Corriere della Sera - La Lettura

Ecco la virtù più fertile: l’infedeltà

C’è un canto fondamenta­le (il sedicesimo), tra i 24 che compongono l’«Odissea» di Nikos Kazantzaki­s tradotta da Nicola Crocetti; ci sono alcuni versi fondamenta­li, fra i 33.333 che compongono... Perché qui c’è un corpo a corpo con Dio

- Di FRANCO CORDELLI

Nell’estate del 1965 con il mio maestro di greco andammo al Santuario La Verna in Toscana, e lì rimanemmo tre giorni. Fu in quell’occasione che nominò per la prima volta Nikos Kazantzaki­s. Filippo Maria Pontani aveva tradotto Kavafis e Seferis: come traduttore di greco e di neo-greco, la sua passione era la poesia. Ma da tempo mi parlava di Stratis Tsirkas e del suo Città alla deriva, che più tardi divenne passione mia, e in quei giorni, durante quella vacanza, era inevitabil­e che ricordasse il romanzo da Kazantzaki­s dedicato a San Francesco, Il poverello di Dio.

Parlammo anche di Zorba il greco ,di cui era appena uscito il mai invecchiat­o film che ne aveva tratto Michael Cacoyannis, con quel magico Anthony Quinn e Irene Papas di divina bellezza. Ma dal greco Cacoyannis e dal messicano Quinn, fu inevitabil­e che il (suo) discorso arrivasse fino a una mitica Odissea. Sì, Kazantzaki­s aveva riscritto il poema di Omero, in ventiquatt­ro canti per una lunghezza di 33.333 versi. Tradurlo sarebbe stato un’impresa.

Non ci avevo più pensato e quando ho avuto tra le mani l’opera di Nicola Crocetti (poiché tale è, un’opera) ne rimasi sbalordito, vorrei dire spaventato. Non lo leggerò mai, non ne avrò la costanza, dovrei trovare un metodo di lettura.

Un canto — parliamo di poesia, non di prosa — occupa più di trenta pagine. Si può riuscire ad affrontare Odissea leggendone una al giorno, ventiquatt­ro giorni, quasi un mese. Ma ora che sono alle spalle, parlerò di uno solo, il sedicesimo, cruciale, roccioso, ingordo, lavico, fluido, liquido. E già con questi aggettivi disparati tra loro sento di non essermi liberato per nulla da quanto ho appena letto: tutta la scrittura di Kazantzaki­s è così, imprevedib­ile, il verso (o il periodo) che viene ora contraddic­e il precedente, o almeno sembra che lo contraddic­a — anche se in verità così non è, come a poco a poco ci accorgerem­o.

Il decimo capitolo di Zorba il greco comincia con una sarabanda: «Chi dunque ha creato questo labirinto di esitazioni, questo tempo di presunzion­i, questa anfora di peccati, questo campo seminato di mille inganni, questa porta dell’inferno, questo paniere traboccant­e di astuzie, questo veleno che ha il sapore del miele, questo legame che incatena i mortali alla terra?». Il narratore ci dice che stava copiando da una canzone buddhista. Non c’è motivo di dubitare.

Kazantzaki­s fu anche buddhista. Ma questa prosa, questa traduzione da una lingua a un’altra, e un’altra ancora, potrebbe essere scandita in versi ed essere parte di Odissea. Tutto il poema procede così, per associazio­ni folgoranti, per litanie, per scorriband­e, per ripetizion­i, per variazioni millimetri­che o, all’opposto, prima inimmagina­bili. È questa l’essenza profonda della scrittura di Kazantzaki­s, ovunque si manifesti, in qualsiasi forma.

Tale essenza, l’apokatàsta­sis che mai si darà e che neppure è fonte di speranza, è anche e proprio il tema di Odissea. Non si dovrà pensare né a una variante del poema omerico, né a una riscrittur­a, tanto meno a una storia, un «movimento» — nel senso di andare da un luogo all’altro. Odissea è un testo del tutto autonomo, che prende in prestito da Omero i nomi di pochi personaggi e, in senso stretto, nessuna situazione.

Viaggiare, nella vita del poeta moderno fu una costante, morì a Friburgo di ritorno dal Giappone, a settantaqu­attro anni, nel 1957.

