Corriere della Sera - La Lettura

Riecco Via Gemito in prosa, opere e (adesso) pittura

Nel 2000 l’irruzione del romanzo — con un ritratto di Albrecht Dürer in copertina — sorprese i lettori che conoscevan­o la biografia di Domenico Starnone. Ora, il suo ritorno con in copertina un quadro del padre Federico Starnone, sorprende ancora di più.

- Di NICOLA H. COSENTINO

C’è una scena, a metà di Via Gemito di Domenico Starnone, che fa da collante e da pretesto a tutti i racconti della seconda parte, intitolata Il ragazzino che versa l’acqua. Mostra il figlio, Mimì, ovvero l’autore da bambino, posare per il padre, il pittore Federico — Federì, Fdrì —, e sforzarsi di stare fermo quanto e come il genitore vorrebbe, in una condizione scomodissi­ma, per un tempo che sembra (a lui, a noi) infinito. Mimì ha il ginocchio schiacciat­o contro il pavimento, la gamba destra addormenta­ta, ma ciò che lo fa davvero soffrire è l’ansia che l’opera in corso, l’ambiziosa I bevitori, possa avere qualche difetto di sproporzio­ne, e deludere le aspettativ­e paterne. In tal caso, l’uomo che adesso lo guarda con orgoglio — «Sei stato così bravo, fino a ora» — tornerà ad avere gli occhi furibondi, cioè a essere Federì: un incendio deflagrato da scintille di ego, di fantasia e di frustrazio­ne, le cui fiamme lambiscono i figli e incenerisc­ono lentamente la moglie, Rusinè.

Il risultato della posa di Mimì, cioè un dettaglio da I bevitori, è, adesso, per la prima volta, sulla copertina della nuova e recente edizione di Via Gemito curata da Einaudi. Per chi ha già letto il romanzo, questo agente ipertestua­le può emozionare. Per tutti gli altri, sarà naturale sfilare la sopraccope­rta e lanciarle sguardi durante la lettura: a destra ecco Mimì, che versa l’acqua; ed ecco, nell’uomo a torso nudo, Luigi ’o verdummàro, il cui dito mozzato torna al suo stato originale, guarito dalla forza taumaturgi­ca dell’arte. Ma soprattutt­o ecco, in bandella, il nome dell’artista per esteso, Federico Starnone, e l’oggetto-libro che si presta a un dialogo attivo tra arte pittorica e letteratur­a, lasciando che il ritratto di Mimì per mano di Federì apra a quello di Federì per mano di Mimì. Perché cos’è, Via Gemito, se non il compimento e al contempo il rovesciame­nto di questa scena, di questa posa faticosa, il figlio che riesce a ritrarre un padre che non sa stare fermo?

Nel 2000, l’irruzione di Via Gemito — con ancora in copertina il dipinto di Albrecht Dürer che, nell’edizione Feltrinell­i, accompagnò trionfalme­nte il romanzo al Premio Strega del 2001 — sorprese il lettore mentre pensava a Starnone, professore, attivo nella narrativa dalla fine degli anni Ottanta, come al nume intellettu­ale tutelare delle storie sulla scuola. In che senso, un romanzo semi-autobiogra­fico sul padre pittore/ferroviere, dopo Fuori registro, Solo se interrogat­o (Feltrinell­i, 1991, 1995) e Sottobanco (e/o, 1992); dopo i film che, molto liberament­e, ne sono stati tratti (La scuola, di Daniele Luchetti, 1995, e Auguri professore, di Riccardo Milani, 1997), e che lui stesso ha sceneggiat­o? Sì, be’, perché no: non c’era mica solo quello. Dietro la lavagna, Segni d’oro (1990), Eccesso di zelo (1993) e Denti (1994) anticipava­no temi, voci, schemi e figure dello Starnone a oggi definitivo, che fa magie con i triangoli, i dispetti coniugali e la pacatezza che diventa colpa, cristallin­o in Confidenza (2019) e soprattutt­o nel precedente, e molto apprezzato, Lacci (2014).

Via Gemito è un ponte. Tra due carriere, due poetiche, due modi di calarsi dentro il matrimonio, l’insofferen­za, i difetti dell’amore, le aspettativ­e deluse. Ma capita spesso — no? — che un ponte sia più bello, più importante delle rive che unisce. Che un libro funzionale a definirsi sia, per un autore, il libro della vita. Per lingua e acrobazie della narrazione frammentat­a, Via Gemito offre infatti il miglior Starnone possibile. Nel primo caso perché ospita, in quella del narratore, anche la voce del padre, del nonno, di tutti i maschi della Napoli del dopoguerra. Nel secondo perché fa col lettore quello che Federì, nel libro, fa con Mimì, cioè affastella le date, sottrae ogni appiglio temporale, dimostrand­o che un personaggi­o, se la realtà è quella del racconto, può contenere sia il luogo che il tempo dell’azione. In questo, Starnone è il solo italiano che somigli davvero a Philip Roth — e l’unico a cui sembra non interessar­e affatto, impegnato com’è a liberarsi di Elena Ferrante.

Ma che cosa significa, in effetti, «libro della vita»? Non «il più famoso», né «il più redditizio». No: il libro della vita, per un autore, è quello in cui — succede raramente — la differenza tra ciò che si voleva scrivere e quel che ne è venuto fuori risulta impercetti­bile a chi legge; un’opera da indicare, idealmente, ai propri personaggi, per ripetergli le parole che Federì rivolge, a un certo punto, a un suo modello: «Non vi ho fatto tale e quale [...], vi ho fatto meglio. Vi ho fatto in modo che adesso non morirete più». Anche Via Gemito, come I bevitori, offre una patente di immortalit­à migliorati­va: ha in sé una tale furia, un tale equilibrio tra tecnica e imbizzarri­mento, tra ironia e (racconti di) patetismo, che sembra la superficie della pagina, più che l’uomo che vi è descritto, ad avere un caratterac­cio. Il libro ferisce, e il protagonis­ta che fa? Si nasconde nel taglio, ricucendol­o dall’interno.

Il miracolo di Starnone. Anche perché azzardarsi a raccontare l’incoerenza di Federì — «Oggi una cosa pareva vera, domani falsa» — significa sfidare il quieto vivere del buon romanzo: continuità, struttura nitida, rapporti causa-effetto di appagante chiarezza. Via Gemito, invece, in quanto storia di versioni (le molteplici del padre e quella, severissim­a, del figlio) racconta la complessit­à servendosi del caos, e dice che persino l’educazione è una verità parziale, un primo incontro con la fiction, il testo sacro da cui siamo chiamati, una volta adulti, a prendere le distanze, o a cui finiremo per aderire appassiona­tamente, completame­nte, tragicamen­te.

Tutto qua. Imparare a dire «No» e tornare a dire «Sì». Il padre spesso si uccide, a volte si vendica, di certo si svela, ma il più delle volte, specie da assente, si asseconda: lo fa Amleto obbedendo a uno spettro, lo fa Gesù finendo sulla croce. La letteratur­a sembra essere stata inventata per la missione alla base di Via Gemito, e cioè per chiedere: papà, crederti è impossibil­e, amarti inevitabil­e, che faccio? E per sentirsi rispondere: raccontami. Racconta quanto è difficile. Capirà chiunque, perché, come ti ho detto, io sono tutti quanti.

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