Corriere della Sera - La Lettura
Le megalopoli conquisteranno la Terra Ma non l’Italia
Per quante se ne siano dette e scritte contro la città, quasi fosse la prima nemica dell’uomo, della sua stabilità psicologicoesistenziale e della sua sicurezza personale, il nostro è il tempo della condizione urbana, in tutte le sue diverse forme.
La popolazione del globo sta diventando sempre più una popolazione urbana, una popolazione delle città, delle sempre più diffuse e sempre più grandi città delle pianure. Già oggi oltre il 55 per cento della popolazione mondiale vive entro i confini di quelli che vengono definiti dalla Population Division delle Nazioni Unite agglomerati urbani, proporzione destinata a superare il 60 per cento entro il 2030. A quella data le città con oltre 500 mila abitanti saranno passate, secondo previsioni assai puntuali, da 1.146 a 1.416 per una popolazione complessiva destinata a salire da 2,2 a 2,9 miliardi di abitanti. Poiché gli abitanti della Terra aumenteranno nel frattempo dai 7,8 miliardi attuali agli 8,5 previsti per il 2030, ecco che l’intero aumento della popolazione mondiale dei prossimi dieci anni sarà esclusivo appannaggio delle città più grandi del pianeta.
L’impetuoso popolamento terrestre segue dunque due direttrici assolutamente interconnesse: le pianure, la prima; le città — e più ancora le grandi, le grandissime città — la seconda. Nel 2030 un abitante della Terra su sette vivrà nelle per allora 109 città con oltre 5 milioni di abitanti, e non c’è, come suggerisce la logica ancora prima della geografia, una sola città di queste dimensioni che non si trovi in pianura, la grandissima parte, o su vasti altipiani pianeggianti, la restante parte.
Nel mondo moderno non hanno fatto che affievolirsi non solo le ragioni che spingono, ma anche quelle che trattengono gli uomini nelle aree che non sono pianeggianti, che non sono urbane, che non sono pienamente accessibili. Le aree dalla geografia fisica meno favorevole tendono a spopolarsi in ogni regione e Paese del mondo.
Il fenomeno è così marcato che, secondo l’Onu, i tre quarti dei Paesi che hanno dati demografici aggiornati al 2019 dichiarano di avere incoraggiato negli ultimi cinque anni la redistribuzione della loro popolazione attraverso almeno una delle cinque linee strategiche indicate dalla stessa Onu: decongestionare le grandi città, orientando i residenti verso centri urbani e suburbani vicini più piccoli; ridurre la migrazione dalle aree rurali a quelle urbane; ridurre specificamente le migrazioni verso i più grandi agglomerati urbani; ricollocare la popolazione delle zone ambientalmente più fragili; promuovere insediamenti nelle aree spopolate.
Si tratta di linee strategiche non facili da perseguire e dagli incerti risultati. E infatti i ritmi di incremento della popolazione urbana non rallentano. È però vera una cosa: mentre le grandi città americane ed europee cominciano a mostrare segni di stasi se non di restringimento, non foss’altro quantitativo, le grandi città di aree e regioni in via di sviluppo e poco sviluppate disegnano tendenze che ipotecano il futuro. Culturalmente, economicamente e politicamente si assiste a un graduale spostamento d’asse incarnato, se così si può dire, dalla distribuzione geografica delle più grandi città del globo: ormai cristallizzata nell’Occidente europeo e nord-americano, in pieno e vivace sommovimento nel resto del mondo.
La forza attrattiva della città
Nel mondo globale, individualistico e fortemente competitivo, abitare e vivere nelle città di pianura è diventata una precondizione per cercare di realizzare, con le più alte speranze di successo, obiettivi e aspirazioni — anche quando obiettivi e aspirazioni sono piuttosto limitati, se non proprio al confine con la semplice sopravvivenza, come succede principalmente nel caso delle città africane.
E se l’uomo urbano moderno è sostanzialmente un prodotto dell’Europa e della sua proiezione transoceanica, gli ultimi decenni ne hanno ampliato a dismisura l’habitat. Tra i Paesi a reddito più alto (1,2
miliardi di abitanti) e quelli a reddito più basso (700 milioni di abitanti) il divario di popolazione urbana è abissale: l’81,5 per cento nei primi contro il 32,2 per cento nei secondi. Tutto vero. Ma nel mezzo c’è una ressa di Paesi nei quali l’uomo urbano ha numericamente sopravanzato l’uomo rurale.
