Corriere della Sera - La Lettura
L’arte di François Pinault: un tesoro di 10 mila opere
Imprenditore del lusso (secondo «Forbes» è tra i 50 uomini più ricchi del mondo, con un patrimonio di 46,9 miliardi di dollari) e collezionista (secondo «Bloomberg» possiede circa diecimila opere per un valore di 1,5 miliardi di dollari), ha rafforzato la potenza espositiva di Venezia con la riorganizzazione di due eccellenze (Palazzo Grassi e Punta della Dogana) e altrettanto sta per fare a Parigi, dove la Bourse de Commerce (ripensata da Tadao Ando) esporrà parte dei suoi tesori. Perché? «Perché la gioia di un mecenate sta soprattutto nella condivisione della bellezza. In fondo è questo il senso più profondo di quello che sta succedendo oggi nel mondo: tutto riguarda tutti, il bene come purtroppo il male»
Alla Bourse de Commerce di Parigi tutto è già pronto. Ma per scoprire finalmente il nuovo mondo progettato da Tadao Ando per la collezione d’arte contemporanea di François Pinault (10.500 metri quadrati nel ventre della città, non lontano dal Louvre e dal Centre Pompidou) bisognerà aspettare ancora, oltrepassando la fatidica data di sabato 23 gennaio inizialmente prevista per l’inaugurazione. Colpa un’altra volta del Covid-19 e delle norme anticontagio predisposte dal governo francese.
È però questa l’unica incertezza di una storia al contrario piena di certezze, a cominciare dalla grande passione per l’arte di François Pinault: imprenditore del lusso e mecenate, nato a Champs-Géraux, in Bretagna, il 21 agosto 1936, tra i cinquanta uomini più ricchi del mondo (patrimonio stimato da «Forbes» per il 2020: 46,9 miliardi di dollari). Con il gruppo Kering (oggi guidato dal figlio François-Henri) controlla i marchi di moda Gucci, Saint Laurent, Bottega Veneta, Balenciaga, Boucheron... Attraverso la società holding Artémis di proprietà della famiglia possiede la casa d’aste Christie’s, la società crocierista di lusso Ponant, il giornale francese «Le Point», cantine eccezionali tra cui Château Latour, la squadra di calcio Stade Rennais che ha conquistato la Coppa di Francia nel 2019.
La passione di François Pinault è raccontata dalle circa 10 mila opere messe finora insieme (valore stimato da «Bloomberg»: 1,5 miliardi di dollari): pitture, sculture, fotografie, video spaziano dall’Arte Povera al Minimalismo, dal Post-minimalismo alla Pop Art, da Marlene Dumas a Gilbert & George, da Maurizio Cattelan a Damien Hirst. Una collezione nata dalla volontà di condividere questa passione con il maggior numero possibile di persone, accompagnandola a un impegno duraturo nei confronti degli artisti e a un’esplorazione permanente dei nuovi territori della creazione. Pur seguendo da vicino la scena contemporanea, François Pinault è interessato all’intero patrimonio artistico. È stato il primo mecenate a impegnare 100 milioni di euro per il restauro della cattedrale di Notre-Dame...
Pinault è legatissimo all’Italia e in particolare a Venezia, scelta come sede d’eccellenza per questa passione. In virtù di due luoghi eccezionali: Palazzo Grassi, inaugurato nel 2006 e di cui la Pinault Collection ha appena acquisto il 20% delle quote finora detenute dal Comune; e Punta della Dogana, spazio aperto nel 2009. Nel 2017 le due sedi hanno ospitato uno degli eventi artistici più intriganti degli ultimi anni, la mostra di Damien Hirst Treasures from the Wreck of the Unbelievable (360 mila visitatori in sei mesi). A cui nel 2013 s’è aggiunto il Teatrino, destinato a ospitare programmi culturali e didattici nel quadro di partnership con le istituzioni e le università veneziane, italiane e internazionali. In un’intervista esclusiva con «la Lettura» François Pinault racconta questa sua passione.
Monsieur Pinault, come è diventato collezionista?
