Corriere della Sera - La Lettura
Il ritorno dei corpi
A un certo punto, quando la «vicevita» digitale sarà ridimensionata, ci rimetteremo in coda per mostre, film, concerti... Allora sarà chiaro l’anacronismo contro i visitatori di critici anti-moderni come Jean Clair
In una delle sue ultime canzoni, Giuliano Sangiorgi dei Negramaro canta: «Di parlare ero stanco/ Ho voluto sentire sul corpo/ (...) Ho cercato il contatto/ Per sfiorarti ogni tanto/ (...) Ora esco e ti cerco /(...) Ho fatto molti sogni (...)/ Per arrivare a vederti/ Per arrivare a toccarti».
In questi mesi, spesso, ci siamo interrogati sugli spazi e sulle funzioni del web e dei social. Nella lunga notte della pandemia, dispositivi elettronici e piattaforme hanno assolto al ruolo di autentiche sacche di resistenza, facendoci dialogare con il mondo esterno: amori, affetti, lavoro. Da parentesi protettive e monadi chiuse, questi strumenti sono diventati nostre protesi, che ci hanno consegnato i simulacri del reale, spalancandoci le porte, per dirla con il titolo di un libro di Valerio Magrelli, di una sorta di «vicevita».
Si pensi a quel che è avvenuto nelle scuole e nelle università, con la didattica a distanza. E si pensi alle tante iniziative promosse dai musei per sopravvivere allo choc-Covid: costrette a ridefinire i propri palinsesti comunicativi, queste istituzioni hanno iniziato a usare il web e i social non più come vetrine ma come non-luoghi destinati alle anime virtuali, dove hanno portato avanti le attività di produzione e di divulgazione della cultura, provando a saldare il momento della formazione con il gusto per il divertimento, attraverso App, canali tematici, viaggi immersivi, giochi intelligenti, progetti collaborativi, interfacce, focus curatoriali, corsi accademici gratuiti (Mooc), tour virtuali. Inoltre, si pensi alla scelta di tanti artisti, che stanno sfruttando Instagram come un’originale pinacoteca senza pareti, frequentata da un pubblico vasto e liquido di follower, dove postare fotografie, video, backstage di work in progress.
Ma sono, appunto, simulacri, legati a uno stato di eccezione come quello in cui siamo immersi. Certo, nell’immediato futuro, dovremo imparare a muoverci in un sistema governato dal blended model, da modelli misti, ibridi. Ma — occorre chiedersi — che cosa sarebbero le esperienze scolastiche e universitarie senza le atmosfere e gli scambi (anche silenti), in un’aula «vera», tra un docente e i suoi allievi? Che cosa sarebbe la ricerca scientifica senza il confronto «concreto» tra studiosi in un laboratorio? E che cosa sarebbe il nostro lavoro senza quelle fasi nelle quali condividiamo idee e intenzioni con i nostri compagni di avventura? E ancora: quale viaggio può essere «risolto» da un filmato o da una fotografia? E, infine: che cosa è un’opera d’arte solo riprodotta e documentata su un sito o su un social? E una mostra fruita soltanto sullo schermo di un pc o di uno smartphone?
Azzardiamo qualche illazione. Quando usciremo dal tunnel della pandemia, più che in passato, il corpo tornerà a reclamare le proprie ragioni, le proprie necessità, le proprie urgenze; e assumerà una forte e addirittura scandalosa centralità. Perché è lì che si nasconde il senso stesso dell’esistere, come aveva osservato Paul Valéry: «Il corpo è la cosa più presente, più costante e più variabile che esista (...). Nulla infatti si muove davanti a noi se non grazie a una modificazione corrispondente che prende forma in noi stessi e che segue o imita quel movimento intravisto». Da un lato, nel post-Covid, avremo una consapevolezza diversa dei device attraverso i quali vengono mediati eventi e stati d’animo. Dall’altro lato, avvertiremo il bisogno di ritornare a quei rapporti umani che oggi ci mancano. Continueremo ad assistere allo srotolarsi della civiltà digitale, che, in sé, custodisce una sua bellezza e un suo valore. E, insieme, avremo voglia di tornare a sentirci troppo umani, ponendo le basi per l’avvento di un diverso umanesimo, inteso come prassi quotidiana e come territorio del fare, non come campo del sapere. Avremo una furiosa necessità di riconquistare dimensioni che il virus sembra avere preso in ostaggio: il desiderio, le mani, la voce, le imperfezioni, gli abbrac
A un certo punto, quando la «vicearte» digitale sarà ridimensionata, i profeti della fisicità saranno di nuovo lì a parlarci, presenti in quanto opere: Abramovic, Gilbert & George, Urs Lüthi, Stelarc e McCarthy...
