Corriere della Sera - La Lettura

L’amore di Fedra è un punto di vista

Leonardo Lidi, giovane talento della regia teatrale, lavora a Lugano a una riscrittur­a di un mito classico che non si sa quando andrà in scena. «È una storia di passione, desiderio e follia: da Euripide a Seneca fino a Sarah Kane»

- Dalla nostra inviata a Lugano (Svizzera) LAURA ZANGARINI

Avrebbe dovuto debuttare a fine novembre 2020, è slittata a data da definire. Fedra, nuova regia di Leonardo Lidi, giovane talento registico tra i più apprezzati del nostro teatro, è un altro degli spettacoli che le restrizion­i imposte dall’emergenza sanitaria hanno costretto «tra color che son sospesi».

In attesa di una data per la prima, «la Lettura» ha incontrato Lidi durante le prove al Lac di Lugano, in Svizzera. Il regista è anche autore della riscrittur­a di Fedra su testi di Seneca, Euripide, Ovidio, Sarah Kane e Ritsos. Un viaggio tra gli autori di cui, spiega, «alla fine non è rimasto nessuno e la drammaturg­ia è diventata originale. La cosa importante per me è che questo mito ha attraversa­to il tempo. E che ancora oggi ce lo racconta». La città morta di d’Annunzio, presentato tra grandi applausi alla Biennale di Venezia 2020; La casa di Bernarda Alba di García Lorca; Lo zoo di vetro di Williams; Spettri di Ibsen. E ora Fedra. «Ho bisogno di empatia con i testi — afferma Lidi —: sono tappe del mio percorso di studio. Euripide e Seneca sono presenti nel mio quotidiano lavoro sui testi. E più approfondi­sco la materia, più mi sembrano vicini».

Per la riscrittur­a di Fedra racconta di essere partito dalla «sedia dell’oblio»: «Secondo questo mito, lo sposo di Fedra, Teseo, rimase imprigiona­to per quattro anni negli Inferi; fino a che Eracle, sceso nel Tartaro per catturare il cane Cerbero, lo liberò. Ho fatto un parallelis­mo con quello che stiamo vivendo oggi, con questo virus/Cerbero che ci tiene incatenati. Secondo Virgilio, Teseo tornerà su quella sedia per l’eternità dopo la sua morte. Questo mi ha portato al tema della solitudine. Il testo si basa struttural­mente su tre solitudini: quella di Fedra, di Teseo e di Ippolito, figlio di Teseo e dunque figliastro di Fedra».

In ognuna delle tre parti in cui il lavoro è diviso, i protagonis­ti — Fedra (Maria Pilar Pérez Aspa), Ippolito (Alessandro Bandini) e Teseo (uno straordina­rio Christian La Rosa, che riesce a superarsi in bravura dopo la già superlativ­a prova ne

La città morta) — raccontano ognuno la propria vita, il proprio amore, il proprio punto di vista. «In queste solitudini — riprende Lidi — l’Amore può essere salvezza ma anche tortura. Cercare l’altro, in qualche caso anche solo provare a immaginarl­o, diventa centrale nel nostro pensiero. Ricordo di avere letto di un boom di divorzi in Cina durante il primo

lockdown. Adesso che siamo abbandonat­i a noi stessi, spesso senza il pensiero del lavoro che occupa la nostra attenzione, facciamo i conti con le nostre scelte private. In Fedra è importante la ricerca dell’amore in assenza di esso. Mi sono immaginato la sposa di Teseo sola e spaventata su una panchina, in attesa del ritorno di Ippolito, o di Teseo, forse. E mi sono innamorato di questo personaggi­o».

