Corriere della Sera - La Lettura
Riecco Via Gemito in prosa, opere e (adesso) pittura
Nel 2000 l’irruzione del romanzo — con un ritratto di Albrecht Dürer in copertina — sorprese i lettori che conoscevano la biografia di Domenico Starnone. Ora, il suo ritorno con in copertina un quadro del padre Federico Starnone, sorprende ancora di più.
C’è una scena, a metà di Via Gemito di Domenico Starnone, che fa da collante e da pretesto a tutti i racconti della seconda parte, intitolata Il ragazzino che versa l’acqua. Mostra il figlio, Mimì, ovvero l’autore da bambino, posare per il padre, il pittore Federico — Federì, Fdrì —, e sforzarsi di stare fermo quanto e come il genitore vorrebbe, in una condizione scomodissima, per un tempo che sembra (a lui, a noi) infinito. Mimì ha il ginocchio schiacciato contro il pavimento, la gamba destra addormentata, ma ciò che lo fa davvero soffrire è l’ansia che l’opera in corso, l’ambiziosa I bevitori, possa avere qualche difetto di sproporzione, e deludere le aspettative paterne. In tal caso, l’uomo che adesso lo guarda con orgoglio — «Sei stato così bravo, fino a ora» — tornerà ad avere gli occhi furibondi, cioè a essere Federì: un incendio deflagrato da scintille di ego, di fantasia e di frustrazione, le cui fiamme lambiscono i figli e inceneriscono lentamente la moglie, Rusinè.
Il risultato della posa di Mimì, cioè un dettaglio da I bevitori, è, adesso, per la prima volta, sulla copertina della nuova e recente edizione di Via Gemito curata da Einaudi. Per chi ha già letto il romanzo, questo agente ipertestuale può emozionare. Per tutti gli altri, sarà naturale sfilare la sopraccoperta e lanciarle sguardi durante la lettura: a destra ecco Mimì, che versa l’acqua; ed ecco, nell’uomo a torso nudo, Luigi ’o verdummàro, il cui dito mozzato torna al suo stato originale, guarito dalla forza taumaturgica dell’arte. Ma soprattutto ecco, in bandella, il nome dell’artista per esteso, Federico Starnone, e l’oggetto-libro che si presta a un dialogo attivo tra arte pittorica e letteratura, lasciando che il ritratto di Mimì per mano di Federì apra a quello di Federì per mano di Mimì. Perché cos’è, Via Gemito, se non il compimento e al contempo il rovesciamento di questa scena, di questa posa faticosa, il figlio che riesce a ritrarre un padre che non sa stare fermo?
Nel 2000, l’irruzione di Via Gemito — con ancora in copertina il dipinto di Albrecht Dürer che, nell’edizione Feltrinelli, accompagnò trionfalmente il romanzo al Premio Strega del 2001 — sorprese il lettore mentre pensava a Starnone, professore, attivo nella narrativa dalla fine degli anni Ottanta, come al nume intellettuale tutelare delle storie sulla scuola. In che senso, un romanzo semi-autobiografico sul padre pittore/ferroviere, dopo Fuori registro, Solo se interrogato (Feltrinelli, 1991, 1995) e Sottobanco (e/o, 1992); dopo i film che, molto liberamente, ne sono stati tratti (La scuola, di Daniele Luchetti, 1995, e Auguri professore, di Riccardo Milani, 1997), e che lui stesso ha sceneggiato? Sì, be’, perché no: non c’era mica solo quello. Dietro la lavagna, Segni d’oro (1990), Eccesso di zelo (1993) e Denti (1994) anticipavano temi, voci, schemi e figure dello Starnone a oggi definitivo, che fa magie con i triangoli, i dispetti coniugali e la pacatezza che diventa colpa, cristallino in Confidenza (2019) e soprattutto nel precedente, e molto apprezzato, Lacci (2014).
Via Gemito è un ponte. Tra due carriere, due poetiche, due modi di calarsi dentro il matrimonio, l’insofferenza, i difetti dell’amore, le aspettative deluse. Ma capita spesso — no? — che un ponte sia più bello, più importante delle rive che unisce. Che un libro funzionale a definirsi sia, per un autore, il libro della vita. Per lingua e acrobazie della narrazione frammentata, Via Gemito offre infatti il miglior Starnone possibile. Nel primo caso perché ospita, in quella del narratore, anche la voce del padre, del nonno, di tutti i maschi della Napoli del dopoguerra. Nel secondo perché fa col lettore quello che Federì, nel libro, fa con Mimì, cioè affastella le date, sottrae ogni appiglio temporale, dimostrando che un personaggio, se la realtà è quella del racconto, può contenere sia il luogo che il tempo dell’azione. In questo, Starnone è il solo italiano che somigli davvero a Philip Roth — e l’unico a cui sembra non interessare affatto, impegnato com’è a liberarsi di Elena Ferrante.
Ma che cosa significa, in effetti, «libro della vita»? Non «il più famoso», né «il più redditizio». No: il libro della vita, per un autore, è quello in cui — succede raramente — la differenza tra ciò che si voleva scrivere e quel che ne è venuto fuori risulta impercettibile a chi legge; un’opera da indicare, idealmente, ai propri personaggi, per ripetergli le parole che Federì rivolge, a un certo punto, a un suo modello: «Non vi ho fatto tale e quale [...], vi ho fatto meglio. Vi ho fatto in modo che adesso non morirete più». Anche Via Gemito, come I bevitori, offre una patente di immortalità migliorativa: ha in sé una tale furia, un tale equilibrio tra tecnica e imbizzarrimento, tra ironia e (racconti di) patetismo, che sembra la superficie della pagina, più che l’uomo che vi è descritto, ad avere un caratteraccio. Il libro ferisce, e il protagonista che fa? Si nasconde nel taglio, ricucendolo dall’interno.
Il miracolo di Starnone. Anche perché azzardarsi a raccontare l’incoerenza di Federì — «Oggi una cosa pareva vera, domani falsa» — significa sfidare il quieto vivere del buon romanzo: continuità, struttura nitida, rapporti causa-effetto di appagante chiarezza. Via Gemito, invece, in quanto storia di versioni (le molteplici del padre e quella, severissima, del figlio) racconta la complessità servendosi del caos, e dice che persino l’educazione è una verità parziale, un primo incontro con la fiction, il testo sacro da cui siamo chiamati, una volta adulti, a prendere le distanze, o a cui finiremo per aderire appassionatamente, completamente, tragicamente.
Tutto qua. Imparare a dire «No» e tornare a dire «Sì». Il padre spesso si uccide, a volte si vendica, di certo si svela, ma il più delle volte, specie da assente, si asseconda: lo fa Amleto obbedendo a uno spettro, lo fa Gesù finendo sulla croce. La letteratura sembra essere stata inventata per la missione alla base di Via Gemito, e cioè per chiedere: papà, crederti è impossibile, amarti inevitabile, che faccio? E per sentirsi rispondere: raccontami. Racconta quanto è difficile. Capirà chiunque, perché, come ti ho detto, io sono tutti quanti.