«Lo sono diventato strada facendo. Ho cominciato a interessarmi all’arte relativamente tardi, verso i trent’anni. Un mio amico, un pittore amatoriale, mi ha proposto di andare a vedere in una piccola galleria in Bretagna, dove abitavo all’epoca, una mostra dedicata ai pittori della Scuola di Pont-Aven. Non rimasi molto entusiasta, trovavo le opere “dipinte male”. Ma dal momento che sono bretone, e quindi testardo, sono tornato per vederle di nuovo e alla fine le ho apprezzate. È un po’ così che è cominciato tutto. Da allora ho iniziato a frequentare più regolarmente i musei, le gallerie, i centri d’arte. A poco a poco ho preso coscienza delle prospettive immense che offre la familiarità con l’arte. Ho capito che è un modo di sbloccare la mente, di aprirsi alla diversità dei punti di vista... in altri termini di andare avanti nella propria riflessione sul mondo che ci circonda. Questa nuova passione prendeva una dimensione sempre più importante a mano a mano che scoprivo aspetti dell’arte a me sconosciuti.
Forse la vera scintilla è scoccata nel 1991 quando ho acquisito il capolavoro di Mondrian Le Tableau Losangique. Quel giorno ho percepito un senso di realizzazione, poi mi sono reso conto che era soltanto l’inizio di una grande avventura. Mi sono interessato ai principali movimenti del XX secolo, dunque all’astrazione, al Minimalismo, all’Arte Povera eccetera. Questo mi ha portato naturalmente verso l’arte del mio tempo e il processo creativo contemporaneo. Ho collezionato pitture, sculture, video, fotografie e installazioni che corrispondono a diverse sensibilità e culture».
Che tipo di collezionista si definirebbe?
«Se dovessi scegliere due definizioni, direi che sono un collezionista libero e un collezionista esigente. Sono un amante dell’arte e la colleziono. Quello che mi anima è innanzitutto l’emozione che provoca in me un’opera d’arte. Le mie scelte riflettono il mio impegno, i rischi che corro, il mio sguardo, i miei gusti, la mia curiosità. Le relazioni e il dialogo che si stabiliscono con gli artisti sono molto importanti.
Cerco in giro per il mondo opere di artisti che hanno talento e che non sono riconosciuti con il giusto valore. Mi capita però di comprare opere di artisti già conosciuti, soprattutto quando si tratta di capolavori, perché semplicemente non ho scelta: quando si viene colpiti da un capolavoro non bisogna esitare.
In ogni caso, io non esito e forse è proprio questa la mia debolezza! In generale, quando m’interesso a un artista mi piace accompagnarlo nel suo lavoro. Non m’interessa avere un campionario, mi piace costruire nuclei significativi. Naturalmente, con il passare del tempo mi capita di apprezzare di meno alcune opere. È inevitabile. Lo sguardo di un uomo non smette mai di evolvere perché lui stesso evolve e il mondo attorno a lui anche.
Alcuni artisti possono avere periodi di grande ispirazione e alcuni momenti meno interessanti. È fondamentale mantenere sempre uno sguardo critico sulle opere, essere in grado di distinguere, nell’insieme del lavoro di un artista, i lavori che sono di minore importanza. Inoltre, per quanto mi riguarda, il desiderio di collezionare è da subito stato accompagnato dalla necessità di condividere le mie scoperte con più persone possibile. È il senso del progetto culturale che ho prima sviluppato a Venezia a Palazzo Grassi, poi a Punta della Dogana e tra poco a Parigi alla Bourse de Commerce».
Quali sono le doti di un buon collezionista?
«Collezionare opere d’arte è una passione, un processo intimo e personale. Non mi appartiene fornire istruzioni d’uso del buon collezionista. Quello che posso dire è che un vero amante dell’arte si definisce liberamente, deve superare le impressioni ordinarie che hanno a che fare con il gusto di questo o quell’esperto per esprimere la propria sensibilità davanti a un’opera. Impariamo facendo errori. Collezionare opere d’arte richiede un’educazione continua dell’occhio e dello spirito».
Qual è stata la sua prima opera? Qual è la storia di quella sua prima acquisizione?