Australia-Nuova Zelanda, Nord America, America del Sud, Nord Europa superano tutte l’80 per cento di popolazione urbana, lasciando molto indietro l’Asia (50 per cento) e l’Africa (42,5 per cento). Ma anche Asia e Africa hanno Paesi e regioni con un grado di urbanizzazione molto più alto di quello continentale (basti dire del Giappone, con il 91,6 per cento di popolazione urbana) e stanno recuperando il distacco che le separa dall’Occidente. L’Asia lo sta facendo soprattutto grazie alla Cina, che negli ultimi quattro decenni ha visto un imponente travaso di popolazione dalle campagne alle città.
In Africa, dove la proporzione di popolazione urbana è raddoppiata in vent’anni, stiamo assistendo all’esplosione di megalopoli di dimensioni inimmaginabili, al di fuori di ogni logica urbanistica e residenziale e nell’assoluta carenza dei servizi essenziali di abitazioni, elettricità, trasporti, sanità, scuola. Kinshasa, nella Repubblica Democratica del Congo, e Lagos, capitale della Nigeria, entrambe oltre i 13 milioni, supereranno i 20 milioni già entro il 2030, con Lagos destinata addirittura a raggiungere i 50 milioni di abitanti, e diventare così la più grande città del mondo — superando Delhi, che a sua volta con 39 milioni di abitanti supererà Tokyo entro il 2030 — nella seconda metà del secolo.
Le città mondo
Sono 33 le città con oltre 10 milioni di abitanti (megacities) nel mondo, destinate a diventare 43 entro il 2030. Assai significativa è la loro distribuzione geografica dal momento che: a) 27 di esse sono situate in Paesi poco sviluppati (se includiamo in essi anche la Cina, con le sue 6 megacities); b) addirittura 9 delle 10 città che supereranno i 10 milioni di abitanti entro il 2030 sono situate in Paesi in via di sviluppo; c) l’Occidente europeo e nord americano resterà con le sole 5 città attuali con più di 10 milioni di abitanti (Londra, Parigi e Mosca in Europa, New York e Los Angeles in America), surclassato in termini di megacities da tutte le altre regioni del mondo.
Tokyo e Delhi, San Paolo del Brasile e Dacca, Città del Messico e Il Cairo, Shanghai e Mosca, New York e Londra, ma anche Karachi e Giacarta e perfino Lagos e Kinshasa, le grandi città con oltre 10 milioni di abitanti rappresentano veri universi, città-mondo con proprie economie e modus vivendi, logiche di centralità e potenza, contraddizioni e diseguaglianze che coprono tutta la scala, se proprio non la superano, delle contraddizioni e delle diseguaglianze dei rispettivi Paesi e regioni. Allo stesso tempo fragili e invincibili, modelli di razionalità e imperi del caos, inizio e fine di ogni prospettiva futura, le megacities sono assurte a simbolo degli indirizzi di popolamento del globo al tempo della superpopolazione e della globalizzazione. La loro sempre più spiccata distribuzione nelle cosiddette periferie della Terra lascia intendere i sommovimenti anche geopolitici che si preparano. Le periferie di oggi, sempre più urbanizzate, sono più presenti, nel panorama mondiale, delle rurali periferie polverizzate di ieri. Pesano di più. Conteranno, anche, di più.
Italia, Europa
In seno all’Europa, l’Italia non brilla per popolazione urbana, ferma da un bel po’ attorno al 70 per cento. Sotto la media di un continente (74,5 per cento) che in questo campo ha la sua punta nell’Europa del Nord (82,2%).
Bellissima, l’Italia, certo, ma non così fisicamente agevole, tutt’altro. Una superficie di 302.073 chilometri quadrati (kmq) così ripartiti: territorio montano 35,2 per cento, territorio collinare 41,7 per cento, pianura 23,1 per cento. Difficile fare di meglio, quanto a popolazione urbana, con a disposizione una pianura che è meno di un quarto della superficie
totale e nella quale si accalcano oggi 30 milioni di abitanti, la metà degli italiani, e tutte le città più grandi.