ci, le fatiche, le vicinanze, le carezze, gli umori, le risate, le lacrime. E riscopriremo la potenza del tatto che, a differenza della vista e dell’udito, come ha recentemente ricordato Giorgio Agamben, dice la nostra stessa capacità di toccare e di essere toccati. Con il contatto, non ci limitiamo a incontrare ciò che è fuori di noi: quando sfioriamo un altro corpo, sentiamo anche la nostra carne, abolendo ogni mediazione. Scrive Agamben: «Se, come si cerca oggi perversamente di fare, si abolisse ogni contatto, (...) noi perderemmo allora non soltanto l’esperienza degli altri corpi, ma innanzitutto ogni immediata esperienza di noi stessi».
Quando saremo fuori da questa apocalisse, avremo bisogno di tornare al cinema, al teatro. E avremo voglia di metterci in fila per andare a visitare musei e mostre: è quel che si apprestano a fare, dal 16 gennaio, pur nel rispetto di rigorose misure sanitarie e solo per le collezioni permanenti, i residenti nelle zone gialle.
Così, d’incanto, ci appariranno anacronistici alcuni rilievi di critici anti-moderni come Jean Clair. Il quale ha stigmatizzato le ritualità dei visitatori frettolosi, condannati a interminabili pellegrinaggi il cui «beneficio intellettuale e spirituale (...) è pari quasi allo zero». Parole severe che, presto, ci appariranno lontane, desuete. Ne siamo certi: anche i più ostinati conservatori dovranno misurarsi in maniera diversa e più laica con i fenomeni culturali di massa. Chiamati a sfidare una crisi drammatica e dolorosa, i grandi musei, perciò, dovrebbero iniziare ora ad attrezzarsi per riarticolare i propri percorsi espositivi, per riallestire le proprie collezioni e per programmare nuove mostre (co-prodotte a livello internazionale).
Musei e mostre sono come la terraferma per quadri e sculture. E rappresentano l’approdo naturale per il lavoro degli artisti. I quali, negli ultimi mesi, hanno attraversato momenti difficili, traumatici: personali rimandate, fiere cancellate, collezionisti in crisi. Spesso, essi hanno agito in maniera segreta e clandestina. Si sono rinchiusi negli atelier-celle, dove hanno realizzato le proprie opere. Che hanno trattato non come semplici prodotti, ma come persone concrete, con un’anima, portatrici di problematiche uniche e inimitabili, dotate di un’identità, di un carattere, di propri diritti, di propri enigmi. Persone mute, incomplete. Che, per vivere e respirare davvero, sono «in attesa» di noi: dei nostri sguardi, dei nostri commenti.
Pittura, scultura, ma non solo. Non è difficile immaginare che, quando finalmente inizierà la vita nova, torneranno di moda le pratiche artistiche legate alla fisicità. La public art. E, soprattutto, la performance, i cui profeti degli anni Settanta (Marina Abramovic, Urs Lüthi, Gina Pane, Rebecca Horn, Gilbert & George) e i cui interpreti degli anni Novanta (Matthew Barney Orlan, Stelarc, McCarthy, Stebark, Marcel, Marcel·lí Antúnez Roca, Janine Antoni), riluttanti a ricorrere ai media classici, hanno sostituito la «presenza» dell’opera tradizionale con la propria «presenza», utilizzando sé stessi come prodigiosi mezzi di comunicazione, come materie da esibire e da metamorfosare, dinanzi agli occhi partecipi e disorientati degli spettatori.
Forse, però, il vero trionfo del corpo sarà altrove: nei confini di un fenomeno quasi-artistico. Ci riferiamo ai concerti rock. In quei templi di aggregazione sociale e di contagio affettivo si celebrano i riti delle tribù postmoderne: pulsioni collettive, attimi di eccitazione diffusa. Si tratta di prodotti eclettici, effimeri, spaesanti, nei quali si compie una sorta di ritorno, in chiave popolare, di una divinità antica come Dioniso: ombra latente che, periodicamente, si dissemina nelle pieghe delle nostre vite; dio barbarico dell’ebbrezza e dell’estasi che, di tanto in tanto, si impone, violando i nessi tra conscio e inconscio, liberando l’istinto dalla camicia di forza della razionalità.
Dunque, prepariamoci a un’età profondamente, gioiosamente, corporale. «Il corpo significa! Comunica! Grida! Contesta! Sovverte!», si legge in una pagina di Se una notte d’inverno un viaggiatore di Italo Calvino.