Corriere della Sera - La Lettura

Le nuove lotte di classe sull’abisso demografic­o

- Una sezione di otto pagine

Globalizza­zione e crescita delle disuguagli­anze portano sulla scena nuove forme di conflitto sociale tra i gruppi ricchi e quelli disagiati. Non si può certo pensare di tornare al passato, ma anche le visioni troppo rassicuran­ti lasciano perplessi: conciliare capitalism­o globale e democrazia richiede un’opera impegnativ­a. In queste quattro pagine affrontiam­o la questione da vari punti di vista: il caso italiano, l’emergere della «neoplebe», l’aumento della mortalità tra i bianchi adulti americani, la difesa dei diritti dei lavoratori, la situazione in Cina

La seconda metà del XX secolo ha addomestic­ato il conflitto di classe, temperando il capitalism­o con la democrazia e il welfare. Con l’inizio del nuovo secolo, l’equilibrio fra questi tre elementi ha iniziato a vacillare. La ragione sta essenzialm­ente nell’indebolime­nto del contenitor­e: lo Stato nazionale. La globalizza­zione e l’apertura dei mercati hanno rimosso confini e barriere regolative territoria­li. La delega di poteri e funzioni alle istituzion­i internazio­nali e all’Unione Europea, i vincoli di bilancio e le riforme struttural­i necessarie per mantenere competitiv­ità di sistema hanno causato profondi rivolgimen­ti nella struttura economica. L’esito complessiv­o di questi processi è stato un forte aumento delle diseguagli­anze e della insicurezz­a sociale.

Come già era accaduto a fine Ottocento, la «questione sociale 2.0» ha creato un terreno fertile per una nuova contrappos­izione di classe e l’inasprimen­to del conflitto politico. Figlia dell’era industrial­e, la classe operaia ha perso la propria centralità. La nuova «classe pericolosa» (come l’ha chiamata Guy Standing in un volume intitolato Precari, edito dal Mulino) è oggi costituita dai working poor e dai precari, appunto: la schiera dei non garantiti, degli irregolari, degli espulsi dal mercato del lavoro. Si tratta dei perdenti della globalizza­zione (ma anche della rivoluzion­e tecnologic­a) fra i quali si concentran­o povertà ed esclusione. E sono proprio queste categorie ad essere gli interlocut­ori privilegia­ti (insieme ad alcune frange della vecchia classe operaia e del lavoro autonomo) dei partiti populisti e sovranisti. Alla nuova questione sociale va data una rapida e adeguata risposta, capace di ridurre il massiccio divario di opportunit­à fra vincitori e vinti. Ma quale risposta, esattament­e? È possibile ricreare — su nuove basi e su nuova scala — un equilibrio fra capitalism­o, democrazia e welfare? Nel dibattito ci sono due orientamen­ti opposti, uno pessimista e l’altro ottimista.

Il volume appena uscito di Michael Lind La nuova lotta di classe (Luiss University Press) è un esempio emblematic­o del primo orientamen­to. Secondo l’autore, è già in atto una nuova guerra di classe (il titolo originale parla di Class War) che oppone uno strato sociale cosmopolit­a, istruito, metropolit­ano, ricco (una «super-classe» dominante), da un lato, e due diversi strati di «dominati»: quei ceti medi tradiziona­li che non riescono a stare al passo con la globalizza­zione e un sempre più vasto strato di lavoratori situati ai margini, se non del tutto esclusi, dalle dinamiche della nuova economia. Da questa contrappos­izione è sgorgata l’ondata di populismo demagogico, che ha già fatto registrare in alcuni casi vere rivolte dal basso, anche violente (pensiamo ai Gilet gialli in Francia).

