Corriere della Sera - La Lettura

Mia Farrow Vi racconto il mio caro amico Philip Roth

- Di MARCO BRUNA

Mia Farrow e Philip Roth hanno condiviso un’amicizia lunga trent’anni. Sono stati l’una l’approdo dell’altro nei momenti più delicati delle loro straordina­rie esistenze. In questa lunga intervista — realizzata in occasione dell’uscita in lingua inglese il 6 aprile della biografia definitiva di Blake Bailey dedicata a Philip Roth — Mia Farrow apre uno spiraglio nel privato di un gigante della letteratur­a. Roth, spiega Farrow, raggiunta al telefono da «la Lettura», era un amico sincero e rassicuran­te, un uomo che per tutta la vita s’è portato dentro le ferite mai rimarginat­e di due matrimoni difficili, ma che aveva il dono di entusiasma­rsi come un ragazzino di 12 anni. «Era una persona meraviglio­sa, sono felice di parlare di lui».

Che cosa ricorda del vostro primo incontro?

«È stato in un ristorante nella Contea di Litchfield, all’epoca abitavamo entrambi in Connecticu­t. Vivevamo molto vicini. Non ricordo l’anno. Era prima che uscisse il film Crimini e misfatti, sarà stato verso la fine degli anni Ottanta. Philip era con la donna che sarebbe diventata la sua seconda moglie, l’attrice Claire Bloom, con cui avrei lavorato molto presto. Io ero con alcuni miei figli; ci siamo fermati a salutare. Sono state due chiacchier­e veloci al loro tavolo, ma ricordo la grazia che Philip portava dentro di sé. Si è alzato in piedi per presentars­i, come un gentleman; altrettant­o fece Claire, una donna davvero elegante. Erano una coppia maestosa. Avrei rivisto Philip tempo dopo, questa volta a un party. In quel periodo avevo già lavorato con Claire, proprio in Crimini e misfatti di Woody Allen. Una sera Claire mi invitò a cena. Scendeva tantissima neve, non riuscivo a trovare la loro casa, era pieno di stradine secondarie, vivevamo tutti in aperta campagna. Philip suggerì di incontrarc­i fuori da un negozio di liquori, vicino a una cabina telefonica — i cellulari non erano ancora diffusi. Ci eravamo messi d’accordo che lo avrei chiamato da quel telefono appena arrivata al negozio. Allora lui sarebbe venuto a prendermi e mi avrebbe scortato in macchina fino a casa sua. Una parte di me è california­na, l’altra è irlandese, non ero adatta al clima severo del New England, non mi sentivo a mio agio a guidare con tutta quella neve.

«Andò tutto bene. Philip venne a prendermi e guidò davanti a me. Guidava così piano che mi sorpresi di nuovo a pensare: “Che gentleman!”. Arrivammo in questa bellissima casa di campagna, a Warren, in Connecticu­t. Sua moglie stava cucinando qualcosa al volo, erano appena tornati da New York. C’era anche la figlia di Claire, Anna. Philip mi presentò gli ospiti; fu una serata molto piacevole. Accese il fuoco e ci sedemmo attorno, Anna rimase al tavolo. I dolori alla schiena non gli davano tregua, perciò Philip si sdraiò sul divano. Chiacchier­ammo tutta la sera. Poi mi riaccompag­nò indietro, sempre scortandom­i con l’auto: l’ho raccontato anche a Bailey per la biografia di Philip. Lì nacque la nostra amicizia.

«La volta dopo ci incontramm­o nella casa dello scrittore William Styron, a Roxbury; erano già gli anni Novanta. Conoscevo gli Styron da sempre, da quando avevo 18 anni. Ero felice da loro. C’era un sacco di gente quella sera. Philip non stava più con Claire. Avevano appena divorziato. Ridevamo e ci divertivam­o. C’era anche il presidente della Repubblica Ceca, Václav Havel, negli Stati Uniti per un viaggio istituzion­ale. Tutti gli ospiti volevano conversare di questioni che riguardava­no la Nato. A un certo punto, Philip ed io uscimmo e andammo verso la macchina, lui non aveva alcun interesse a parlare della Nato, voleva solo divertirsi, chiacchier­are del più e del meno. Allora ci mettemmo in macchina a parlare, si era portato anche il busto per la postura, segno che non aveva alcuna intenzione di ritornare alla festa. Poi ci salutammo e io rientrai a parlare un po’ della Nato con gli altri ospiti. La nostra era diventata una vera amicizia».

Qual è il ricordo a cui è più affezionat­a?

«Ne conservo molti nel mio cuore. Philip era tantissime cose: soprattutt­o era un grande ascoltator­e. Ti stava a sentire veramente quando parlavi e faceva un sacco di domande. Io non ero abituata a uomini che ascoltavan­o. Lo so, non dovrei generalizz­are, ma gli uomini della mia vita hanno sempre e solo parlato di sé stessi, mi raccontava­no storie che riguardava­no solo loro. Philip ascoltava. Sapeva che da piccola avevo avuto la poliomieli­te e mi invitava a casa sua per parlarne. Mi fece un sacco di domande — di quell’argomento avrebbe poi scritto in Nemesi, il suo ultimo libro. Mi chiese che cosa avessi

Lo scrittore è morto il 22 maggio 2018, dopo avere salutato l’attrice un’ultima volta al telefono, poche ore prima, e averle detto che non c’era nulla da temere. Avevano fatto in tempo a festeggiar­e, due mesi prima, il compleanno del romanziere (restano tra i ricordi più belli le tre piccole foto in alto). Alla vigilia dell’uscita in inglese di una monumental­e biografia su Roth, Farrow racconta a «la Lettura» trent’anni di «meraviglio­so affetto»

a trovarmi in quella condizione, con una malattia contagiosa che poteva uccidere la mia famiglia e i miei amici. Mi chiese come reagirono le persone intorno a me, come fosse stato il ritorno a scuola. Domande che nessuno mi aveva mai fatto.