«La prima opera significativa che ho comprato è stato un dipinto di Paul Sérusier che rappresentava una paesana bretone nel cortile della sua fattoria. Il bretone che è in me non poteva non essere affascinato da un’opera della Scuole di Pont-Aven, dove si mescolavano l’osservazione attenta dei gesti della vita paesana e la capacità dell’artista di trascendere la realtà e di trasformarla con il miracolo della sua arte. L’artista ha sublimato con il colore la realtà che osservava. Grazie al suo pennello, il grigio e il marrone dell’ardesia, dello scisto e del granito bretoni si trasformano in rossi, rosa e arancioni, come nei dipinti del periodo bretone di Gauguin. Penso in particolare al suo Cristo giallo.
Questo primo acquisto, in ogni caso, mi ha fatto capire che un’opera d’arte non è mai una cartolina e che il genio dell’artista non sta nel rappresentare le cose come sono nella realtà, ma come le vede lui, come le vive e le immagina. Questo mi ha permesso, qualche anno dopo, di acquisire con la stessa gioia altre opere importanti, tra cui un’opera iconica di Gilberto Zorio, Rosa-Blu-Rosa del 1967, la prima opera italiana della mia collezione. Il dipinto di Sérusier, modesto e in apparenza rassicurante, mi aveva insomma dato una lezione fondamentale: l’arte è, per riprendere la famosa formula di Leonardo da Vinci, “un discorso mentale”».
Come sceglie e perché sceglie un’opera?
«In principio c’è sempre questa sensazione indefinibile che è l’emozione, il desiderio, la percezione che vi
vere con un’opera d’arte sia essenziale e che si possono fare molti sforzi, e addirittura sacrifici, per acquisirla. Se questo sentimento trova le sue radici nel profondo della nostra individualità, è anche il risultato, la conseguenza, il frutto in qualche modo di una familiarità e di un costante rapporto con l’arte.
Quando scelgo un’opera ascolto innanzitutto la mia passione. In un secondo tempo mi concedo di riflettere sull’importanza dell’artista, sull’evoluzione del suo lavoro negli ultimi anni e sul ruolo di questa specifica opera nel percorso e nella produzione dell’artista, alla qualità di questa opera rispetto ad altre che ho potuto ammirare in un museo o in una galleria. Questa razionalizzazione del sentimento però non deve mai prevalere sulla forza del desiderio. È quest’ultima la cifra che caratterizza le collezioni autentiche e sincere. È il motivo per il quale in ogni collezione, incluse le migliori, possiamo sempre ritenere a posteriori che accanto a molti capolavori si trovino anche alcune opere meno resistenti al giudizio del tempo e probabilmente anche alcuni errori».
Quali sono le sue passioni?
«Anche se il mio gusto mi porta verso le arti visive, mi piacciono anche altre forme di espressione artistica, come ad esempio l’architettura. Aggiungo che è mia convinzione che esista una responsabilità di tutti riguardo al patrimonio culturale. Dobbiamo trasmetterlo alle generazioni future in condizioni migliori rispetto a quelle in cui noi stessi ne abbiamo ricevuto la responsabilità. È per questo che non appena ho visto le fiamme che distruggevano la Cattedrale di Notre Dame di Parigi ho immediatamente deciso di partecipare al suo restauro e stimolato altri a seguire la stessa idea. Allo stesso modo mi sono fatto carico del restauro della Casa di Victor Hugo nell’isola di Guernsey, testimonianza preziosa dal punto di vista storico, artistico e letterario.
Per quanto riguarda le mie preferenze nell’ambito dell’arte contemporanea, ricordo che quando ho iniziato a collezionare ho deciso di non limitare questa collezione alle opere che assecondano il mio gusto. Bisogna sapere uscire dai propri confini rassicuranti. Quello che mi interessa è la diversità e il dinamismo della creazione artistica del nostro tempo. La mia collezione cerca di abbracciare questa diversità. Perciò, oltre ai Minimalisti europei e americani, si apre agli esponenti della Pop Art e agli artisti che esplorano le sorti dell’umanità e la violenza del mondo...