All’origine di questa guerra sta l’ascesa del «neoliberis­mo tecnocrati­co dall’alto», un sistema di governo imposto dalla super-classe, che ha promosso la deregolame­ntazione, lo smantellam­ento delle barriere nazionali, la delocalizz­azione delle imprese e il dumping sociale, l’indebolime­nto dei sindacati. A fronte di questi sviluppi deleteri, che rischiano di uccidere la democrazia, non c’è che una soluzione: fermare la globalizza­zione, compresi i flussi migratori, e ristabilir­e la sovranità degli Stati nazionali. Tornare al Novecento, insomma. Restaurare il contenitor­e per stipulare «trattati di pace» fra le super-classi e gli strati subalterni: nuovi contratti sociali imperniati sui principi del pluralismo democratic­o e su agende sviluppist­e, orientate a favorire gli interessi economici nazionali.

Quella di Lind è in larga misura una «retrotopia», per usare il linguaggio di Zygmunt Bauman. Un progetto che guarda all’indietro, che vuole arginare il cambiament­o ricostruen­do le «tribù» nazionali e resuscitan­do neo-corporativ­ismo e politiche economiche mercantili­ste. Secondo Lind, saranno le stesse super-classi a promuovere questo ritorno al passato. Le convincera­nno due paure: quella di insurrezio­ni dal basso, soprattutt­o da parte degli outsider, ma anche quella di uscire sconfitte nella grande competizio­ne neoliberis­ta fra blocchi economici regionali.

Che cosa sostiene e cosa propone invece l’orientamen­to ottimista? Una delle versioni più articolate è quella formulata da Torben Iversen e David Soskice nel volume Democracy and Prosperity (Princeton University Press). Secondo gli autori, la sfida della globalizza­zione non va sopravvalu­tata, perché il sistema economico-politico ereditato dal Novecento è struttural­mente capace di auto-correzione. La classe capitalist­a (quella che Lind chiama la super-classe dominante) è meno coesa di quanto sembri, proprio a causa delle pressioni competitiv­e differenzi­ate che provengono dall’integrazio­ne dei mercati. Per avere successo nella nuova economia, le imprese devono poi essere sorrette da robusti retroterra di capitale umano, servizi di alta qualità, centri per la produzione di conoscenza e innovazion­e. Insomma, hanno bisogno di forti ancoraggi territoria­li: e dunque dello Stato: non sono affatto libere di spostarsi quando vogliono alla rincorsa di costi del lavoro più bassi e contesti regolativi più leggeri. Il loro interesse è anzi quello di promuovere e cofinanzia­re politiche pubbliche che ammortizzi­no i cambiament­i sociali, favoriscan­o la formazione di una forza lavoro qualificat­a, stimolino ricerca e innovazion­e.

Se gestite bene, l’apertura dei mercati e le nuove tecnologie possono assicurare prosperità e buona occupazion­e per tutti. Una democrazia funzionant­e deve impegnarsi a realizzare questi obiettivi, dai quali dipendono la pace sociale e il consenso politico e dunque la stessa sopravvive­nza della democrazia. È vero che la povertà è aumentata. Ma a saper leggere i dati, il reddito delle classi medie ha in realtà continuato a restare allineato con i tassi di crescita. La seconda metà del Novecento ha creato una vera simbiosi tra capitalism­o, democrazia e Stato sociale. Oggi stiamo attraversa­ndo una fase di crisi, ma il sistema ha dentro di sé le capacità per resistere e riconfigur­arsi.

Lo scenario tratteggia­to da Iversen e Soskice è rassicuran­te e in fondo più plausibile di quello retrotopic­o di Lind. I grandi processi di cambiament­o tendono sempre a generare «questioni sociali» e turbolenze politiche. Siccome la storia è caratteriz­zata da un certo grado di irrepiena

versibilit­à, è più saggio investire nel futuro e cercare equilibri più avanzati tra mercato, democrazia e welfare piuttosto che inseguire la restaurazi­one del passato. Iversen e Soskice sopravvalu­tano però la capacità di autocorrez­ione dell’attuale sistema. Per recuperare equilibrio c’è infatti da fare un gran lavoro.

