Corriere della Sera - La Lettura
Bologna, anni Ottanta Buchenwald, 1944
Marilù Oliva intreccia due vicende, distanti nella storia e nella geografia, per costruire il romanzo di una bambina infelice e di una prigioniera di un campo di concentramento. Uno sguardo sul Novecento in cui tutto si tiene
Bianca è una bambina infelice che per addolcire la sua vita si rifugia nel mondo delle fiabe: dove c’è un papà principe azzurro che le vuole bene, mentre la mamma che ha un nome un po’ strano, si chiama Candi, è gelida come una matrigna. Nella Bologna degli anni 80 la protagonista di Biancaneve nel Novecento (Solferino), il nuovo romanzo di Marilù Oliva, per crescere ha bisogno di rifugiarsi in una realtà immaginaria. Una fantasia che giustifichi l’esistenza del suo disagio e l’aiuti a pensare che ci sarà un lieto fine. Ma la ragazzina, precoce e sensibile, intuisce presto che nei sentimenti esistono anche sfumature e ambiguità. E sono proprio queste a rendere tutto più complicato. «Oltre ai guerrieri del Bene e alle forze del Male, i due regni erano popolati anche da una schiera di gente invisibile — più celata, più debole e quindi più perniciosa — che non prendeva mai posizione e, quando lo faceva, sceglieva la sudditanza verso il più tracotante».
Sottomissione e vigliaccheria sono atteggiamenti molto diffusi e qui rappresentano il filo rosso che unisce i due piani narrativi del romanzo: i capitoli che raccontano di Bianca e della sua vita bolognese procedono paralleli a quelli, datati 1944, del diario di una prigioniera nel campo di concentramento di Buchenwald. La donna si chiama Lili, è francese ed è finita nel famigerato settore di Sonderbau, la casa di tolleranza del lager. «Il sistema dei casini era una strategia voluta da Himmler per migliorare la produttività. Pensato per ringalluzzire i prigionieri, ne approfittavano gli stessi ufficiali. Gli inferiori, per lo più Kapò, si presentavano con pezzi di carta — i buoni — ricevuti in cambio di un lavoro o perché si erano distinti».
Queste pagine, drammatiche e angoscianti, rivelano atrocità documentate. Come la follia criminale di Ilse Koch, moglie di Karl Otto, capo del campo di concentramento, soprannominata «Strega di Buchenwald», che si era fatta confezionare paralumi con pelle umana. O come l’agonia della principessa Mafalda di Savoia, finita nel lager poco prima della conclusione della guerra, che morì ricoverata proprio nel Sonderbau trasformato, in un rigurgito di pietà, in infermeria.
L’alternarsi delle descrizioni di realtà così lontane proietta suspense sull’evoluzione della trama, cattura il lettore che, con un senso di inquietudine, cerca di intuire il legame delle due vicende. Indizi vengono disseminati pagina dopo pagina, mentre l’intreccio diventa più stretto e sorprendente. L’autrice sfrutta con maestria questo sdoppiamento narrativo e riesce nell’ambizioso progetto di raccontare gran parte del Novecento, nelle sue luci e ombre, arricchendo le vicende dei protagonisti del romanzo con i veri eventi storici. «Volevo creare un collante tra la storia che viviamo tutti i giorni, e la grande storia, quella che crediamo ci sormonti, ma in realtà ci affianca quotidianamente, soltanto talvolta non ce ne accorgiamo perché siamo troppo distratti dall’incombenze dell’esistenza e dai nostri guai», spiega nelle note del romanzo.
Oliva raggiunge l’obiettivo con una scrittura densa ed evocativa intrisa di dettagli, sia nella parte ambientata a Buchenwald che in quella bolognese. Nel primo caso la tragicità è resa con un accurato studio di reperti d’epoca. Nel secondo l’amarcord diventa specchio fedele dei costumi e delle prime manie consumistiche. Fa rivivere gli anni 80 con gli eventi di cronaca che hanno colpito la città. La tragedia di Ustica, la strage della stazione, i crimini della banda della «Uno bianca». In confronto alle descrizioni della vita di Lili nel lager, la fatica di crescere, negli ultimi due decenni del secolo, per la giovane Bianca, nonostante qualche capitombolo psichedelico, può sembrare lieve. Anche se dopo la perdita dell’amato padre il rapporto con la madre è sempre conflittuale. Non è più la matrigna delle fiabe ma comunque una donna complicata: anaffettiva, vanitosa, ribelle. Quasi una mina vagante con violenti sbalzi umorali. Qualche tormento sconosciuto la logora e consuma. Riesce a trovare pace solo con i consigli della veggente di fiducia e soprattutto nell’abbondante consumo di bevande alcoliche.
Quando la ragazza cresce e acquista consapevolezza, l’equilibrio fra madre e figlia sembra ribaltarsi: Bianca deve badare alle intemperanze materne e arriva a sospettare che ci sia una ferita mai rimarginata nell’animo di Candi. Perché per sopravvivere i traumi si occultano, con il rischio che, nel tempo, diventino più velenosi e profondi. E si trasformino in segreti di famiglia, tramandati con un’eredità di malessere.