Corriere della Sera - La Lettura
Tutta la musica di Keith Jarrett senza la musica
Il 21 ottobre 2020 in una dolorosa intervista al «New York Times» il grande jazzista ha confessato che gli ictus di due anni prima non gli avrebbero più permesso di suonare. Oggi Roberto Masotti, il fotografo che lo ha ritratto per 40 anni, pubblica una biografia per immagini. Sfogliarla è quasi come ascoltarlo
Il 21 ottobre 2020, nove giorni prima dell’uscita di Budapest Concert ,il suo ultimo disco (sempre per Ecm) — registrato però nel corso di una tournée del 2016 —, Keith Jarrett, dopo un lungo silenzio, rilascia un’intervista a Nate Chinen per il «New York Times», ripresa poi dalle maggiori testate europee. Perché la notizia non è di poco conto. Jarrett, oggi settantacinquenne e con un’ottantina di dischi alle spalle, uno dei più grandi pianisti di jazz — ma con un’immagine da rockstar e da personaggio di culto, di quelli inarrivabili — non suonerà più. Non per sua volontà, ma per colpa di due ictus che lo hanno colpito rispettivamente a fine febbraio e a maggio del 2018 e che gli impediscono (finora) l’uso della mano sinistra. L’ultimo concerto — giusto per ricostruire un poco di cronaca — lo aveva tenuto alla Carnegie Hall di New York l’anno prima, alcune settimane dopo l’insediamento di Trump alla Casa Bianca, e lì Jarrett aveva pure espresso pubblicamente le sue perplessità sul nuovo presidente.
Dopo quel concerto, la malattia ha bloccato il pianista («ora provo a suonare in sogno», ha detto molto romanticamente), il quale, poco più di due decenni fa, si era rinchiuso in casa per quattro anni, perché colpito da una rara e invalidante malattia che risponde al nome di sindrome da fatica cronica (scientificamente detta encefalomielite mialgica), caratterizzata da una continua e profonda stanchezza, disfunzioni cognitive, alterazioni del sonno, dolore e altri sintomi, peggiorati da uno sforzo di qualsiasi genere. Conoscendo questa malattia, si possono vedere in parte sotto un’ottica diversa quelli che sono stati definiti i suoi «capricci», per esempio abbandonare la sala per un colpo di tosse che rompe il silenzio o chiedere di «zittire» le campane di una chiesa vicino al suo albergo, perché non lo facevano riposare come voleva.
Roberto Masotti (1947), che Jarrett lo ha ritratto per quarant’anni e che sta per pubblicare un libro fotografico su di lui dal titolo Keith Jarrett, a portrait (seipersei edizioni) se li ricorda bene i primi incontri con il futuro grande pianista. «Lo avevo fotografato al Festival Jazz di Bologna nel 1969, dove aveva fatto il suo primo concerto in assoluto in veste di leader — racconta a “la Lettura” il fotografo ravennate di nascita ma milanese da sempre — in trio con Gus Nemeth e Bob Ventrello. Ma l’ho conosciuto di persona a Bergamo, nel 1973 per un servizio fotografico di copertina per il mensile “Musica Jazz”. Era già un pianista molto determinato. Con un suo carattere. Capivi che era uno che voleva affermarsi e quindi seguiva le regole del gioco (viene in mente il titolo del suo libro-confessione firmato con Kunihiko Yamashita e pubblicato da
Socrates nel 1994, Il mio desiderio feroce,
ndr). Capiva cioè quello che serviva e quello che invece era superficiale nella comunicazione. Una persona intransigente, che non scendeva a compromessi; o quasi. La sindrome da fatica cronica poi gli ha cambiato il carattere. Soffriva e quindi radicalizzò certo atteggiamenti nei confronti del pubblico».
Le fotografie contenute nel libro coprono un periodo che da poco dopo gli esordi arriva al 2012. Sono tutte volutamente in bianco e nero e ritraggono Jarrett soprattutto in solitudine («nulla a che vedere con la retorica della solitudine dell’artista», specifica Masotti), e poi alcune con Miles Davis (Jarrett ha inciso con lui tre dischi), altre con Jan Garbarek, che insieme a Jarrett, Palle Danielsson e Jon Christensen dava vita al quartetto europeo, diversissimo musicalmente da quello americano (con Jarrett, Dewey Redman, Charlie Haden, Paul Motian), ma altrettanto formidabile.
«Il bianco e nero — spiega ancora il fotografo — non è una scelta necessariamente estetica, ma dà comunque una lettura più chiara. Ho cercato l’essenzialità. Ho tolto molto dal materiale iniziale. Un giorno farò un video con tutte le foto che ho, ma senza aggiungere musica. La musica sarà qualcosa di già interiorizzato». La scelta editoriale di togliere più che aggiungere, per arrivare a un’idea di essenzialità, riguarda anche i testi del libro, uno di Masotti stesso, uno del musicologo (e musicista) Franco Fabbri e uno dello scrittore Geoff Dyer, l’autore del celebre Natura morta con custodia di sax.
Storie di jazz, con il quale nel 1991 ha vinto il Somerset Maugham Award.
Fabbri mette in risalto il fatto che «la carriera di Jarrett è stata segnata, ancora più che dai numerosi incontri con musicisti di grande spessore, dalla scoperta degli insegnamenti di Georges Ivanovic Gurdjieff (1872-1949), il filosofo, mistico e musicista di origine greco-armena». Il suo — e questo serve a capire la lotta di Jarrett contro il corpo, le sue improvvisazioni «danzate» davanti alla tastiera, i suoi gemiti quando la musica arriva al climax — «è un misticismo dove il corpo e la fisicità hanno un ruolo centrale».
Jarrett, nella sua carriera, si è mosso soprattutto in tre direzioni: da un lato le interpretazioni classiche di Bach ed altri autori come Shostakovich, dall’altra il suo meraviglioso trio jazzistico con Gary Peacock (scomparso nel settembre 2020) e Jack De Johnette, con i quali eseguiva soprattutto standard (da qui il nome «The Standards Trio») e infine il suo lavoro solistico, che da entrambi questi mondi traeva linfa e al quale è sottesa un’idea di musica totale. Il trio, quel trio, è, a nostro avviso, l’espressione più alta del fare musica di Jarrett. È dal 1977 che hanno periodicamente lavorato sugli standard, su quelle intramontabili canzoni di Rogers e Hart, Porter, Gershwin, Hammerstein, Van Heusen e altri, che costituiscono l’immenso serbatoio sonoro da cui ha attinto tutto il jazz. Jarrett ha continuato a suonare questo repertorio perché è la musica che ama, di cui conosce i testi, è lo sfondo del mondo nel suo immaginario musicale, sono pagine che durano nel tempo e che riesce a conservare (e salvare) soltanto continuando a suonarle. È vero, le sue riletture non sono radicali, ma è semplicemente una scelta. Jarrett lo standard lo rispetta, lo contempla dapprima a distanza e quando ci si avvicina non si sovrappone ad esso, ne scolpisce la melodicità nella purezza della scrittura originale. Ecco, Jarrett, con gli standard, ha trovato nella melodia la chiave di accesso privilegiata alla sua anima e a quella del pubblico. La sua utopia, in fondo, è proprio quella della ricerca di una melodia infinita.