Corriere della Sera - La Lettura
I romanzi di Ammaniti sono storie di lockdown
«Branchie» era ambientato in parte nelle fogne di New Delhi, la scena madre di «Che la festa cominci» si svolge nelle catacombe di Villa Ada, in «Io non ho paura» (che compie vent’anni) c’è una prigione, in «Io e te» una cantina, in «Anna» (di cui in primavera uscirà la serie tv) una claustrofobica pandemia. Ne parliamo con l’autore, Niccolò Ammaniti
Io non ho paura ha 20 anni. Il suo autore, Niccolò Ammaniti, non è più il giovane scrittore un po’ cannibale dall’innato talento narrativo, ma un uomo di 54 anni che nel corso degli ultimi tempi ha deciso di percorrere un’altra strada. Nel 2015 ha scritto l’ultimo romanzo, Anna, che ora sta trasformando in una serie tv, di cui è sceneggiatore e regista. La storia, ambientata in Sicilia dopo che una grande epidemia ha ucciso tutti gli adulti, ha come protagonista una ragazzina di 13 anni, che vaga con il fratellino Astor e un cane maremmano. Ad aprile uscirà per Sky, che ha mandato in onda anche la prima serie da lui diretta, Il miracolo. Ammaniti è uno degli scrittori più efficaci nel raccontare il mondo ragazzino. Io non ho paura è ambientato in un paesino di poche case dal nome ingannevole, Acqua Traverse, dove il protagonista, Michele, un giorno scopre in una buca nel terreno un altro bambino, Filippo, tenuto prigioniero da chi lo ha rapito, e inizia a occuparsi di lui. Il libro, tradotto in molti Paesi, veleggia ormai verso i due milioni di copie, ha avuto 48 edizioni e tuttora Einaudi Stile libero vende circa 45 mila copie all’anno.
«Io non ho paura» è un longseller, forse anche grazie al film che ne ha tratto Gabriele Salvatores e al fatto che è entrato nelle letture scolastiche. Dei libri consigliati dagli insegnanti è tra quelli che i ragazzi preferiscono. Perché secondo lei?
«Probabilmente perché rispetto ad altre storie mie, dove c’è un impianto narrativo più articolato, letterario, in terza persona, con un numero maggiore di personaggi e forse anche con situazioni più complesse, come Ti
prendo e ti porto via o Come Dio comanda, Io non ho paura, così come Ioete , ha una semplicità, una precisione, che lo rendono più facile. C’è la prima persona di un ragazzino in trasformazione, un punto di vista chiaro, l’uso del passato prossimo, una struttura utile per avvicinare alla lettura; questa è stata anche la sua fortuna all’estero. È un libro che viene consigliato agli stranieri che vogliono imparare la nostra lingua: mi hanno invitato spesso in scuole di italiano in Olanda, in Spagna e in altri Paesi». E forse è facile immedesimarsi nel protagonista.
«Michele è un ragazzo qualsiasi in una condizione un po’ speciale e questo, in generale, è la forza di libri che hanno qualcosa di assolutamente catartico, un movimento quasi da tragedia. Più avanzi verso la verità e più capisci di essere coinvolto dal male. A un certo punto ti trovi davanti al momento della scelta. Quella che fa Michele — salvare Filippo — è una scelta moralmente corretta, giusta. Può essere molto buona dal punto di vista educativo perché c’è un esempio che nasce da qualcosa di spontaneo, istintivo, che non ha nulla a che fare con quello che gli hanno insegnato i genitori, emerge da solo perché a un certo punto si capisce che nella vita c’è il buono e c’è il cattivo. Di fronte al male Michele denuncia e salva chi è più debole. E questo probabilmente anche per un insegnante è un modello vincente».
La storia continua ad avere presa sui ragazzi pur essendo ambientata in un mondo completamente pre-social, prima di tutto quello che oggi sono abituati ad avere.
«Questo secondo me è importante. Non solo: il fatto che non sia ambientato adesso è una vittoria in generale. Più ci si scosta da questa realtà social, più ci si libera dalle continue connessioni che dà la rete, l’informazione, e più la storia diventata catartica. A me anche ora non piacerebbe scrivere un romanzo in cui sono implicati i social. Per questo sono costretto a parlare o di un futuro apocalittico o di un passato in cui non c’erano. Mi ci sento meglio, forse perché sono vecchio. Ma credo che dove c’è il social la narrazione stenti».
Perché?
«Perché il social stesso è più forte della narrazione. Si confondono due piani che non si prendono tanto, insieme possono contribuire a comporre dei libri, ma credo che l’esperienza personale sia più forte di quella che ti viene raccontata. Magari mi sbaglio, devo dire che non ho letto molti libri di questo genere».
E poi lei non sta sui social...
«Li guardo perché naturalmente ci sono cose che mi interessano molto, che hanno a che fare con le mie passioni, e anche perché sono curioso di leggere quello che dicono le persone. Mi sono utili per fare il punto della situazione».
Michele di «Io non ho paura», Pietro di «Ti prendo e ti porto via», Cristiano di «Come Dio comanda», Lorenzo di «Io e te», Anna: i personaggi sono sempre colti nel momento del passaggio dall’infanzia all’adolescenza. I suoi però non sono propriamente romanzi di formazione, non c’è un’idea di iniziazione, di transito, ma un fardello improvviso che viene gettato addosso al protagonista.
«È vero, sono in una condizione quasi di sospensione. Sembra che l’infanzia debba non finire mai, poi interviene qualcosa per cui devono mettere le mani dentro la pasta della vita e questo li trasforma, nel bene o nel male. Quasi tutti nel bene, in altri casi la situazione è un po’ più ambigua, per esempio con Cristiano di Come Dio comanda. Mi interessa raccontare come arrivano di fronte al grande mutamento. La trasformazione, il dubbio, secondo me sono alla base di qualsiasi storia interessante. Deve esserci un momento in cui il personaggio si mette completamente in discussione per qualcosa che, suo malgrado, gli arriva, non perché improvvisamente vede il mondo intorno a sé e cambia. Io amo il paradosso e immaginare un elemento che ribalta la situazione è il grilletto che mi permette di costruire la storia. Non sarei in grado di raccontare, che ne so, una storia di un amore di dieci anni tra due persone che si conoscono e lentamente cambiano, anche se so che è ciò che succede nella realtà, nella vita normale. Mi piacerebbe saperlo fare, i grandi scrittori sono in grado di farlo, penso a Stoner di John Edward Williams, il libro che ho amato di più nella mia vita. È un romanzo meraviglioso, sulla progressiva perdita di identità del personaggio, in solitudine. È una cosa che io purtroppo non sono in grado di fare, perché ho sempre bisogno di un plot, di qualcosa che ribalti le regole, altrimenti non mi parte la storia».
Qual è il momento più difficile?
«Scriverla. Sì, perché tu puoi immaginare: spero che mi arrivino centomila euro, e la mattina dopo apri la porta e c’è un sacchetto pieno di denaro. Ecco, a quel punto i soldi sono il motore per la storia. Dici: ok, chi me li ha messi? Il vicino? Oppure è stato Dio che ha deciso di darmi una mano? In ogni caso da lì partono una serie di fili che lentamente si intrecciano e formano il tessuto del romanzo. Mi è successo anche con una cosa completamente diversa come la serie del Miracolo, che è partita proprio così: la Madonna piange, tutti aspettano quelle lacrime e poi che cosa succede? Funziona sempre in maniera molto semplice, schematica in un certo senso. Ma da quello schema bisogna lavorare di fino a costruire personaggi credibili. Però senza quell’intuizione i personaggi non esistono. Anche Anna nasce da un’ipotesi: io voglio raccontare di bambini, come faccio a sbarazzarmi degli adulti? L’unico modo è il virus che li stermina. Però non mi interessava il virus, ma raccontare i bambini».
Anna è l’unico personaggio femminile tra i suoi adolescenti...
«Il problema è che ho sempre identificato un po’ con me i protagonisti dei miei libri e quindi erano leggermente sprovveduti, un po’ asociali, avevano qualche tratto della mia personalità, c’era qualcosa che li rendeva molto incerti. In Io non ho paura anzi Michele si dimostra quasi un piccolo eroe, però nella sua costruzione partivo da tutte quelle insicurezze che avevo io. Per poter parlare di un personaggio positivo fin dall’inizio, che avesse coraggio, che dimostrasse da subito una tempra inaspettata dovevo affidarmi alle donne. Lì ho capito che quel salto mi avrebbe permesso di parlare di una ragazza. Se fosse stato di nuovo un ragazzino sarei ricaduto nello stesso cliché, quello dei maschi impreparati. Invece, non so perché, forse per la mia passione verso il carattere e la forza femminili, ho pensato che se volevo un personaggio eroico doveva essere un’eroina».
Quando, nel 2015, «Anna» uscì, lei disse che con questo avrebbe chiuso la serie dei personaggi adolescenti. È ancora di questa idea?
«Sì, sono abbastanza convinto che per ora non mi va più, poi però ogni tanto mi vengono delle storie molto belle e non so perché quando vado a raccontarle sento che uno sguardo innocente, uno sguardo diverso, è quello che mi conquista di più».
Non è che passando il tempo e arrivando ai cinquant’anni sente quello sguardo più lontano?
«No, non direi. Mi affascina lo sguardo infantile, anzi adolescente, perché è ancora più in bilico. Forse la mia evoluzione riguarda di più il genere letterario. Nelle storie che mi interessa raccontare adesso c’è qualcosa di meno adesivo alla realtà, un po’ più metaforico, soprannaturale, meno piantato in ciò che accade».
Ha a che fare con l’esperienza come regista?
«Non lo so. In effetti è ormai tanto tempo che non scrivo romanzi, non considero scrittura quella delle serie. Sento di avere un po’ meno dimestichezza con le parole, ma probabilmente quello che ho acquistato è il rapporto con le persone. Quindi se ho perso un po’ la lingua, forse ho conquistato un po’ più di sensibilità verso gli altri».
Insomma per lei è più facile scrivere una sceneggiatura che un romanzo.
«Senza dubbio. Prima di tutto perché io ho un problema grave di distrazione, sono uno che lavora in maniera discontinua, passo da momenti in cui scrivo moltissimo a momenti in cui non faccio nulla, sto male perché non scrivo, ma pur di non farlo mi invento delle cose, insomma faccio tutta una serie di giri per evitarlo. Invece le sceneggiature le scrivi con gli altri, ci si dà appuntamento la mattina e diventa un lavoro molto diverso. Soprattutto non richiede quella cura delle parole, della lingua, che a me distrugge. È lì che fatico: finché non trovo la lingua il libro non va avanti. Invece i dialoghi, quello che poi diventerà il film, sono semplicemente scrittura di servizio. Se mi dici, adesso, scrivi una sceneggiatura, so che entro sei mesi lo faccio. Se mi dici scrivi un libro entro un anno, ti dico che non so se ce la faccio. In un romanzo senti che le parole ti appartengono e sono pezzi di te, nel cinema quel tipo di attenzione lo metti nei rapporti con le altre persone, con il direttore della fotografia, con gli attori, nel caso di Anna con i bambini. È una cura diversa che non arriva nella fase dell’elaborazione, ma dopo, in quella della realizzazione».
«Anna», come altri romanzi scritti prima della pandemia, poteva essere definito una distopia. Adesso, con quello che stiamo vivendo, lo è un po’ meno. Perché c’è davvero un virus mondiale, che non uccide tutti gli adulti come nel libro, ma molti anziani sì. Come è stato girare una serie su una pandemia mentre è in corso una pandemia?
«Anna» è il romanzo di una pandemia, scritto nel 2015, e una serie tv , in arrivo ad aprile. «Stavamo girando scene di ospedali, di gente che soffre... Poi ci sorprende la notizia: dobbiamo fermarci, la pandemia c’è davvero...»
«Eh, mi ha preso a tre quarti delle riprese. Il lockdown è arrivato mentre mi mancavano circa due mesi e mezzo e ci ha mandato tutti a casa, all’improvviso, in maniera imprevista, sul momento anche incomprensibile. Tra l’altro io stavo girando da molti mesi e quindi ero completamente assente, non guardavo la televisione, non seguivo le notizie, ero concentrato su quello che stavo facendo perché quando giri non pensi ad altro, hai solo problemi da risolvere. Qualcosa avevo sentito ovviamente, ma la situazione non mi sembrava così significativa, Invece da un giorno all’altro mi sono ritrovato per tre mesi a casa, come tutti i bambini che lavoravano nel film naturalmente. Stavamo girando proprio scene di pandemia, racconti di ospedali, di gente che stava male, che soffriva. All’inizio giravamo con le mascherine e la prima volta che le abbiamo indossate erano quelle di scena perché non si trovavano da nessuna parte. È stato strano, però a questa cosa che dicono che gli scrittori vedono prima degli altri, non credo molto. A volte le storie cozzano con la realtà, altre la anticipano, ma spesso non fanno né l’una né l’altra cosa. Poi, come scenario distopico quello del virus è abbastanza comune».
Invece l’isolamento, la reclusione, che sono stati un corollario di questa pandemia, sono temi che lei ha sempre frequentato fin da tempi non sospetti, dai primi libri come «Branchie», ambientato in parte nelle fogne di New Delhi, fino a «Che la festa cominci» (dove la scena madre si svolge nelle catacombe di Villa Ada), passando per la prigione sotto terra di «Io non ho paura», per la cantina di «Io e te».
«Sì, in Branchie c’è anche questo personaggio, malato, che sta chiuso nel suo negozio di acquari dismessi e non esce mai; in Io non ho paura c’è un paese dove non c’è nulla, una sorta di isola dove dentro c’era un ragazzino imprigionato sotto terra. In Ioete Lorenzo si autorinchiude nella cantina. Più si stringe la gabbia intorno al protagonista, più sento che la storia è interessante». Perché?
«Perché aumentano le possibilità di scappare. Secondo me è nella solitudine che trovi le basi per ogni forma di narrazione. Se io non fossi stato un ragazzino che si autorecludeva, che non amava stare con gli altri, avrei fatto molta più fatica a scrivere, forse non ci avrei nemmeno provato. Ho sempre pensato che è proprio la chiusura che produce la voglia di inventarsi qualcosa. Se una porta è chiusa e io sono dentro bisogna trovare un modo per aprirla. Quando vedo un film dove qualcuno tira faticosamente un chiodo fuori dal parquet e con quello cerca di forzare la porta, penso che quella sia la chiave di ogni narrazione. Può essere una chiave metaforica, spirituale, o un’apertura verso mondi che non esistono. È una condizione che soprattutto gli adolescenti avvertono moltissimo ed è sempre stata un po’ la loro paura e insieme la loro vittoria, almeno fino all’arrivo di internet. Adesso non so se possiamo dire che un ragazzino connesso, che ha relazioni virtuali, sia meno solo di quello che, prima di internet, viveva dentro una stanza con i suoi libri. Io non credo. Detto questo, provando sulla pelle la reclusione, non la trovo così stimolante. È un buon inizio per una storia, ma quella che stiamo vivendo non mi piace, non mi rende felice e anzi mi preoccupa. Soprattutto mi dispiace per le persone anziane, che hanno ancora poco tempo nella vita, per chi vorrebbe uscire, stare con gli altri, con gli amici, e invece è costretto a restare in isolamento. La trovo una cosa terribile. L’altra cosa che trovo tremenda — e che mi avrebbe dato fastidio persino scrivere in un libro — è il fatto che chi sta male non può nemmeno essere avvicinato dagli altri. Se avessi dovuto raccontarla in una storia forse non ce l’avrei fatta, mi sarebbe sembrata troppo dolorosa».
Quando ha dovuto interrompere le riprese di «Anna» non le è venuta voglia di scrivere altro?
«No, sono stato come un cane davanti alla porta che aspetta il momento in cui gliela aprono per uscire. Ero talmente abituato a quel lavoro, talmente concentrato, facendo anche una fatica fisica notevole, che sono rimasto in una specie di stasi. Un po’ l’ho risolta montando la serie, riuscendo a lavorare su quello che avevo fatto: per certi versi è stato utile perché almeno ho rivisto il lavoro, cosa che di solito non succede nel cinema. Uno scrittore fa continuamente revisione, almeno io scrivo e riscrivo e riparto sempre da un po’ prima rispetto a dove mi sono fermato, come se volessi prendere lo slancio per andare avanti. È la meraviglia della scrittura. Nel cinema di solito non funziona così. In questo caso ho avuto il tempo di cominciare a montare, vedere quello che avevo fatto, capire gli sbagli o quello che mi mancava. In questo è stato utile, però non vedevo l’ora di ricominciare. Ho avuto anche fortuna, perché si è aperta quella piccola finestra di libertà — tra settembre e ottobre — che ci ha consentito di finire di girare».
Ora tornerà ai romanzi?
«Le storie le ho perché ne produco tantissime. Devo trovare qualcuno che le scrive. Però il problema è che poi non mi piacerebbero... Il mio sogno è sempre quello: vado a dormire la sera, la mattina dopo apro il file e il libro è finito. Si è scritto da solo (Ride). Però sì, voglio ricominciare a scrivere perché mi sembra giusto, anche rispetto ai miei lettori che se lo aspettano. È come se io mi fossi allontanato da loro, perché dovevo provare a fare altro. Forse perché non ho mai sentito la scrittura come un vero lavoro. Non voglio dire che fosse qualcosa di semplice, ma l’ho vissuta come una scelta un po’ rinunciataria: in fondo decidi che molli l’università, apri il computer e scrivi. Fai la tua vita, stai per i fatti tuoi, non ti confronti con le persone. Questa sensazione mi è rimasta per anni, come se fossi uno che ha rinunciato all’esistenza, quindi l’idea che a cinquant’ anni potevo iniziare a fare una cosa diversa mi ha reso molto felice. Però mi sono anche reso conto con il tempo che c’erano molti lettori che avrebbero voluto leggere altro. Le idee continuo ad averle, quindi ci provo, vediamo se ci riesco».
Che cosa l’ha attratta dell’idea di scrivere e girare una serie tv? Che cosa le dava in più rispetto alla scrittura?
«Ci sono due aspetti. Uno è quello visivo, che ha a che fare con la costruzione dell’immagine e ho sempre ritenuto quasi più importante dei movimenti dei personaggi. Mi interessa molto, anche come scrittore, quello che “faccio vedere” al lettore. È una cosa a cui aspiravo da sempre, ma quando me l’hanno proposto, prima, non l’ho fatto, un po’ anche per paura. Però sentivo che era un altro modo di esprimermi che dentro di me c’era. E poi il secondo aspetto, più personale: la sensazione di essere molto solo, come se la scrittura mi avesse relegato in un profondo isolamento; l’idea di stare in mezzo ad altre persone ero sicuro che mi avrebbe fatto bene. Dopo la pubblicazione di Anna avevo avuto una sorta di crisi, mi sentivo molto triste. Lavorare al Miracolo e ora alla serie tratta da Anna mi ha cambiato la vita, sto meglio».
Se l’Ammaniti scrittore è in pausa, cosa fa l’Ammniti lettore?
«Tendo a leggere molti libri di scienza, i saggi di biologia, mia prima passione, quello che ha a che fare con gli animali. Leggo pochi romanzi e se lo faccio è perché penso che possano servirmi a rimettere in moto la scrittura per il modo in cui raccontano le cose».
Che cosa ci sarà dopo la serie?
«Voglio scrivere un libro. Ho la storia giusta. Ogni tanto le storie ti dicono se vogliono essere scritte o se devono diventare un film. La bellezza della letteratura, rispetto al cinema, è che può bastare anche solo un protagonista e i suoi pensieri. Il cinema invece si deve esplicitare attraverso i dialoghi. La storia a cui penso mi intriga anche perché è quasi priva di dialoghi ed è tutto dentro la testa di una persona. Quando mi è venuta in mente ho pensato: ok, giro un film o scrivo un libro? Purtroppo è un libro. Quindi ci devo provare...».
Ci sono ragazzini?
«No. Però non posso dire molto, perché magari tra un mese me ne viene in mente un’altra e cambio idea».