Ciò detto, mentre tra il 1951 e il momento del suo massimo popolamento (fine 2014) la popolazione italiana aumenta di 13 milioni, la montagna arretra di un milione di abitanti, la collina ne guadagna 4, la pianura 10. La direzione non sembra confutabile: scendere, diffondersi e assestarsi in basso, in pianura, stabilendosi di preferenza nella città, nella medio-grande città.
Ma le cose non sono scivolate via così lisce. Le 15 città italiane con più di 200 mila abitanti, dopo un boom tra il 1951 e il 1971 che accompagna e supporta il miracolo economico e fa schizzare la loro popolazione da 8,2 a 11,5 milioni di abitanti, entrano in un lento declino alla conclusione del quale sono ancora 15 — con Padova che ha preso il posto di Cagliari —, ma la loro popolazione complessiva è scesa a 9,7 milioni, perdendo 1,8 milioni di abitanti e il 16 per cento nel tempo stesso in cui l’Italia aumenta di oltre 6 milioni di abitanti. L’Italia delle metropoli dunque non fiorisce, seppure non appassisce. Deve arrendersi all’Italia delle cittadine di 10-50 mila abitanti, l’Italia dei mille campanili, che aumentano nel frattempo fin quasi a 1.100, passando da 15 a 21 milioni di abitanti.
Un bene? Un male? La storia del moderno popolamento urbano del nostro Paese attende ancora di essere letta e interpretata in modo adeguato.
La dicotomia
Nel suo movimento verso la pianura e le città la popolazione mondiale si sta in certo senso dicotomizzando. Nuove differenze e diversità, culturali e valoriali, di comportamenti e stili di vita, di prospettive e aspirazioni, stanno separando quanti abitano regioni geografiche caratterizzate da una grande intensità urbana da quanti abitano in aree periferiche e montuose ancora ad alto tasso di ruralità. In tutto il mondo occidentale si stanno evidenziando, tra gli altri, comportamenti elettorali sempre più divergenti, che hanno nella grande città e nelle aree più geograficamente decentrate e disagiate i due punti di massima lontananza di opinioni e preferenze politiche, con una tendenza di massima ad abbracciare idee più liberali e progressiste nelle città, specialmente se grandi, e invece più tradizionali e conservatrici nelle aree rurali e periferiche. Già si era avuta una prova di questa tendenza alla divaricazione nel 2016 con il referendum sulla Brexit, quando nell’Inghilterra della vittoria del Leave le grandi città, da Londra a Manchester, avevano votato al 60 per cento per il Remain. La controprova delle presidenziali di novembre negli Stati Uniti è stata perfino più clamorosa, con gli Stati delle due coste, con percentuali di popolazione urbana oltre il 90 per cento, tutti per il democratico Joe Biden e nel mezzo l’America profonda, rurale, con percentuali di popolazione urbana della metà, a grande maggioranza per il presidente uscente Donald Trump.
Nella stessa Africa, il grande snodo di tutto il popolamento futuro — e per quanto megacities come Lagos siano in gran parte immense distese di tetti di lamiera separate dai quartieri residenziali da servizi privati di sicurezza e protezione —, vivacità e creatività produttivo-imprenditoriale si concentrano essenzialmente nelle grandi città produttrici tanto di ricchezza e reddito quanto di contraddizioni e contrasti del massimo livello. Quanto, infine — e la cosa non è certo da sottovalutare — di élite e classi dirigenti politico-culturali.
Dopo l’articolo dedicato la scorsa settimana ai trend demografici del nostro Paese e dell’intero pianeta, approfondiamo la questione dello spostamento massiccio della popolazione dalle aree montane e rurali verso quelle pianeggianti e urbane. Di qui al 2030 il 60 per cento degli esseri umani vivrà in città e tutto l’aumento previsto degli abitanti del globo si verificherà nei centri con oltre mezzo milione di residenti, che passeranno da 2,2 a 2,9 miliardi di individui. Intanto le megacities dove vivono più di 10 milioni di persone aumenteranno da 33 a 43, concentrate nelle regioni in via di sviluppo. La nostra penisola fa eccezione: le metropoli perdono terreno e prosperano i mille campanili di medie dimensioni