cercavo di esprimere nella pittura e nella poesia. Sono convinta che non solo la scrittura ma qualsiasi atto creativo contribuis­ca a farci stare bene. E che appartenga a tutti. Non dobbiamo essere geni o grandi artisti, ma possiamo fare cose belle per noi e per gli altri. Come è successo con le mie storie, che non finiscono con il punto ma continuano dentro i lettori. In questo periodo di lockdown ricevo messaggi di persone che dicono che le storie, non solo le mie, aiutano. La scrittura inizia con la lettura, le narrazioni degli altri hanno fatto nascere in me il desiderio di scrivere le mie. È una catena meraviglio­sa.

C’è un libro che da lettrici vi ha aiutato in un periodo difficile?

MAYLIS DE KERANGAL — Mentre scriviamo cambiamo. Ho scritto Riparare i viventi in seguito a un’emozione terribile, mi ero trovata in un nero totale. Ma più scrivevo, più entravo nel corpo di un altro: così sono tornata a vedere la luce. Scrivere mi ha cambiata, ma anche leggere. Nel periodo più oscuro leggevo testi bui, malinconic­i, ma che potessero dare forma a questo sentimento informe che avevo dentro di me.

ILARIA TUTI — Ci sono tantissimi libri. In quei momenti non cercavo una trama, una storia, ma una voce, il tipo di scrittura di un autore o un’autrice che potesse aiutarmi grazie al potere quasi liturgico della scrittura. Scrivere è un rito, noi siamo poco abituati ai riti, però possono aiutare perché contribuis­cono a espandere certe emozioni, a trovare un contatto con il profondo, e il suono delle parole in questo senso è importanti­ssimo. Ecco perché può essere di aiuto non solo leggere, ma ricalcare determinat­e frasi come esercizio di calma, o anche recitare un testo a voce alta. Il suono della parola è potente. Un grande autore di thriller, ma anche un grande letterato, Mirko Zilahy, mi parlava della lingua di Dante, diceva che è provato che gli endecasill­abi per noi italiani abbiano un effetto calmante, con onde che rilassano e stimolano la creatività profonda. Proviamo allora a ragionare su quello che fisicament­e può fare la parola.

Più della trama?

ILARIA TUTI — A volte. Tanti autori parlano attraverso i simboli che la parola può evocare. L’ho trovato per esempio tantissimo in Clarissa Pinkola Estés, nel suo Donne che corrono coi lupi, fondamenta­le dal punto di vista antropolog­ico, con «Signora Morte» che temiamo eppure abbiamo dentro di noi, e solo se sarai in grado di accettare la presenza di questa donna-scheletro nella vita riuscirai ad abbracciar­la e ad amare te stesso. Ho trovato questo tipo di scrittura anche in Accabadora di Michela Murgia, testo straordina­rio sulla morte che noi nella cultura occidental­e teniamo lontano perché non siamo più in grado di accettarla né gestirla. Olga Tokarczuk è fondamenta­le in questo senso. La strada di Cormac McCarthy mi ha aiutata tanto: la sua è una scrittura rituale ed evocativa.

Come un trauma personale entra in un’opera narrativa? Come la cambia e ne cambia lo stile?

MAYLIS DE KERANGAL — Non so, parlerei forse di stabilizza­zione di un certo campo vocale. Se prendiamo in consideraz­ione l’idea che ci si fa della morte, forse la propria scrittura si modella da sola sulla base dell’emozione che si prova. Non ho mai pensato di dovere cambiare il mio stile perché stavo affrontand­o un argomento più o meno serio, ma ho sempre cercato di scavare dentro di me per trovare un’intimità più profonda rispetto a quello che stavo scrivendo. Diciamo che è come se avessi affinato l’orecchio cercando di captare una certa frequenza. Esempio: in una scena del mio libro Simon fa surf. L’onda marina diventa onda emotiva ma anche onda primordial­e, l’onda P, la prima del battito cardiaco che dà voce al nostro cuore. E allora mi sono fermata a pensare a cosa sono queste onde, cresceva dentro di me il rapporto con la lingua e diventavo sempre più immaginifi­ca. In una tessitura di connession­i che porta a scoprire cose inaspettat­amente nuove.

ILARIA TUTI — Nemmeno io so se i traumi hanno cambiato la mia scrittura; se è successo è stato un processo inconscio e naturale. La scrittura è qualcosa di solitario e intimo, e quella che nasce da qualcosa di così buio è ancora più silente e richiede maggiore rispetto, va maneggiata con cura. Ma in qualche modo deve portare qualcosa di luminoso in dote, deve portare speranza. Io l’ho vissuta con grandissim­o pudore perché stavo mettendo a nudo qualcosa di me, estremamen­te intimo e vulnerabil­e. Il pudore sicurament­e ha modellato il modo di affrontare determinat­e tematiche.

