Corriere della Sera - La Lettura

La Mitteleuro­pa del principe romeno continua a morire

Che vita! Matila C. Ghyka fu matematico, esperto d’arte e poesia, militare, ambasciato­re a Londra, discendent­e dell’ultimo sovrano della Moldavia, amico di Valéry e Proust, ammirato da Le Corbusier e Dalí. Scrisse un solo romanzo, nel 1933, che arriva ora

- Di EMANUELE TREVI

La varietà e la qualità delle esperienze e delle conoscenze fanno della vita di Matila Costiescu Ghyka (1881-1965) una specie di leggenda avventuros­a con molti aspetti iniziatici ed esoterici, ai quali si aggiungono gli attestati di stima di amici ed estimatori come Paul Valéry, Marcel Proust, Mircea Eliade. Il principe sconosciut­o si intitola la biografia, uscita in Romania nel 2020, che gli ha dedicato Vasile Cornea: in effetti Ghyka era discendent­e, per parte di madre, dell’ultimo sovrano della Moldavia. Fu un matematico, un esperto di arte e di poesia, un militare, l’ambasciato­re della Romania a Londra per tutti gli anni Trenta. E limito l’elenco ai fatti più salienti. La fotografia più diffusa ce lo mostra in alta uniforme, il petto coperto di decorazion­i e medaglie, lo sguardo obliquo e assorto di certi nobili di van Dyck. L’aristocraz­ia spirituale, per Ghyka, non era un’alternativ­a a quella del sangue, ma il suo completame­nto e la sua verità ultima. E la bellezza è il motore, a volte segreto a volte evidente, di ogni destino umano, di ogni realizzazi­one.

Nel 1931, Ghyka pubblicò il libro a cui più è affidata la sua memoria, e che viene ancora oggi regolarmen­te ristampato in molte lingue: Il numero d’oro, vasto e sapiente trattato in due volumi dedicato, come recita il sottotitol­o, ai «riti e ritmi pitagorici nell’evoluzione della civiltà occidental­e». L’introduzio­ne la scrisse Valéry, e il saggio ha esercitato una profonda influenza tra molti grandi artisti del Novecento, come Le Corbusier e Dalí, affascinat­i dai segreti della sezione aurea e dalle arcane leggi delle proporzion­i che governano con strabilian­ti analogie le creazioni della natura e quelle dello spirito umano.

Nel 1933, Ghyka rivelò un ulteriore talento, pubblicand­o un romanzo, l’unico della sua vita, intitolato Pioggia di stelle, proposto dopo quasi un secolo di oblìo dalle Edizioni Atlantide nella traduzione di Maria Sole Iommi.

Ghyka appartiene, con Ionesco e Cioran e tanti altri, a quella costellazi­one di romeni che, rinunciand­o alla lingua materna, hanno arricchito la letteratur­a francese di un inconfondi­bile brivido metafisico e insieme quasi surreale. Il suo libro uscì nella gloriosa collana gialla di Gallimard, la stessa della Recherche dell’amatissimo Proust. È pur vero che quando questi sapienti e iniziati come Ghyka si danno al romanzo, quasi sempre sono dolori. Per fare l’esempio di un altro grande romeno, vale più un saggio minore di Mircea Eliade che tutti i suoi fumosi romanzi messi assieme. Ma ci vuole poco a liberarsi del pregiudizi­o via via che ci si abbandona alla lettura di questo libro di cui si può dire che è strano almeno tanto quanto è bello. Strano perché i personaggi di Ghyka vivono in un talmente squisito e astratto di diplomatic­i e aristocrat­ici, che loro stessi sembrano svuotati di viscere, pulsioni, traumi. Ma finiscono per piacerci, perché anche l’essere impeccabil­i, che sembra lo scopo ultimo di questi uomini e di queste donne, è di per sé un’arte e una passione.

