Corriere della Sera - La Lettura

Lettera di Euridice a Orfeo Non posso perdonarti

- Di NATALIE HAYNES

Mio adorato Orfeo, scrivo questa lettera dalle più buie profondità dell’Ade. Dai più oscuri confini dell’Oltremondo, al di là del fiume Stige e dei prati di Asfodelo, oltre la palude Stigia e prima del fiume Lete, con le sue acque di dolce oblio. Scrivo dal palazzo di Ade e della sua regina rapita, Persefone. O come ormai preferisco pensare, da casa.

Quel che mi manca di più è la luce. Magari ti aspettavi che dicessi che eri tu, Orfeo. E per qualche tempo è stato così, ma arriveremo a parlarne tra un momento, d’accordo? Dopo tutto non ho alcuna fretta. In qualità di ancella di Ecate, ho tutta l’eternità davanti a me. Ma sapessi, quanto mi manca il sole. Per il primo giorno, o i primi due, o forse si è trattato di un centinaio di giorni, poiché qui è impossibil­e indovinare quanto tempo sia passato e, in ogni caso, per quale ragione dovremmo farlo? — ma all’inizio continuavo a stringere forte gli occhi nella speranza che, quando li avessi aperti, sarei stata in grado di tornare a vedere con maggiore nitore. Ci vollero ore, giorni, forse mesi, prima che realizzass­i che era proprio l’Oltremondo a essere denso di una foschia scura, e non i miei poveri occhi. Mi manca poter vedere nitidament­e, e mi manca il calore del sole sulle spalle.

Prima che tu componga un’ode pietosa, sappi che non ho freddo, Orfeo. È solo che mi manca il calore.

Ho ancora il ricordo del piede dolente. Quando lo guardo vedo i fori gemelli impressi dai denti della vipera, come occhi sbarrati che mi fissano da sotto la caviglia. Giacché all’epoca non ho avuto occasione di raccontart­elo, sappi che il morso fu un’agonia. Si dice che il veleno del serpente sia un modo terribile per morire: prima il dolore acuto, poi il calore rovente, infine il gelo che paralizza. È finita in fretta, suppongo. Ricordo che un tempo mia madre mi narrò di uno schiavo morto per il morso di una vipera: disse che le convulsion­i dell’uomo furono di breve durata, eppure orribili.

Dunque io sapevo di non dover camminare nell’erba alta, dov’è arduo vedere cosa può strisciare per terra. Ma, nel giorno del nostro matrimonio, scansare i serpenti non era esattament­e il primo dei miei pensieri. Ero troppo impegnata nello scansare Aristeo.

Un tuo amico, Orfeo, non ho bisogno di ricordarte­lo. Certamente non sono stata io a invitarlo, e non riuscivo e non riesco in alcun modo a capire perché tu possa averlo fatto. Davvero eravate amici? Non c’era niente in lui che ti suggerisse che fosse una rivoltante creatura che avrebbe provato a violentare tua moglie, nel giorno del vostro matrimonio? Non riesco a credere che questo comportame­nto fosse totalmente estraneo alla sua personalit­à. Certo, aveva esagerato con il vino. Ma era un matrimonio: tutti avevamo esagerato con il vino. E nessun altro ha provato a spingermi contro un albero, mentre tu suonavi la lira dall’altra parte della radura. Che tipo d’uomo può avere un simile comportame­nto? Ero troppo sgomenta per urlare, e quasi troppo sconcertat­a per divincolar­mi da quelle grosse mani e da quel disgustoso alito inacidito dal vino. Ma era forte e veloce, Orfeo.

Quando provai a correre mi afferrò per la vita, e rise quando persi l’equilibrio. Caddi in avanti sulle mani — se potessi vederle ora, anche nella penombra, piangerest­i per la pelle strappata e per il colore verde di cui il muschio ha tinto i miei polsi feriti. Ovviamente, non ebbero tempo di guarire prima che morissi.

E non guariranno, malgrado adesso io non abbia niente a parte il tempo. Riuscii a strapparmi via da lui e corsi nella prateria, senza guardare dove stessi andando. Ero troppo occupata a guardare indietro, verso il mio ebbro aggressore. Avrei fatto meglio a correre nella direzione opposta, dov’eri tu, invece che allontanar­mi dagli alberi, nei campi dove c’era solo erba? Certo che avrei fatto meglio. Ma tra di noi c’era Aristeo, e non osai. Dunque corsi senza guardare e senza prestare attenzione al suono di sibili rivelatori. Il vento che soffiava nell’erba alta e il mio stesso respiro affannoso non mi avrebbero comunque permesso di sentirli. Compresi per la prima volta di essere in pericolo quando sentii uno scoppio di dolore nel piede e, a quel punto, era troppo tardi.

Sapevo che, quando mi avevi seppellita, calde lacrime erano scorse sulle tue guance e fredde monete avevi posato sui miei occhi. Lo sapevo poiché scivolai nell’Ade senza alcun ritardo. E, una volta lì, aspettai. Sapevo che non mi avresti lasciata al mio destino. Sapevo che mi amavi, e sapevo che presto mi avresti raggiunta. Quello

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