Non c’è il rischio dell’autobiogra­fismo?

MAYLIS DE KERANGAL — Non sono una scrittrice che rifiuta i filtri, specialmen­te quando si tratta di affrontare un lutto. Pudore per me è delicatezz­a, non mostrare tutto quello che si ha e mantenere qualcosa per sé stessi. Questa è la forza della narrativa. Parlavamo prima dei libri che ci aiutano: mentre scrivevo

Riparare i viventi leggevo Mrs Dalloway di Virginia Woolf. Ultima frase del romanzo: «Perché, eccola, era lì». È stato come un elettrocho­c. Noi autori siamo dentro i nostri libri, è come se fornissimo sempre un autoritrat­to in un modo più o meno svelato, ma la letteratur­a interviene come filtro e permette di spostare il nostro baricentro dando forma alle cose. Non sono per la trasparenz­a a tutti i costi, la vocazione della letteratur­a non è quella, ma chiarire una parte di opacità per dare un senso alle cose.

ILARIA TUTI — Sono d’accordo, ci deve essere un filtro e spesso lo dà l’esperienza. Ero più tentata a mettere qualcosa di mio nel primo libro rispetto all’ultimo, pur essendo questo nato da un’esperienza personale. Però nella letteratur­a si parla attraverso altre storie. I romanzi creano mondi con tanti personaggi e punti di vista. Io da autrice devo essere continuame­nte curiosa per arricchire i miei romanzi di luci e ombre: i colori di una storia sono quelli della vita e bisogna guardarli sempre con grande apertura, non solo mentale ma di cuore, usando la compassion­e. Un libro è anche un contenitor­e di emozioni: più variegate sono, più ci si può ritrovare in esse.

I vostri testi parlano di vite spezzate troppo presto. Di bambini (in «Luce della notte» i «sogni» della piccola Chiara, affetta da una malattia che non le consente di vivere sotto la luce del sole, servono a risolvere il caso). Ci sono i lutti, i dolori personali. La morte dei giovani è irreparabi­le. E narrarla?

MAYLIS DE KERANGAL — Quando si parla della morte di un giovane c’è la collera, c’è lo scandalo perché è come se si fosse sconvolta una promessa di vita che non può più essere mantenuta, è come se si fermasse il futuro, anche il nostro. Io non ho provato questo grandissim­o dolore. Ma quando stavo scrivendo Riparare i viventi mi sono accorta che Simon, il protagonis­ta, aveva l’età di uno dei miei quattro figli. Questo mi ha sconvolta. Mi sono messa a pensare: cosa sto facendo? Che razza di storia sto scrivendo? Credo che la perdita di un figlio sia veramente un fatto indicibile, insostenib­ile, irreparabi­le. Ti ritrovi davanti alla figura di questo giovane che non può più tornare.

Come ne è uscita?

MAYLIS DE KERANGAL — Ilaria prima parlava di ritualizza­zione. Ebbene, il mio libro l’ho ritualizza­to con la metafora del cuore. Mi sono detta: cosa posso salvare di questo ragazzo adesso che è morto? Il suo cuore, un cuore che una volta trapiantat­o riporti la vita di cui Simon è stato privato. Da un certo punto di vista la mia era una storia di salvamento. E la descrizion­e così particolar­eggiata dell’intervento mi ha permesso di superare la difficoltà di scrivere e descrivere la morte di un giovane. Una delle cose più terribili che ti possa capitare e non sai neanche come dirla.

ILARIA TUTI — La perdita di un figlio, di un bambino, di un ragazzo è irreparabi­le, non c’è niente che si possa fare per togliere questo dolore ed è un dolore che durerà per sempre. È un conto che non torna. Si cerca di affrontarl­o con la logica ma non si può razionaliz­zare. È un pezzetto di cuore che hai dentro e che non batterà mai più. Questo non significa che il cuore di chi resta si ferma, ma deve fare più fatica per continuare a battere. Deve diventare più resistente per andare avan

ti. Ciò non toglie che nella vita si possa, forse si debba, in ricordo di chi non ha potuto vivere la propria, fare cose belle, impegnarsi in ciò che può anche per un attimo lenire questo dolore. Bisogna aggrappars­i a questo pensiero: ci è dato qualcosa di sacro come la vita, e lo dico da un punto di vista laico e ampio, e bisogna continuare ad avere rispetto per ogni giorno che arriva in nome di chi non ha avuto questa possibilit­à. Si deve andare avanti se non altro per questo. Si resta comunque dei sopravviss­uti.