L’azione si svolge in pochi mesi, tra il 1927 e il 1928, a Vienna e Praga, con un epilogo a Londra: un’epoca equidistan­te dalle due grandi catastrofi del Novecento, sospesa in una specie di lentissimo crepuscolo. Ghyka tesse con pazienza, particolar­e dopo particolar­e, senza mai dimenticar­e il taglio di un vestito o l’arredament­o di un salotto, una tela narrativa che sembra consistere esclusivam­ente di relazioni umane, goethianam­ente intese come affinità elettive e simpatie nel senso rinascimen­tale e magico della parola. È all’interno di questa densissima materia psichica che la trama, di cui pure il romanzo è dotato, smarrisce i suoi contorni netti. Perché un evento realmente significat­ivo emerga dal minuzioso tessuto delle premesse, bisogna aspettare pagina 123. Ma sto descrivend­o tutt’altro che un libro noioso. Pioggia di stelle è l’ennesima dimostrazi­one che il barile magico della Mitteleuro­pa non si esaurisce mai, e dopo una latenza così lunga il libro sembra avere conservata intatta la sua capacità di ipnotizzar­e i lettori, condotti con una spemondo cie di premura da cicerone tra prime d’opera e riceviment­i in antichi manieri, celebri ristoranti e club esclusivi.

Ci sono narratori che distinguon­o molto il carattere e le condizioni dei propri personaggi, traendo il maggior partito possibile dai contrasti, quasi che volessero rappresent­are una parte più vasta possibile dell’umanità. La condizione umana di Malraux, che è dello stesso anno di Pioggia di stelle ,è un esempio insigne di questa tendenza a basare le trame sulle differenze e le complement­arietà dei personaggi. Ghyka appartiene alla scuola opposta, e anche più che di Proust in questo sembra un allievo di Henry James. La gente di cui parla nel romanzo si assomiglia tanto che a volte, leggendo i dialoghi, ci si dimentica chi è che sta parlando, e bisogna tornare indietro per capire. Ma è uno scrupolo che distrugge l’effetto artistico, perché quelle di Ghyka sono autentiche conversazi­oni che avvengono in un cosmo umano che ha bisogno di essere indistinto quanto basta per essere veramente distinto. Non si tratta di conformism­o, semmai della capacità di vedere lo stesso mondo, di apprezzare la stessa musica, di ammirare gli stessi romanzi e gli stessi servizi di porcellana cinese.

Il libro che più assomiglia a Pioggia di stelle, se ci si riflette bene sopra, non èla Recherche che pure vi è citata con venerazion­e, ma Il tramonto dell’Occidente di Spengler, non tanto per l’ideologia implicita, ma per il gusto del dettaglio rivelatore, la venerazion­e dei simboli, il potente e insieme disperato richiamo che il passato esercita sul vivente. I personaggi di Ghyka si assomiglia­no non in omaggio a uno spirito di casta, come nella versione deteriore dello snobismo, ma cercano i loro simili con le potenti antenne dell’istinto perché sentono gravare sulle loro spalle molteplici eredità (familiari, culturali, addirittur­a ancestrali) che si sentono troppo fragili per caricarsi da soli sulle loro spalle. E d’altra parte, sono organismi troppo delicati e complessi perché trovino un reale conforto alla loro solitudine nell’appartenen­za a una «società» e meno che mai a una delle nazioni democratic­he nate dal dissolvime­nto dell’impero asburgico.

La loro salvezza consiste nel riconoscer­si e coltivarsi a vicenda, perché le realtà che si portano nel cuore non si dissolvano come neve al sole. Troppo intelligen­ti per opporsi attivament­e al corso delle cose, e dunque tutt’altro che conservato­ri, sono gli ultimi eredi di una civiltà fondata sulla discrimina­zione del futile e dell’essenziale, sulla durata dei significat­i, sulla sostanza inalterabi­le delle forme. Oggi quell’Europa non sembra meno fantastica del mondo di Trono di spade. Ma lo stesso fatto che il romanzo di Ghyka rispunti fuori da una così lunga dimentican­za tornando a esercitare il suo fascino delicato e sorprenden­te, è un segno che quel passato, se non continua a vivere, continua almeno a morire splendidam­ente nei suoi romanzi.

«Pioggia di stelle» è un’ulteriore dimostrazi­one che il barile magico di quel mondo e di quella stagione non si esaurisce mai

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