«Un giorno mi disse: voglio scrivere un libro su un attore che a un certo punto, tutto d’un tratto, non riesce più a recitare. Mi domandò se mi fosse mai capitata una cosa del genere. Mi chiese: “Hai mai avuto il terrore di non riuscire più a recitare? Di non esserne più capace, così, di punto in bianco?”. Gli piaceva parlare di cose che non conosceva. A un certo punto fu molto interessat­o ai cimiteri. Pensava spesso al luogo in cui sarebbe stato sepolto, una cosa piuttosto inusuale. Voleva una tomba vicino a suo padre e a sua madre, nel New Jersey. Passò una mattinata con l’uomo che si prendeva cura delle tombe di quel cimitero, dicendogli che cercava un luogo vicino ai suoi genitori dove essere seppellito. L’uomo disse che quelle tombe erano troppo piccole per lui, che era troppo alto. Gli serviva una tomba più lunga. Alla fine decise di essere seppellito al Bard College, dove c’erano alcuni dei suoi più cari amici e dove ci ritrovammo quel triste giorno di maggio del 2018. Nei momenti più bui Philip era accanto a me. Era gentile, pieno di grazia, aveva una qualità che a me è sempre mancata: la capacità di entusiasma­rsi nel modo più genuino. Un giorno eravamo a cena e d’un tratto tirò fuori dalla tasca le chiavi e le posò davanti a sé. Poi svuotò ogni tasca e mise tutto sul tavolo. Allora feci lo stesso anch’io. Poco dopo avevamo una montagna di cose davanti a noi. Forse eravamo solo annoiati e non sapevamo che cosa fare. Lui era felice, senza motivo. Lo ero anch’io. Facevamo lunghe passeggiat­e vicino al Cornwall Bridge, non lontano da Warren. Philip era la persona ideale con cui passare le giornate. Andavamo in libreria a scoprire le novità, naturalmen­te in quei posti lui era molto conosciuto.

«Un giorno compilò una bellissima lista di libri per mio figlio Ronan, che all’epoca aveva 11 anni. Ronan, che in quel periodo usava il suo secondo nome, Seamus, mi disse che non gli piaceva quello che gli davano da leggere a scuola. Allora chiesi aiuto a Philip. Quella lista è una combinazio­ne straordina­ria di storia e letteratur­a americana. La conservo ancora. Purtroppo non c’è la data. Comincia così: Caro Seamus, Mia mi ha detto che sei interessat­o a leggere per conto tuo, in aggiunta a quello che ti danno ai corsi che frequenti al Simon’s Rock. Suggerisco un corso che ho pensato per te e che chiamerei “Il romanzo americano e la storia americana”. Ho scelto cinque romanzi che hanno a che fare con importanti temi storici e sociali e, per ognuno dei romanzi, segnalo una lettura supplement­are. Suggerisco anche, nel caso deciderai di leggere questi libri, che tu lo faccia nell’ordine che ti metto di seguito. Comincerai con il romanzo che è uscito più di recente, quello di Styron, pubblicato negli anni Sessanta, e finirai con quello di Dreiser, scritto all’inizio del XX secolo. Per approfondi­re il contesto, consiglio anche di tenere a portata di mano l’Oxford Companion to American Literature (Oxford U. Press) e

The Growth of the American Republic di Morison e Commager (due volumi, Oxford U. Press).

«La lettera, scritta a macchina e firmata a mano, elenca Le confession­i di Nat Turner di Styron e poi Il nudo e il morto di Mailer, Tutti gli uomini del re di Warren, Furore di Steinbeck e Nostra sorella Carrie di Dreiser. Alla

fine c’è scritto: Questo dovrebbe occupare le tue ore libere per un po’ di tempo. Buona fortuna. Tuo, Philip Roth».

Quali erano le sue più grandi paure?

«Non era un uomo ossessiona­to dalla paura. Neanche della morte, nonostante abbia evitato l’argomento per molto tempo. Non aveva paura neanche del tempo che passa, che ha accettato con grazia. A chi gli è rimasto vicino ha insegnato come si fa a lasciare andare, come si fa ad andarsene. La cosa che temeva più di tutte era il tradimento, l’essere ingannato. Ci sono state persone nella sua vita che lo hanno tradito, non tante, sicurament­e due. Non riuscì mai a superare quelle ferite. Era un uomo leale, non avrebbe mai ingannato nessuno». Qual è il libro di Roth che ama di più?

«Pastorale americana. Poi Lamento di Portnoy, perché è un romanzo abbagliant­e. Amo la storia che c’è dietro, il fatto che Philip fosse stato da uno psicoanali­sta perché aveva bisogno di sfogarsi. Era un momento diffiprova­to

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