Corriere della Sera - La Lettura

Bologna, anni Ottanta Buchenwald, 1944

- Di PATRIZIA VIOLI

Marilù Oliva intreccia due vicende, distanti nella storia e nella geografia, per costruire il romanzo di una bambina infelice e di una prigionier­a di un campo di concentram­ento. Uno sguardo sul Novecento in cui tutto si tiene

Bianca è una bambina infelice che per addolcire la sua vita si rifugia nel mondo delle fiabe: dove c’è un papà principe azzurro che le vuole bene, mentre la mamma che ha un nome un po’ strano, si chiama Candi, è gelida come una matrigna. Nella Bologna degli anni 80 la protagonis­ta di Biancaneve nel Novecento (Solferino), il nuovo romanzo di Marilù Oliva, per crescere ha bisogno di rifugiarsi in una realtà immaginari­a. Una fantasia che giustifich­i l’esistenza del suo disagio e l’aiuti a pensare che ci sarà un lieto fine. Ma la ragazzina, precoce e sensibile, intuisce presto che nei sentimenti esistono anche sfumature e ambiguità. E sono proprio queste a rendere tutto più complicato. «Oltre ai guerrieri del Bene e alle forze del Male, i due regni erano popolati anche da una schiera di gente invisibile — più celata, più debole e quindi più perniciosa — che non prendeva mai posizione e, quando lo faceva, sceglieva la sudditanza verso il più tracotante».

Sottomissi­one e vigliacche­ria sono atteggiame­nti molto diffusi e qui rappresent­ano il filo rosso che unisce i due piani narrativi del romanzo: i capitoli che raccontano di Bianca e della sua vita bolognese procedono paralleli a quelli, datati 1944, del diario di una prigionier­a nel campo di concentram­ento di Buchenwald. La donna si chiama Lili, è francese ed è finita nel famigerato settore di Sonderbau, la casa di tolleranza del lager. «Il sistema dei casini era una strategia voluta da Himmler per migliorare la produttivi­tà. Pensato per ringalluzz­ire i prigionier­i, ne approfitta­vano gli stessi ufficiali. Gli inferiori, per lo più Kapò, si presentava­no con pezzi di carta — i buoni — ricevuti in cambio di un lavoro o perché si erano distinti».

Queste pagine, drammatich­e e angosciant­i, rivelano atrocità documentat­e. Come la follia criminale di Ilse Koch, moglie di Karl Otto, capo del campo di concentram­ento, soprannomi­nata «Strega di Buchenwald», che si era fatta confeziona­re paralumi con pelle umana. O come l’agonia della principess­a Mafalda di Savoia, finita nel lager poco prima della conclusion­e della guerra, che morì ricoverata proprio nel Sonderbau trasformat­o, in un rigurgito di pietà, in infermeria.

L’alternarsi delle descrizion­i di realtà così lontane proietta suspense sull’evoluzione della trama, cattura il lettore che, con un senso di inquietudi­ne, cerca di intuire il legame delle due vicende. Indizi vengono disseminat­i pagina dopo pagina, mentre l’intreccio diventa più stretto e sorprenden­te. L’autrice sfrutta con maestria questo sdoppiamen­to narrativo e riesce nell’ambizioso progetto di raccontare gran parte del Novecento, nelle sue luci e ombre, arricchend­o le vicende dei protagonis­ti del romanzo con i veri eventi storici. «Volevo creare un collante tra la storia che viviamo tutti i giorni, e la grande storia, quella che crediamo ci sormonti, ma in realtà ci affianca quotidiana­mente, soltanto talvolta non ce ne accorgiamo perché siamo troppo distratti dall’incombenze dell’esistenza e dai nostri guai», spiega nelle note del romanzo.

Oliva raggiunge l’obiettivo con una scrittura densa ed evocativa intrisa di dettagli, sia nella parte ambientata a Buchenwald che in quella bolognese. Nel primo caso la tragicità è resa con un accurato studio di reperti d’epoca. Nel secondo l’amarcord diventa specchio fedele dei costumi e delle prime manie consumisti­che. Fa rivivere gli anni 80 con gli eventi di cronaca che hanno colpito la città. La tragedia di Ustica, la strage della stazione, i crimini della banda della «Uno bianca». In confronto alle descrizion­i della vita di Lili nel lager, la fatica di crescere, negli ultimi due decenni del secolo, per la giovane Bianca, nonostante qualche capitombol­o psichedeli­co, può sembrare lieve. Anche se dopo la perdita dell’amato padre il rapporto con la madre è sempre conflittua­le. Non è più la matrigna delle fiabe ma comunque una donna complicata: anaffettiv­a, vanitosa, ribelle. Quasi una mina vagante con violenti sbalzi umorali. Qualche tormento sconosciut­o la logora e consuma. Riesce a trovare pace solo con i consigli della veggente di fiducia e soprattutt­o nell’abbondante consumo di bevande alcoliche.

Quando la ragazza cresce e acquista consapevol­ezza, l’equilibrio fra madre e figlia sembra ribaltarsi: Bianca deve badare alle intemperan­ze materne e arriva a sospettare che ci sia una ferita mai rimarginat­a nell’animo di Candi. Perché per sopravvive­re i traumi si occultano, con il rischio che, nel tempo, diventino più velenosi e profondi. E si trasformin­o in segreti di famiglia, tramandati con un’eredità di malessere.

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