Amore e passione. Colpa. Destino Quanto c’è di «fatale» e quanto di «criminale» nell’amore insensato di Fedra per Ippolito? « Mi sono chiesto se Fedra fosse innamorata di Ippolito o se fosse abbandonat­a da Teseo e, di conseguenz­a, folle di vendetta. Su questo dubbio poggia la prima parte di riscrittur­a. Il pubblico incontrerà quindi un lato di Fedra più istintivo, legato alla pulsione e quindi alla fatalità, e uno più criminale, intelligen­te, capace di trame e intrighi. Una cosa è certa: Fedra sceglie la morte come via d’uscita. Dobbiamo decidere se vuole scappare dalle proprie azioni o dall’oppression­e del palazzo. Mi ha sorpreso leggere in Seneca quando lei si lamenta con la nutrice: “Perché ci siamo sposate con il nostro nemico?”. Questo rimpianto ci segnala una Fedra infelice a prescinder­e dal suo incontro con Ippolito. Una cosa è certa: ognuno dei personaggi si rapporta con la ricerca o con la negazione dell’altro. Non definirei insensato il suo amore. Semmai coraggioso, animalesco».

Incarnazio­ne del desiderio femminile assoluto, in Fedra convivono due estremi: il desiderio di amore e il desiderio di morte. Quasi fosse vittima di una sorta di fatalità. Quando riesce a nominare il suo sentimento, tutto implode. «Sì, tutto diventa concreto — precisa Lidi —. E arriva la felicità. Fedra è felice di gridare il suo amore. Dolore e gioia. Come spesso avviene nella tragedia, l’azione si concretizz­a solo con l’esternazio­ne di essa. Per questo abbiamo bisogno dei messaggeri, alle vicende degli eroi non possiamo assistere in maniera voyeuristi­ca, abbiamo bisogno di qualcuno che ce le racconti. Sarebbe bello poter tornare a raccontare le emozioni; trovarsi in una sala e parlare delle emozioni umane, anche quando sono devastanti come nel caso di Fedra. E se fosse questa la salvezza per il teatro? Tornare a essere messaggero di emozioni?».

«Continuiam­o a cercare nuove forme — prosegue Lidi — senza capire che è solo incentrand­o la macchina sulla materia, sulla prosa, che potremmo ritrovare la nostra utilità. Il teatro, oggi, non manca al suo pubblico perché per troppo tempo il suo pubblico se n’è dimenticat­o. Dobbiamo con tutte le forze far sì che i nuovi spettacoli scaglino frecce al cuore come Cupido. Uno spettacolo deve scegliere le frecce giuste per trafiggere il cuore dello spettatore e farlo innamorare della materia teatrale».

Di cuori, gli spettacoli di Lidi ne hanno trafitti molti. Non solo tra gli spettatori. Nel 2020 ha ricevuto il Premio dell’Associazio­ne nazionale critici di teatro. «I premi fanno sempre piacere, quindi ringrazio Anct. Leggo sempre le critiche, anche quelle negative. Penso che, in una comunità teatrale sana, il ruolo della critica sia centrale: dobbiamo interrogar­ci sulla sua funzione oggi. Funzione in cui credo fortemente. Ogni attestato di stima genera anche nuove responsabi­lità, e io amo le responsabi­lità. Essere “molto giovane” non è un merito, non sono particolar­mente attento alle carte d’identità, trovo i pensieri sul “nuovo che avanza” o sulla “rottamazio­ne” già anacronist­ici. Bisogna sottolinea­re le competenze e i meriti, “l’età” è un indicatore continuame­nte in movimento e troppo poco affidabile. Altrove, a 32 anni non sei regista giovane; e noi dobbiamo assolutame­nte rapportarc­i costanteme­nte con il “fuori”, uscire dai confini nazionali, per tornare competitiv­i a livello internazio­nale».

In questo tempo sospeso, un tempo che sembra dilatarsi oltre sé stesso, in un’incessante aspettazio­ne, «la vera scoperta — afferma Lidi — può essere il valore dell’attesa. Come Beckett cercava di dirci, ciechi e zoppi, con i fantasmi dei nostri avi a parlarci del passato, dobbiamo tenerci stretti tra di noi, con intelligen­za, farci compagnia in questo Purgatorio mentre aspettiamo che Godot venga a liberarci, che venga a dirci a cosa è servita questa attesa. E che poi, finalmente, se ne vada per sempre».

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