Corriere della Sera - La Lettura
La memoria malata pesca i ricordi
Passaggi Il romanzo di Mariapia Veladiano è una narrazione affettuosa su una vita vissuta nonostante l’Alzheimer La storia di Andreina e della zia Camilla sostituisce all’idea di una normalità perduta quella di una normalità diversa
Atutta prima, questo Adesso che sei qui di Mariapia Veladiano lo diresti un romanzo «dentro l’Alzheimer». E si va poi sempre più configurando come romanzo nel quale l’Alzheimer riveste un ruolo da coprotagonista insieme alla persona che lo sta vivendo e a chi ha deciso di assisterla. Ma la realtà è che Adesso che sei qui è il romanzo di una vita «vissuta nonostante l’Alzheimer». Ed è la vita, in un paesino alle primissime propaggini del Monte Bondone, degli zii Camilla e Guidangelo, «un uomo buonissimo» che adorava la moglie, «il suo cuore»: una coppia con i quali stavano pure il cane Pedro, nonna Maria e zio Leandro, «un uomo gentile» dagli «occhi azzurrissimi. Uomo quasi invisibile, nella casa». Una Camilla «minuta e dritta come una canna», con un «fisico poco contadino eppure robusto, capace di governare casa, campi e stalla senza fatica. Era un tratto della sua originalità, così come la passione bizzarra per alcune cose kitsch», e una passione per la fotografia. Il suo «grande dispiacere era stato non avere avuto figli. Dispiacere di tutta la vita, eterno presente di un vuoto».
Un vuoto colmato da Andreina, una bimba «nata di troppo», perché dopo due femmine i genitori desideravano «un figlio maschio che continuasse la campagna», tanto da trovarsi battezzata «Andrea per dispetto» da una mamma già colpita da depressione post-partum dopo la nascita della seconda figlia, che cede alle istanze della sorella Camilla di affidargliela, rompendo quasi del tutto ogni rapporto con loro. Una «quasi figlia» che gli zii amano «incondizionatamente». Ma la Andreina che qui racconta è «una signora di mezza età nata e cresciuta in paese», con due figli ormai grandi avuti con Teo, laureato in legge ma che alla professione forense ha preferito il lavoro di traslocatore: grazie a questo ha incontrato una giovane Andreina scappata di casa, riportandocela, e sposandola tre mesi dopo. Ad Andreina un’inconscia paura fa rubricare come semplici distrazioni i «primissimi segni» dell’Alzheimer della zia, anche perché «Camilla aveva la tranquilla indistruttibilità di chi era stato molto amata». E Andreina si rende conto che deve «imparare» non solo a gestire i «progressivi deficit di memoria» e il «deterioramento di funzioni esecutive» attraverso certi approcci (evitare espressioni quale «ti ricordi quella volta che…»), ma pure a difendere la zia dai tentativi d’isolarla in un «ospizio», sostituendo al «vedere solo la perduta normalità» la volontà di vivere questa «diversa normalità, perché comunque c’è una vita possibile per chi è malato, bella e piena, anche se diversa».
Ne viene anche un autentico, tenerissimo vademecum in forma narrativa (il collante sta nei corsivi tra i capitoli narrativi e in quelli di riflessione), che porta l’autrice a disegnare altre figure memorabili, grazie alle quali — e nonostante gli interventi del buffo quanto disastroso zio Alfonso, il fratello cappuccino di Camilla — Camilla «ha vissuto anche nella malattia. E ha distribuito allegria e gioia». Dalle due «governanti»: Merhawit, tanto ossessionata dal naufragio dei barconi, da spingersi sempre più a nord, lontana da ogni tipo di acqua; e l’algerina Naima con i due suoi figlioli, liberatasi da un marito padrone; alle «ragazze» del Progetto Alzheimer che attraverso un rapporto osmotico con la zia giungono ad abolire ogni ricorso ai farmaci, dando spazio a una Camilla «sveglia, non lucida, ma sveglia, e si potevano fare le cose. Tutte le cose che lei era ancora in grado di fare». Certo, «una donna fragile piena di emozioni e si vedeva», anche nel trasmettere «tutto il suo sgomento, la paura, il bisogno di riconoscimento, la necessità di entrare in relazione, il desiderio di parlare». E però sempre «bellissima, il corpo sottile, i piedi ben calzati nelle scarpe basse di vernice o di pelle scamosciata, i capelli a caschetto eleganti».
Ne viene allora anche un romanzo sulla memoria, in prospettiva inedita: una memoria affettiva che «inselvatichiva il presente ma coccolava il passato»; che, nel pescare una fotografia, «se ricordava qualcosa, raccontava; oppure la metteva da parte, senza preoccupazione», recuperando solo ricordi belli: e dove questo suo riscrivere la realtà diveniva «una specie di lezione di vita». E così non solo «la zia Camilla viveva», ma con lei «tante persone si scoprirono vive e amabili», permettendo «di diventare tutti migliori». A partire dalle sorelle: l’estrosa zia Lauretta, ben gestita nel suo morbido riavvicinamento a Camilla; ma pure la madre di Andreina, anche se ha un poco da «finale in gloria» il suo porre termine ad anni di astiose incomprensioni e silenzi. Interessante anche la prospettiva della Andreina insegnante (come l’autrice): richiamata nel frequente parallelo tra Camilla e i suoi alunni a proposito dell’imparare a leggere incertezze e sgomenti del vivere.
Una narrazione affettuosa, con una scrittura comunicativa che, salvo qualche espressione o tratto edulcorati, sa ben dosare i passaggi dal dramma alla malinconia, al sorriso, all’allegrezza e persino al comico nel delineare il percorso dalla fragilità alla ripresa del possesso di sé, quale che sia il presente, grazie agli altri.