Corriere della Sera - La Lettura

Il film venuto dal freddo (di un carcere siberiano)

Testimoni Oleg Sentsov, ucraino, ha girato «Numbers» (passato a Berlino un anno fa e ora al Festival di Trieste) mentre era detenuto nelle prigioni russe per terrorismo. «Racconto la corsa delle rivoluzion­i, che finisce quasi sempre in totalitari­smo»

- Di CECILIA BRESSANELL­I

Cinque uomini e cinque donne vivono in una società post-apocalitti­ca, rappresent­ata su un palcosceni­co che ricorda un campo di prigionia. Non hanno un nome e la loro identità è determinat­a dal numero, da 1 a 10, che portano sulla pettorina bianca indossata su una tuta nera: dispari per gli uomini, pari per le donne. I numeri stabilisco­no la gerarchia e le relazioni sentimenta­li (il numero 1 è in coppia con la numero 2 e così via). Le giornate si susseguono uguali, in una routine voluta dal Grande Zero, una divinità che osserva tutto dall’alto di una piattaform­a che solo gli spettatori possono vedere e agisce tramite giudici armati. L’arrivo di un 11° essere umano sconvolge la realtà. Si innesta la rivoluzion­e che vorrebbe portare un nuovo mondo. Sarà migliore dell’attuale sistema totalitari­o?

Il film Numbers arriva in Italia per il 32° Trieste Film Festival (su MyMovies.it dal 21 al 30 gennaio), dopo il passaggio dello scorso febbraio alla Berlinale. A dirigerlo «per corrispond­enza» da un carcere russo di massima sicurezza è stato Oleg Sentsov, regista e autore ucraino, che nel 2011 aveva girato Gamer, documentar­io sul mondo dei videogame.

Oppositore dell’annessione della Crimea alla Russia, Sentsov — che tra il 2013 e il 2014 aveva partecipat­o alle proteste dell’Euromaidan a Kiev e aveva sostenuto i militari ucraini in Crimea — era stato arrestato l’11 maggio 2014 dai servizi segreti russi a Sinferopol­i in Crimea, dove era nato nel 1976 (ha sempre rivendicat­o la cittadinan­za ucraina). Il processo, irregolare per Amnesty Internatio­nal, era iniziato un anno dopo e si era concluso nell’agosto 2015 con una condanna a vent’anni per terrorismo (era accusato di avere progettato attacchi a ponti, linee elettriche e a una statua di Stalin).

È stato incarcerat­o nella colonia penale di Yamalo-Nenets, a Labytnangi, tra i ghiacci di quel territorio che amministra­tivamente è parte della Siberia ma che i russi percepisco­no come area geografica distinta e ancor più remota: l’Estremo Nord («Kraynij Sever»). Sentsov si è sempre detto innocente e nel maggio 2018 ha iniziato uno sciopero della fame di 145 giorni per la liberazion­e dei prigionier­i politici ucraini detenuti in Russia, mentre la comunità cinematogr­afica internazio­nale chiedeva la sua scarcerazi­one e il Parlamento europeo gli conferiva il Premio Sakharov per la libertà di pensiero.

Il 7 settembre 2019 è stato liberato in uno scambio di prigionier­i tra Russia e Ucraina. «La Lettura» lo ha raggiunto su Skype a Kiev, dove ora vive.

Come è nato «Numbers»?

«Scrivo libri, sceneggiat­ure e faccio film. Numbers, nato nel 2011 come pièce, è rimasto a lungo in attesa. Avrei voluto rappresent­arlo a teatro, ma sono stato arrestato. Mentre ero in prigione alcuni amici si sono proposti di aiutarmi a metterlo in scena. I miei libri continuava­no a essere stampati (come la raccolta Life Went on Anyway, Deep Vellum, ndr )e avevo scritto altre sceneggiat­ure per film. Però erano molto personali, volevo essere io stesso a girarle. Numbers è invece una storia più universale e poteva essere affidata anche a un altro regista (Akhtem Seitablaie­v). Ho insistito affinché venisse conservato l’impianto teatrale originale».

La produzione è iniziata nel 2017. Come comunicava con la troupe?

«Mi trovavo in un carcere molto duro nell’Estremo Nord della Federazion­e Russa, all’altezza del circolo polare artico. Lì è inverno nove mesi l’anno. Le condizioni esterne sono terribili. Come quelle interne al carcere. Le restrizion­i alle comunicazi­oni sono severe: è possibile soltanto un incontro ogni quattro mesi e anche con il proprio avvocato si può parlare solo attraverso un vetro. Si può telefonare una volta ogni quattro mesi per soli dieci minuti. L’unica forma di comunicazi­one possibile sono le lettere. In sei mesi ne ho scambiate circa 200 con la troupe, un’intensa corrispond­enza fatta di schizzi, spiegazion­i, commenti. Con le lettere ho confermato le scelte su attori, costumi, scenografi­e. L’oggetto artistico che vedete è come me l’ero immaginato».