Alcuni si stupiscono di questo approccio, come se la personalità culturale di ognuno di noi dovesse essere monolitica. Rivendico l’eterogeneità della mia collezione. L’unica cosa che conta è che queste opere stimolino il mio sguardo, il mio pensiero, la mia emozione».
Quanto sono importanti oggi i grandi mecenati privati come lei nella proposta e nella salvaguardia delle arti?
«È difficile parlare di sé stessi. Direi semplicemente che il ruolo dei collezionisti privati è fondamentale. Basta vedere quanti prestigiosi musei nascono da queste collezioni, dalla Wallace Collection al Guggenheim... musei che partecipano al dinamismo culturale delle città e dei territori dove si collocano e operano. Aggiungo, dal momento che il collezionista privato mette in gioco i propri mezzi, che può permettersi di correre più rischi rispetto a quanti ne può sostenere un’istituzione pubblica, si può avventurare in ambiti più sperimentali e fare scelte personali.
Infatti, alla base di ogni collezione si trova la passione per l’arte, arricchita — nel caso dell’arte contemporanea — dalla possibilità di incontrare gli artisti stessi. I legami di amicizia che ho intrecciato con gli artisti sono fondamentali. È grazie a questa relazione personale che mi è consentito entrare nel loro universo, conoscerli nel loro studio, condividere i loro dilemmi e i loro progetti, e sostenerli. Mi riferisco, per esempio, al rapporto che ho sviluppato negli anni con Martial Raysse, con Rudolf Stingel e più recentemente con l’italo-francese Tatiana Trouvé».
Come vede il futuro della sua collezione e più in generale quello dell’arte e dei suoi luoghi? Sarà sempre più un futuro digitale?
«Il futuro ci dirà se la storia dell’arte ratificherà tutte le mie scelte, o soltanto alcune. È la scommessa che fa ogni collezionista, anche se per me non esiste alcun dubbio che, per fare un esempio caro agli italiani, i grandi nomi dell’Arte Povera continueranno a essere celebrati come artisti di fondamentale importanza.
Ritengo che il contatto fisico con le opere d’arte rimarrà sempre una componente essenziale dell’esperienza. Perfino nel caso di opere video che possono tecnicamente essere osservate su un computer, niente potrà mai sostituire il coinvolgimento del visitatore in uno spazio reale. Il digitale offre nuove possibilità alla produzione artistica e permette ai musei di stabilire un legame più stretto con il pubblico e anche di ampliarlo. Le iniziative nate durante la pandemia ne sono la prova più evidente. Ma la contemplazione di un’opera dal vivo sarà sempre un’esperienza unica e insostituibile».
Quanto è importante Venezia nell’universo Pi
Palazzo Grassi e Punta della Dogana a Venezia, la Bourse di Parigi: lo scopo della collezione è mostrarsi, così ognuno partecipa della stessa emozione degli altri
nault?
«È fondamentale. La proposta da parte del Comune di Venezia di succedere alla Fiat nella guida del sito espositivo di Palazzo Grassi mi ha permesso di inaugurare il mio progetto culturale, condividere la mia passione per l’arte con il maggior numero di persone. In seguito, il progetto ha visto una quasi insperata espansione, con l’apertura degli spazi espositivi a Punta della Dogana e con la ricostruzione del Teatrino di Palazzo Grassi, contribuendo a un incremento del mio impegno veneziano.
Venezia è unica al mondo per il suo patrimonio storico ineguagliabile e per il ruolo di capitale internazionale dell’arte contemporanea anche grazie alla Biennale e al suo prestigio. Disporre di tre luoghi simbolo collocati nel cuore della città è per me una fortuna eccezionale che impone di mantenere il livello delle esigenze molto alto. È quello che mi sono sforzato di fare, anche attraverso una politica di mostre che ha attirato oltre tre milioni di visitatori. Intendo investire somme importanti nel 2021 per rimettere a norma l’infrastruttura di Palazzo Grassi e garantire così la sua perennità e conservazione in qualità di spazio espositivo.
Per le celebrazioni dei 1600 anni dalla fondazione della città, riservo a Venezia un progetto dedicato e l’anteprima di un’acquisizione molto importante che sto finalizzando in questo periodo. È in qualche modo un rinnovo dei miei voti con la città...».