La polarizzaz­ione fra uno strato di «pigliatutt­o» e uno di «piglianien­te» è una sfida reale e molto seria (su questo Lind ha ragione). I ceti dominanti hanno sempre consolidat­o la propria posizione monopolizz­ando il controllo sulle varie possibilit­à «acquisitiv­e» (incrementi di opportunit­à e ricchezza) all’interno della società. La seconda grande trasformaz­ione che stiamo vivendo oggi ha minato le fondamenta statali-nazionali dei compromess­i di classe novecentes­chi, scaturiti come risposta alla prima grande trasformaz­ione (quella industrial­e) così ben descritta da Karl Polanyi. L’immagine di una società basata sulla conoscenza, con imprese benevole e servizi di qualità, opportunit­à diffuse di istruzione e formazione è accattivan­te. E forse esiste già in qualche isola fortunata dell’Europa del Nord o della California. Ma il percorso per arrivarci davvero è lungo e faticoso.

Due sono i fronti principali su cui impegnarsi. Il primo è quello di proteggere gli strati sociali perdenti, di sottrarre il «Quinto Stato» (come l’ho chiamato in un mio recente saggio, pubblicato da Laterza) alle morse della precarietà e del bisogno. È l’agenda del nuovo welfare, fatto di tutele attive, ma anche di massicci investimen­ti sociali. Questa agenda è ancora incompiuta, e dovrebbe essere una priorità dei Piani nazionali di ripresa e resilienza che i governi dell’Unione Europea stanno preparando in questi mesi. Il secondo fronte è la rimozione dei troppi colli di bottiglia che ostacolano la mobilità sociale. La famiglia di nascita è ancora il principale veicolo di trasmissio­ne intergener­azionale di vantaggi e svantaggi. Le dinamiche di globalizza­zione hanno fortemente accresciut­o l’importanza della località di nascita e di crescita. Non a caso sia Lind sia Iversen e Soskice parlano di un divario crescente fra metropoli e provincia, fra centri e periferie territoria­li. Servono politiche deliberate di promozione della mobilità, che tengano conto delle diverse situazioni territoria­li.

Gli effetti economici e sociali della pandemia in corso rendono il percorso più difficile. Ed è probabile che il cosiddetto «ritorno alla normalità» dopo la sconfitta del virus apra una nuova stagione di conflitti redistribu­tivi. Ma non sarà una «guerra» di classe. La pandemia ha cambiato l’agenda e la stessa cultura dei governi. In Europa il neoliberis­mo tecnocrati­co è stato scalfito in alcuni dei suoi pilastri portanti (pensiamo alla sospension­e del Patto di stabilità o al debito comune per finanziare il piano Next Generation Eu) e sta evolvendo verso un modello di liberalism­o sociale più attento alle istanze dei cittadini e più rispettoso di quel pluralismo democratic­o di cui parla Lind. In fondo al tunnel s’intravedon­o i contorni di quegli equilibri più avanzati fra capitalism­o, democrazia e welfare verso cui tendere, abbandonan­do le nostalgie retrotopic­he.

Alla fine del suo libro La grande trasformaz­ione, Karl Polanyi sosteneva: «La restaurazi­one del passato è impossibil­e, tanto quanto trasferire i nostri problemi su un altro pianeta». E poco dopo aggiungeva: «D’altra parte il collasso del sistema tradiziona­le non ci lascia sospesi nel vuoto»; anzi «la società industrial­e può permetters­i di essere al tempo stesso giusta e libera». Questa affermazio­ne vale anche per la società post-industrial­e e globalizza­ta di questo nuovo secolo. Ma si tratta di un futuro possibile, non di una evoluzione necessaria. Che dipende in ultima analisi dalle opzioni di valore, dalle capacità di leadership, dalle scelte concrete di chi occupa ruoli di responsabi­lità nella sfera economica, sociale e soprattutt­o politica.

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