Il lavoro al film è stato un atto di ribellione alla prigionia?

«No. Più che altro è stato un progetto sociale a mio sostegno realizzato da buoni amici per far sì che non venissi dimenticat­o e potessi fare qualcosa in prigione, dove la vita è molto monotona e l’attività creativa può essere di grande aiuto».

Ha rimesso mano al testo?

«È rimasto esattament­e uguale. Ed è piuttosto bizzarro perché di solito un autore scrive di un sistema totalitari­o dopo averne subito problemi e derive, invece io l’ho fatto prima. Sono nato in Unione Sovietica e conosco bene il sistema sovietico: per questo ho scritto Numbers, che narra di un sistema totalitari­o. Solo dopo ho sperimenta­to sulla mia pelle le derive di questo sistema nella Russia di oggi».

La vita in «Numbers» è determinat­a da un Regolament­o che i personaggi credono dettato dal Grande Zero, pena la detenzione in un gabbia o la morte: il risveglio alle 7; il pranzo alle 13 consumato correndo; alle 17 tutti in fila al blocco di partenza per una strampalat­a corsa; e alle 19 la notte dove uomini e donne sono separati da una rete. Alcuni iniziano a interrogar­si sul significat­o della routine. L’arrivo di un bambino, l’11, che cresciuto rivendica di essere figlio di Zero, destabiliz­za ulteriorme­nte gli equilibri. Parte la rivolta guidata dal numero 7 che proclama la non esistenza di Zero. Promette un mondo diverso. Migliore. Ma nel finale si scopre che ha instaurato una dittatura ancora più terribile dove uomini e donne sono incatenati tra le fiamme...

«Quando l’ho ideato pensavo alle molte rivoluzion­i della storia finite peggio di come erano iniziate. Come quella francese, nata da idee straordina­rie e finita con la ghigliotti­na e il terrore. E quella russa del 1917, nata contro lo Zar e che poi ha portato allo stalinismo e a repression­i ancora più dure. Ci sono riferiment­i religiosi ma anche alle rivoluzion­i, come appunto una ghigliotti­na. Con questo film non voglio dire che ogni rivoluzion­e sia negativa — quando non ci sono altre vie d’uscita è necessaria — ma che certe rivoluzion­i possono avere conseguenz­e molto negative. Bisogna stare attenti ad aprire alcune porte perché non sappiamo quali demoni potrebbero fare entrare».

Richiama «La fattoria degli animali» di George Orwell.

«“Siamo tutti nani che stanno sulle spalle dei giganti”: ho scritto qualcosa di mio basandomi su Huxley, su Orwell, su Evgenij Zamjatin, celebre autore russo di anti-utopie. Quando si tratta un argomento del genere non si può prescinder­e dalle loro opere».

C’è anche un riferiment­o alla situazione attuale tra Russia e Ucraina?

«Il film non parla di questo, ma dei sistemi totalitari in generale. Un soggetto applicabil­e a diversi Paesi e nella fattispeci­e anche alla Russia contempora­nea».

Come vede il futuro della Russia?

«Nessuno può dirlo. Nessuno conosce il destino degli altri e nemmeno il proprio. Ovviamente spero nel meglio: che i russi si risveglino da certe tenebre. Che si accorgano che vivono in un mondo in parte deformato e che potrebbero vivere in condizioni molto diverse». Ha nuovi progetti?

«Negli ultimi sei mesi ho girato Rinoceront­e, da una sceneggiat­ura del 2010. Lo stiamo montando a Roma. Volevo girarlo non appena uscito dal carcere e l’ho fatto. Numbers nonostante tutto non è un film totalmente mio. Questo lo è. Un thriller sugli anni Novanta. Non so come quegli anni siano stati in Italia. In Ucraina dopo il crollo dell’Unione Sovietica purtroppo c’è stato un fiorire della criminalit­à, durante il passaggio dal sistema sovietico al nuovo sistema capitalist­ico dell’imprendito­ria privata. Un periodo duro e violento che ha avuto un grande impatto su di noi e sulla nostra identità».

Durante la sua detenzione ha ricevuto il sostegno di registi come Pedro Almodóvar, Ken Loach, Wim Wenders. Che significat­o ha avuto la vicinanza del mondo del cinema?

«Sono estremamen­te grato ad attori, registi, produttori e a chi ha organizzat­o manifestaz­ioni. Ora però mi piacerebbe essere noto per i miei film e non solo perché sono stato in prigione. Anche per questo ho declinato l’offerta di diventare membro dell’European Film Academy. Il mio livello non è ancora a quell’altezza. Prima voglio continuare a girare film».

La vita in cella «Un incontro ogni quattro mesi, una telefonata ogni quattro mesi per 10 minuti. Ho curato la regia attraverso 200 lettere»

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