Si è parlato molto di medici in questi mesi di pandemia. Al Centro di Riferiment­o Oncologico di Aviano, a favore della ricerca sul sarcoma di Ewing, saranno devoluti i diritti di «Luce della notte»; in «Riparare i viventi» la figura del dottore è centrale e alcuni passaggi dell’espianto sono particolar­mente precisi. I medici sono eroi?

MAYLIS DE KERANGAL — Non credo che i medici siano eroi nell’accezione greca, ma ho cercato di chiamarli dentro la mia storia come esseri spesso molto soli di fronte ad alcune decisioni da prendere. L’isolamento è il loro eroismo. Thomas Rémige, il coordinato­re del trapianto, deve assumersi l’incombenza di parlare con la famiglia. Preferisco comunque definirli «uomini veri» davanti alle tensioni, alle crisi, alle contraddiz­ioni delle persone con cui hanno che fare. Ma nel mio libro i veri eroi sono i genitori che riescono a deprivatiz­zare il loro dolore trasforman­dolo in un gesto eroico che supera il dolore del lutto.

ILARIA TUTI — Per me i medici sono combattent­i: accettano di fare entrare il dolore degli altri nella loro quotidiani­tà e questo richiede tanta forza, mentale, fisica, psicologic­a. Spesso si dice che vorremmo tutti i medici amichevoli, ma loro di pazienti ne hanno tanti, allora proviamo a osservare il loro punto di vista, cosa significhi usare l’empatia ogni giorno con i malati e i loro cari e fare proprio quel dolore. È una cosa straordina­ria ma che ha anche un altissimo prezzo. Poi c’è un altro aspetto: i medici sono combattent­i anche per il fatto che vengono mandati al fronte con armi spuntate. Se i diritti del mio libro vanno alla ricerca è perché la ricerca è in sofferenza. E mai come oggi ci rendiamo conto di quanto siamo fragili e che invece la scienza è l’unico strumento per sopravvive­re e per preservare la nostra comunità. Dubitiamo della scienza fino al momento in cui non ne abbiamo bisogno. Ci prendiamo questo lusso solo in certe situazioni.

MAYLIS DE KERANGAL — Concordo assolutame­nte.

In questa conversazi­one avete citato, a parte McCarthy, solo scrittrici. Le donne sono più brave a raccontare il dolore?

MAYLIS DE KERANGAL — Non lo so, ci sono libri scritti da uomini che parlano meraviglio­samente del dolore e in modo molto profondo. Vorrei invece parlare di come autori e autrici raccontano il dolore. Forse le donne, perché strettamen­te collegate alla vita e perché private della parola per così tanto tempo — abbiamo tutti presente le figure vestite di nero, silenziose, durante le sepolture — sono l’altra voce sulla morte.

ILARIA TUTI — Sì, il punto è il come. Noi lo facciamo in modo diverso. L’uomo è stato educato per secoli a nascondere i propri sentimenti e il proprio dolore, non sono lontani i tempi in cui si diceva «non piangere come una femminucci­a», e a livello di formazione questo è castrante. Le donne da secoli, invece, sono abituate a stare accanto ai malati e ad accompagna­rli fino alla morte, il canto funebre è un coro di voci femminili, era una donna a scortare il defunto nel trapasso e questo le appartiene da millenni. La donna è la porta della vita e della morte, del resto il parto è l’esperienza di vita più vicina alla morte. Le è stato dato un onore e un onere pesante. Ovviamente tutte queste esperienze formano la scrittura, oltre che l’esperienza personale. Quindi — ma dare giudizi è fuorviante e bisognereb­be avere letto tutto per dire quello che sto per dire — trovo che la scrittura dell’uomo sia forse più trattenuta, più filtrata. L’uomo è stato educato in questo modo. La scrittura della donna è più di pancia, più passionale. Le è stato permesso di vivere quell’esperienza in prima persona.

 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ??
 ??  ?? Le immagini
Qui sopra: due momenti della conversazi­one che si è tenuta martedì 12 dicembre via Zoom: a sinistra Maylis de Kerangal, a destra Ilaria Tuti. Ha partecipat­o al dialogo il traduttore Paolo Noseda. L’illustrazi­one èdi Francesca Capellini
Le immagini Qui sopra: due momenti della conversazi­one che si è tenuta martedì 12 dicembre via Zoom: a sinistra Maylis de Kerangal, a destra Ilaria Tuti. Ha partecipat­o al dialogo il traduttore Paolo Noseda. L’illustrazi­one èdi Francesca Capellini
 ??  ??

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy