Corriere della Sera - La Lettura
Le tragedie non si cancellano Ma un sorriso può aiutarci
«Ridere è una cosa strana, gli animali non ridono, solo gli uomini ridono; ma non è questa la cosa strana, la cosa strana è: perché ridono?». Per il comico ebreo tedesco Erich Adelman,
protagonista di Che cosa c’è da ridere
(Mondadori) di Federico Baccomo, la comicità è il senso della vita. Ma per lui si trasformerà nel paradosso più crudele: essere costretto a fare ridere i suoi assassini nel campo nazista in cui viene rinchiuso. Un romanzo ispirato alla tragica vicenda di artisti e comici ebrei obbligati a esibirsi in serate di cabaret. Come a Westerbork e Theresienstadt, nei territori delle attuali Olanda e Repubblica ceca, allora occupati dai nazisti. «La Lettura» ha chiesto a Baccomo, e a un comico italiano con alle spalle quarant’anni di carriera tra teatro, cinema e tv, Claudio Bisio, di dialogare su comicità e senso della risata al tempo della tragedia. Baccomo, come nasce questa storia?
FEDERICO BACCOMO — Qualche anno fa mi sono domandato dove fossero finiti i comici ebrei che animavano le scene di cabaret nella Berlino degli anni Venti. Ho scoperto che nel campo di transito di Westerbork, da cui passò anche Anne Frank, successe una cosa assurda: il comandante Albert K. Gemmeker (19071982), amante del cabaret, impiegava i comici che arrivavano nel suo campo in uno spettacolo che andava in scena il martedì sera, dopo la partenza dei treni per Auschwitz. I comici si esibivano su un palco costruito con le assi di una sinagoga. Una parte di battute le ho inventate rifacendomi alla tradizione ebraica; altre provengono da quella tradizione, incluse quelle, ironiche, di autodenigrazione degli ebrei contro gli ebrei. E poi, come fonti ho usato il Diario di Philip Mechanicus sulle esibizioni di Westerbork e le Lettere di Etty Hillesum, vittima della Shoah.
CLAUDIO BISIO — È una storia drammatica. E questo romanzo è scritto da un autore che conosce la comicità e ha il coraggio di entrare nella battuta, che quasi mai è letteratura, ma è sporca, dipende dal tono di voce, è oggettivamente difficile da scrivere. Leggendolo mi è venuta in mente la frase «Una risata vi seppellirà» (attribuita a Michail Bakunin, ndr), ma qui è rovesciata: una risata vi salverà.
FEDERICO BACCOMO — È così: oltre al trauma della fame, alle malattie, al lavoro schiavo, c’era il trauma psicologico, la perdita del controllo sulla vita, ritrovarsi in balia del male assoluto. Per i pochissimi che ci riuscivano, ridere poteva essere una forma di resistenza. Lily Rickman, sopravvissuta ad Auschwitz, racconta che quando la rasarono disse: «Non mi era mai successo che mi tagliassero i capelli gratuitamente». Stava affermando uno spirito che i nazisti cercavano di annientare. In seguito continuò a fare battute sui capelli, che le ricrebbero mossi: «Mi hanno tolto tanto, ma mi hanno lasciato la permanente, non dovrò più andare dal parrucchiere». Può essere un modo di processare l’orrore, di opporgli una resistenza morale.
Nel 1949 il filosofo Theodor W. Adorno disse che «scrivere una poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie». Si può ridere dopo e nel contesto della Shoah? E chi è legittimato a farlo?
FEDERICO BACCOMO — Ridere nelle, o addirittura delle, tragedie viene vista come una cosa deplorevole. Ma, se è ancora possibile farlo, se ci si riesce, quando il mondo è nel caos, una risata pone una distanza da quello che stiamo vivendo. Se la battuta di Rickman l’avesse fatta una guardia nazista, sarebbe stata oscena, volgare, indecente. Ma fatta dalla vittima è un meccanismo di difesa; lo spartiacque non sta nella battuta in sé, ma nell’intenzione di chi ci sta dietro; dipende se viene da chi cerca di processare l’orrore o da chi cerca di denigrare la vittima. In questo caso la battuta diventa un carico ulteriore su quel dolore immane.
CLAUDIO BISIO — Sono d’accordo. Daniel Pennac mi riferì un aneddoto che girava a Parigi nel mondo yiddish e tra qualche musulmano moderato all’indomani della strage di «Charlie Hebdo», anche per esorcizzare quella tragedia: «Un sarto ebreo parigino è nel suo negozio; entra trafelato un tipo con le armi in pugno che grida Allah è grande! Allah è
grande! E il sarto gli risponde: Si calmi, qui facciamo tutte le taglie, grandi, piccole...». Penso ci sia diritto, soprattutto da parte delle vittime e sicuramente non del carnefice, ma anche da parte di qualcuno in modo oggettivo, di fare battute politicamente scorrette, un po’ agghiaccianti, che però rivelano, come qui, l’assurdità di uno che entra in un luogo con le armi urlando Allah è grande! La risata può aiutare dal punto di vista psicologico chi ha subito un danno, una violenza.
FEDERICO BACCOMO — Si dice che la risata sia la migliore medicina; la risata non è solo uno sfogo di qualcuno che sta bene. Mark Twain diceva che in paradiso non c’è il senso dell’umorismo; infatti è all’inferno che c’è bisogno di ridere.
CLAUDIO BISIO — O rischia di essere tutto noioso. Citando Henri Bergson, la risata nasce sempre da un incidente, una mancanza, un difetto. Con la perfezione non c’è narrazione comica, servono i difetti fisici, psicologici. Se c’è solo armonia a nessuno serve la medicina.
Stiamo vivendo il dramma del Covid: la malattia, il lutto. Si può fare comicità nel corso di questa tragedia?
FEDERICO BACCOMO — Sì, dipende da come lo si fa. In questo momento non possiamo più vivere la vita come vogliamo; se mi proibisco anche di ridere, e non perché sto ridendo dei morti, ma perché sto cercando di tenere vivo il mio spirito, non vedo che vantaggio può venirne alla società; invece vedo quello che viene al singolo. Qualche anno fa è morto mio papà; durante il funerale mia mamma stava per svenire perché è allergica all’incenso. Le ho detto all’orecchio: «Mamma, ti giuro che al tuo funerale farò in modo che non ci sia incenso». E a lei è venuto un po’ da ridere. Era una sciocchezza, ma nessuno poteva accusarci che stavamo ridendo di quell’evento. Ho capito che c’era ancora uno spirito da tenere vivo. La pandemia ci sta lasciando un trauma economico, fisico, ma c’è anche quello psicologico, la solitudine. E visto