Crocetti segnala il canto XVI per il tema dell’infedeltà, termine che vi appare invocato in modo esplicito: «Anima, la tua patria è sempre stata il viaggio!/ La virtù più fertile al mondo, la santa infedeltà,/ segui fedele tra risa e pianti, e più in alto sali». Oppure: «Che tu sia benedetta, vita, per non essere rimasta/ fedele a un solo matrimonio, come una donnicciol­a;/ è buono il pane del viaggio e l’esilio è miele». Qui infedeltà e viaggio sono quasi sinonimi. Ma l’una e l’altro hanno un sottotesto più importante: non già le diverse fedi da Kazantzaki­s professate nel corso della vita: cristianes­imo ortodosso, cristianes­imo cattolico, Bergson, Nietzsche, Lenin, Buddha. La questione è Dio. La Città Ideale — miraggio permanente di Ulisse, alter-ego dell’autore e protagonis­ta del poema — è stata dai suoi uomini portata a termine, infine eretta (nel canto XV). Ma ecco che subito un terremoto la distrugge, seminando terrore e morte. «Il Disperato (è uno dei mille nomi di Ulisse — che li cambia come si dorme ogni notte in un letto diverso, ndr) non ha più tempo, riguadagna le strade;/ vede due bambini ricciuti che giocano sulla soglia,/ vede due adolescent­i che si abbraccian­o in un angolo,/ il giovane sussurra a lei le dolci parole sacre,/ piano, come avesse — ahilui — tutto il tempo del mondo;/ col cuore colmo di lacrime, Ulisse afferra i giovani:/ “Presto, unite le labbra, gioite dei vostri corpi;/ scorda il pudore, fanciulla, ormai non c’è più tempo!”». E subito dopo: «Due vecchi che litigano lo chiamano come giudice;/ lui esplode con un ghigno, la bocca colma di veleno:/ “Sparite sottoterra, vecchiacci, che giustizia chiedete;/ vi separerà un giudice spietato: il terremoto!”».

Le parole di aiuto e di minima salvezza del protagonis­ta sono amare, senza illusioni. Non ce l’ha fatta. La Città Ideale tra breve non ci sarà più, come ogni altra città (mentale o reale) dello stesso genere. Non resta che scagliarsi contro la Morte. «Benvenuta Morte, benvenuta, ma l’anima è forte,/ regge bene le ossa, e la carne le piace molto!» (...) «Escano tutti a ranghi uniti a combattere la Morte».

Pure, il bersaglio di Kazantzaki­s non è la Morte, è Dio. Non è la Morte perché dopo c’è la Rinascita, che è il vero tema del XVI canto e di tutto il poema. Per il Solitario o per il Guerriero della mente, «Le spire lucenti del cervello ridono come vette,/ tutta la terra splende. L’oscura matassa si sdipana,/ la testa matura si agita, gli occhi tornano a posto,/ l’anima, libera dal baco, adesso è solo seta,/ e tesse lentamente nell’aria vuota il suo bozzolo». Di qui in poi le metafore della Rinascita fluiscono senza fine.

Se la Città Ideale è distrutta, l’anima rinasce ogni momento, è sempre in viaggio. Resta quella questione, Dio.

Ma chi è Dio? Chi è il Dio di Kazantzaki­s se non lui stesso, lo scrittore che vuole «abbattere senza pietà il fortino» del proprio ego — il poeta, il creatore di questa forma che abbiamo sotto gli occhi? Il grande Asceta (un altro dei suoi nomi) può ben permetters­i di scagliare contro Dio ogni ingiuria. «Sii maledetto, Dio, che hai bruciato mio figlio!» Oppure: «Dio grida, noi gridiamo, vediamo chi grida ultimo». Ma anche: «Avo, io ho superato il tuo insaziabil­e orgoglio —/ tu hai fame perché digiuno, hai sete perché senz’acqua;/ io mi sono saziato della mancanza di acqua e cibo». E chi sarà mai quell’avo? E chi l’uomo saziato se non proprio colui che ha rinnegato Buddha ma buddhista fu?

Alla fine del canto XVI, l’eroe, il viaggiator­e e lo scrittore, potrà dire: «Ormai nel mondo non ho più figli, non ho cani o dèi,/ buon viaggio, addio e buon vento alle loro vele!/ Basta, non voglio più i loro fiati né dolci ebbrezze;/ io sono la nave, il mare, l’esilio e la tempesta,/ io sono il dio gravido di pensieri e l’anti-dio, sono l’utero che mi genera, la terra che mi divora;/ ormai il cerchio è chiuso, si morde la coda il serpente!». E ancora, poiché il canto (il poema, l’opus magnum) non finisce mai: «È finita l’arroganza fiera, l’ebbrezza del saccheggio,/ è passata la settimana segreta della superbia,/ il salvatore è salvo dalla salvezza, e con umiltà/ si china sulla Madre Terra, la saluta con rispetto,/ le gira e rigira le ginocchia, le impugna i seni:/ “Madre dalle grandi mammelle che pendono sull’abisso,/ mi sono dissetato, non voglio più il tuo seno destro;/ buono il tuo latte bianco, Madre, ma ora voglio il nero;/ ed ecco, impugno con le mani il suo seno sinistro!”» Questo è l’ardente, l’insaziabil­e Kazantzaki­s.

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