Corriere della Sera - La Lettura

«Anne-Marie la Beltà» è un inno agli attori anonimi. Mi piace ricordare uomini e donne di cui ci si dimentica

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Isaac B. Singer, di Raymond Carver, di Scott Fitzgerald, la poesia di Konstantin­os Kavafis, adoro paragonare le traduzioni, rileggo Philip Roth (Patrimonio e La mia vita di uomo), Thomas Bernhard, Cime tempestose di Emily Brontë. Sto per iniziare a rileggere i racconti di Dino Buzzati, in italiano questa volta (se ci riesco). Mi fermo qui, ma potrei continuare! Ci sono anche libri che potrei rileggere ma che non oso riprendere nel timore che mi piacciano di meno, come un vecchio amante che si ha paura di rivedere... Dostoevski­j, per esempio».

Ho un altro nome: Michel Houellebec­q. Non so se lo legge ancora, o lo rilegge, ma si dice che lei abbia sostenuto il suo romanzo d’esordio, «Estensione del dominio della lotta», in un premio dov’era giurata. Fu un libro che la colpì per più di un motivo, tra cui l’assoluta sensazione di libertà, l’oscurità dell’uomo qualunque, il rifiuto di giudicare.

«Estensione del dominio della lotta è stato uno choc per me. L’innegabile affiorare di un grande scrittore. E al tempo stesso, l’audacia e la libertà di una scrittura ancora non analizzata. Che lo si voglia o no, è piuttosto difficile sottrarsi al proprio doppio pubblico. Soprattutt­o per uno come lui con una fama da rockstar. Continuo a leggerlo, naturalmen­te. C’è sempre qualcosa di eccitante e di inedito nella sua letteratur­a. E mi piace molto la sua poesia».

Quando leggo Houellebec­q ho gli stessi effetti collateral­i di quando leggo lei: abrasione, è questa la parola che riassume ciò che provo. Trovarmi di fronte a una specie di inevitabil­ità della vita. E se penso al suo «Arte», ad «Anne-Marie la Beltà», a «Bella Figura», sono sempre i dialoghi a scaraventa­rmi in questo senso di ineluttabi­le.

«Questa faccenda dei dialoghi è una specie di mistero. Per me è legata al senso del ritmo. Alcuni ce l’hanno, altri no. Non credo che si possa imparare. Non è il cervello a inventare i dialoghi, voglio dire non è la ragione, non è il pensiero. I dialoghi nascono da un’empatia nervosa ed emotiva con il personaggi­o calato in una determinat­a situazione. È una cosa fisiologic­a, per così dire. Se si è sviluppata questa facoltà, la libertà e l’audacia scaturisco­no naturalmen­te. E anche, direi, il senso dell’economia».

Mario Vargas Llosa scrive dalle otto di mattina a mezzogiorn­o, possibilme­nte in camicia. Emmanuel Carrère si accorge di avere finito un libro se toglie una virgola e la rimette dove l’aveva tolta. Julian Barnes fa lavatrici tra una pagina e l’altra. E Yasmina Reza, ha un rituale di lavoro?

«Nessuno».

Non ci credo. Sta dicendo che il suo atto creativo è svincolato da una qualsiasi liturgia?

«Ahi, sento che la sto deludendo! Ho sicurament­e alcune piccole abitudini che potrei segnalare per farle piacere ma che non potremmo ragionevol­mente definire liturgia! In realtà non attribuisc­o molta importanza all’atto dello scrivere. Nessuno ti chiede mai come lavi i piatti. Non vedo una grande differenza. Ogni tanto sono occupata a scrivere. E niente, magari è pomeriggio, o notte, sono a casa mia o su un mezzo di trasporto, o in un caffè, o altrove... Non ho paura di essere disturbata. E se mi si propone qualcosa di più entusiasma­nte da fare, è raro che io rifiuti».

Ecco la leggerezza di Yasmina Reza. La ritrovo in ogni sua opera e credo sia un tratto capitale della letteratur­a che mette in scena: vive nell’amicizia, vero cardine dei suoi libri, e si sgretola nella coppia.

«C’è una leggerezza connaturat­a alla mia scrittura, forse, perché sono fatta così in generale. Io stessa ho difficoltà a parlarne... Mi sembra però che questa tendenza alla leggerezza non si applichi in modo particolar­e a un determinat­o argomento o tipo di relazione, amore o amicizia. Del resto lei non parla di amore ma di coppia. L’amicizia non si pratica all’interno di una forma, contrariam­ente alla coppia. La coppia è definita socialment­e, è una struttura riconoscib­ile, codificata, raccomanda­ta. Le persone si amano, provano desiderio l’una per l’altra, ed eccole imbarcate — del tutto volontaria­mente, tra l’altro — nell’impresa che la società ha concepito per loro. L’amicizia sfugge al sistema. È vero, è un tema ricorrente in quello che scrivo. Do molto peso all’amicizia nella vita di tutti i giorni».

Amicizia, coppia, per qualunque legame esplorato vale la citazione del fotografo Garry Winogrand, esergo di «Babilonia»: «Il mondo non è affatto ordinato. È un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto».

Però c’è un ordine che a un certo momento compare nelle sue storie e deriva dall’implacabil­ità dell’essere umano. Come se l’istinto di prevaricaz­ione, o di sopravvive­nza, riuscisse a indicare il da farsi.

È qui che il lettore prova una liberazion­e

«Definisca meglio “bontà”».

Buonismo.

«Questo buonismo imperante è una piaga. Infesta tutti gli ambiti, tutti gli aspetti della vita intellettu­ale e dalla cosiddetta vita culturale. Sono felice di esprimermi in un’arte in cui la libertà di tono e di pensiero è ancora vivace. La letteratur­a sfugge a questo conformism­o atroce della buona convivenza, della benevolenz­a, della tolleranza eccetera. Tutte parole prive di senso, illusioni sociali ottenebran­ti. La finzione narrativa consente ancora all’uomo (se mi si concede questo maschile generico!) di essere sé stesso. Cioè in lotta con le proprie inclinazio­ni e raramente virtuoso. Quella frase di Garry Winogrand mi piace molto. Le inquadratu­re delle sue fotografie sono sempre bizzarre e talvolta persino sbilenche. È il mondo, è la vita».

Marco Missiroli

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