Il progetto più nuovo, ormai pronto, riguarda la Bourse de Commerce a Parigi. Perché ha scelto ancora una volta Tadao Ando?
«La mia amicizia per Ando è di lunga data. Ho una grande ammirazione per il suo lavoro. Con la sua sensibilità estetica minimalista, fatta di rigore e purezza, Tadao Ando è a mio parere uno dei rari architetti a sapere instaurare con delicatezza un dialogo tra la forma e il tempo o, in altri termini, tra l’architettura e la sua epoca. Lo ha dimostrato con successo a Venezia dove, dal 2005 in poi, ha ristrutturato gli spazi di Palazzo Grassi, poi restaurato e trasformato Punta della Dogana e infine ricostruito il Teatrino di Palazzo Grassi totalmente in rovina. Tutti interventi realizzati in stretta collaborazione con la Soprintendenza dei Monumenti e dei Beni Storici.
È per questo che per il progetto della Bourse de Commerce, la nuova sede espositiva a Parigi, la scelta di lavorare di nuovo con Tadao Ando s’è imposta come un’evidenza. In quest’ultima, tenendo conto della sua forma circolare — rara a Parigi — Tadao Ando ha avuto la semplice audacia di propormi di inserire all’interno del cerchio perfetto della corte centrale un nuovo cerchio, un cilindro di cemento che attraversa l’edificio dal sottoterra al secondo piano, definendo, nei suoi confini interni, uno spazio espositivo al piano terra e un auditorium sotterraneo. L’esterno di questo cilindro accoglie una scala che permette di accedere agli spazi espostivi del primo e del secondo piano e offre al visitatore un’esperienza di grande intimità con l’architettura storica. Questo intervento architettonico è spettacolare e, nello stesso tempo, di una grande semplicità».
Tutto sembra essere cambiato con il Covid-19: è cambiato anche il modo di essere collezionisti?
«È vero, il Covid-19 ha fatto irruzione nel nostro mondo in maniera del tutto imprevedibile, violento ed estremamente inquietante. Chi avrebbe mai immaginato che, un anno fa, tutto il funzionamento delle nostre società, delle attività produttive, dell’economia in generale, della vita culturale, della vita sociale e del dibattito pubblico sarebbe stato così radicalmente sconvolto? Vorrei però anche ricordare che fino a poco tempo fa alcuni disapprovavano la visione pessimista degli artisti. Invece, a quanto pare, la realtà dà loro ragione, in particolare in quest’ultimo anno.
In un senso più generale la situazione attuale ci deve portare a riflettere su molte cose, sul fatto che nel mondo globalizzato di oggi non è più possibile che i problemi che colpiscono una parte del mondo non colpiscano il mondo intero; sul fatto che la nostra relazione con la natura è fondamentale e che il suo equilibrio oggi compromesso ci espone a grandi difficoltà; sul fatto che la solidarietà è più che mai necessaria e che al posto degli egoismi nazionali o regionali dovremmo preferire la costruzione di un futuro più condiviso.
Siamo tutti cambiati o, più precisamente, tutti dobbiamo cambiare per rimanere in sintonia con il nostro tempo e le sue sfide. Questo significa che, nell’ambito della relazione che ciascuno di noi ha con l’arte e con la cultura, dobbiamo saper andare incontro a ciò che ci appare estraneo. In altri termini dobbiamo evitare di limitarci a noi stessi.
È, in ogni caso, con questa prospettiva che ho insistito perché la mostra inaugurale, che sarà presentata alla Bourse de Commerce, si intitolerà Ouverture, per ricordare che l’arte stessa è una scuola di umiltà, perché ci insegna che non smetteremo mai di confrontarci con la bellezza del mondo, ma anche con le sue zone d’ombra, e che le nostre vite così passeggere hanno tutto da guadagnare nell’abbracciare il mondo, piuttosto che pretendere di dominarlo».
Il Covid insegna che l’unico futuro è un futuro condiviso, che tutto riguarda tutti, che saremo migliori se abbracceremo il mondo senza dominarlo