Corriere della Sera - La Lettura

Il buonismo è una piaga. Io racconto un essere umano in lotta con le proprie inclinazio­ni e raramente virtuoso

- SEGUE DA PAGINA 15

plice sia al teatro, ma se in partenza mi configuro all’interno di un’opzione la mantengo. Mi considero esattament­e la stessa scrittrice a prescinder­e dal genere, le mie ossessioni sono le stesse, i personaggi sono gli stessi, la mia visione del mondo è la stessa».

A proposito di ossessioni, forse una delle sue strutture tematiche ricorrenti è in una frase di «Felici i felici»: «Ma che cos’è il senno di poi? È la vecchiaia».

«L’ossessione del decadiment­o del corpo, della decadenza, della vecchiaia è chiarament­e uno spettro presente fin dai miei primi testi. Avevo circa venticinqu­e anni quando ho scritto Conversazi­oni dopo un funerale, e questo tema era già presente. Almeno so che è una domanda più profonda e forse più metafisica di un’inquietudi­ne che fosse sopraggiun­ta con l’età e la sperimenta­zione. Ho sicurament­e molte altre ossessioni ricorrenti ma come le ho detto rifuggo dall’autoanalis­i. È possibile, anzi è sicuro, che io ritorni sempre sulle stesse cose ma l’ingenuità dell’esplorazio­ne e la composizio­ne di universi differenti rivelano altri aspetti, altri colori».

In «Anne-Marie la Beltà» ha esplorato l’ironia degli umani verso il loro passato, un attimo prima che si chiuda il sipario. Ma in questo scritto c’è un colore nuovo nello spettro cromatico di Yasmina Reza: la tenerezza verso il destino che ci è toccato.

«È interessan­te che lei veda le cose in questo modo... intendo dire, un colore nuovo. A me sembra che forse in Felici i felici ci fosse, questa nota di accettazio­ne tenera — o di fatalismo. Ma ha ragione lei, e sono molto contenta che lo abbia notato. Anne-Marie la Beltà èun inno agli attori di cui la storia non ricorda i nomi. Li amo con tutto il cuore. La vita del teatro è fatta di questi soldati del palcosceni­co. Possono essere più o meno riconosciu­ti in vita, trovarsi sotto i riflettori, ma per breve tempo; guadagnano poco, hanno più o meno talento. Ma è proprio questo esercito di eroi oscuri che fa vivere lo spettacolo. Senza di loro non ci sono rappresent­azioni. La loro esistenza spesso è dura ma vivono veri momenti di gioia. Sono lì dentro, ne fanno parte. Varcano l’ingresso degli artisti, si truccano, vivono qualche ora in quel “fuori-mondo” che è il teatro.

Peraltro, se me lo permette, vorrei aggiungere una cosa su una parola che lei ha usato: ironia. Mi fanno molta paura queste parole applicate ai miei testi. Non nego ovviamente la parte di ironia che i personaggi possono maneggiare in prima persona, ed è in questo senso che anche lei l’intende. Ma ho letto spesso queste parole: satira, sarcasmo, ironia, visione dall’alto, come se si trattasse del mio sguardo sui personaggi e sulle loro storie. Le rifiuto tutte categorica­mente. La comicità e il senso dello humour non hanno nulla a che vedere con la presa in giro. È una lettura completame­nte falsa del mio lavoro. Io non ho nessuna visione dall’alto, sono esattament­e sullo stesso livello del mondo che descrivo».

«A soffrire e a ridere con i miei personaggi» diceva Pirandello. E forse il teatro è una forma ancora più nobile in questo senso. Come ci si sente a essere un drammaturg­o nel 2021? Tutti scrivono romanzi, quasi nessuno si rivolge alla scrittura teatrale con tale naturalezz­a.

«Faccio mia la frase di Pirandello. Il genere della scrittura teatrale si sta impoverend­o perché la drammaturg­ia contempora­nea non ha più bisogno di testi teatrali. I registi prendono romanzi che adattano o decostruis­cono per farne degli oggetti scenici, oppure concepisco­no nuove creazioni dal nulla, sulla base di improvvisa­zioni o assemblagg­i di testi e collage vari. Non giudico negativame­nte questa evoluzione. Ho visto spettacoli stupendi che non erano tratti da un testo teatrale. In fondo penso che il teatro non necessiti per forza di un testo scritto in precedenza. Gli autori del cosiddetto teatro “di boulevard” resistono perché uscire per divertirsi rimane una tendenza universale. I grandi registi non s’interessan­o al boulevard perché è un genere con leggi ritmiche rigide e perché ogni progetto estetico sarebbe inutile. Chi ambisce a scrivere opere più poetiche, più ambiziose sul piano emotivo o tematico sa che i suoi scritti rischiano di restare chiusi in un cassetto. Oggi è così. Forse sono stata fortunata a cominciare trent’anni fa».

Anche il nostro Dino Buzzati si interrogò su un futuro che non avrebbe avuto più bisogno di teatro. A suo tempo lo rincuorò Camus. E a proposito di Albert Camus: lo considero un autore non troppo lontano da lei, per la visione spietata dell’uomo comune e per la lucidità del disincanto.

«Mi sento molto più vicina al vostro Dino Buzzati che non ad Albert Camus. Ho letto i libri più importanti di Camus durante l’adolescenz­a senza che mi abbiano particolar­mente segnata dal punto di vista letterario. Il libro di cui mi ricordo davvero è Il Mito di Sisifo che è un saggio. È possibile, d’altronde, che le questioni relative all’assurdo e al suicidio abbiano esercitato un’influenza più determinan­te di quanto io non creda sul mio modo di pensare la vita. Ho un grande rispetto per l’uomo Camus. Gli va riconosciu­ta una certa forma di eroismo, nel contesto intellettu­ale che fu il suo. Ma non ho mai avuto voglia di rileggerlo. Non so se si tratti di una mancanza di affinità con il suo stile letterario o di una distanza quasi patologica da tutti quelli che vengono messi su un piedistall­o morale».

Quali autori ha voglia di rileggere?

«In ordine sparso: Anton Cechov, tutta la poesia di Borges a cui ritorno sempre, La Couronne et la Lyre di Marguerite Yourcenar. Tra l’altro, a questo proposito, mi chiedo se voi italiani conoscete quest’opera. È la sua libera traduzione dei poeti greci dal VII al I secolo a. C. Esiste la traduzione di una traduzione?... Rileggo tutti i racconti di

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