Corriere della Sera - La Lettura
L’inglese Evelyn Waugh vittoriano del Novecento
Scrittore capace per primo di denunciare l’ambiguità sessuale del nome, appartiene alla nidiata di liberi, stravaganti gentiluomini — Borges, Nabokov, Queneau...
— nati a cavallo di due epoche. Ora che arriva in Italia la prima parte della sua autobiografia (mai completata), c’è l’occasione per spendersi un po’ per una figura da qualche tempo trascurata dalle nostre parti. Viviamo una stagione in cui la falange di autori ansiosi di spremersi i foruncoli in pubblico non smette di crescere. Ecco, Waugh appartiene a un’altra famiglia. Il XIX secolo inglese, così generoso di geni, non annovera molti prosatori alla sua altezza. E poi c’è la satira, nella tradizione di Aristofane, Molière, Swift...
Evelyn Waugh appartiene alla nidiata di liberi e stravaganti gentiluomini venuti al mondo a cavallo tra due secoli: Borges, Nabokov, Kawabata, Queneau, e se la sorte avversa non ci avesse messo lo zampino persino il buon Radiguet.
Sono adolescenti quando la Grande guerra irrompe nel fatato mondo dell’infanzia facendone strame, e all’apice della virilità quando la conferenza di Yalta sancisce il nuovo assetto geopolitico mondale. La Storia li incalza ma non li piega. Solipsisti, misantropi, fedeli a sé stessi fino alla cocciutaggine, in bilico tra passatismo e avanguardia, armati di talento satirico, riguardo per la tradizione, ossequio al rito, spiccato gusto decorativo, disincanto politico e un’intransigenza artistica che non ha pari tra i contemporanei, irrompono sulla scena letteraria in deplorevole ritardo ma, se ha senso dirlo, anche con sorprendente salutare anticipo.
L’antipatia di Evelyn Waugh è talmente proverbiale da renderlo irresistibilmente simpatico. Come ha scritto Guido Almansi (uno dei numerosi ammiratori italiani) Waugh era un «flagello, per i suoi figli in particolare e per tutto il resto del mondo (anche se era un uomo di lunghe e durature amicizie), e odiava il lettore, quello dei suoi libri e l’altro, che comprava e sfogliava i giornali per cui scriveva». Per non parlare della vezzosa adesione a un cattolicesimo codino, sinistro e tradizionalista, e degli anacronismi vittoriani in cui era solito indulgere.
Almansi è nel giusto anche quando decanta, fin quasi a dolersene, l’impeccabilità stilistica di Waugh. La sua prosa ha un’eleganza plastica, statutaria, a tratti persino disinfettata. Non scrive male neanche per sbaglio. Lasciate che ve ne offra un saggio. Il passo in questione illustra le abitudini alimentari di una giovane coppia di coniugi appartenenti all’aristocrazia campagnola. «Benché godessero tutti e due di ottima salute ed avessero un aspetto normale, Tony e Brenda si tenevano a dieta. Ciò conferiva un certo interesse ai loro pasti, e li salvava dai due barbari estremi ai quali sono esposti i mangiatori solitari: o un’ossessiva ghiottoneria, oppure un regime irregolare a base di uova strapazzate e di panini al roast beef. In quel momento la loro regola era di evitare nello stesso pasto la combinazione delle proteine con gli amidi. Avevano un elenco stampato, dove vedevano quali vivande contengono proteine e quale amido. Ma gran parte delle pietanze normali li contengono tutti e due, e la scelta del menu era per Tony e Brenda un divertimento. Finivano sempre col dire che questo cibo, o quest’altro, era il Jolly».
Occorre dire, ahimè, che non sempre i suoi libri sono all’altezza di questo encomiabile genio stilistico. È come se anche la produzione migliore scontasse un deficit di intimità, se non proprio di schiettezza. Per questo le opere umoristiche conservano un’ingemmata bellezza senza tempo, laddove i romanzi seri mostrano ben presto la corda. Valga per tutti il trascurabile Ritorno a Brisedhead. Celebre la stroncatura riservatagli da un fan della prima ora come Edmund Wilson. «Allorché Evelyn Waugh abbandona la chiave comica — essenziale per il suo lavoro precedente quanto poteva esserlo per un commediografo della Restaurazione — il risultato è piuttosto disastroso. In questo mondo più normale, Waugh perde la bussola: il suo difetto di senso comune cessa di essere un pregio, e gli crea situazioni im
barazzanti; e la sua immaginazione creativa, che nei romanzi satirici operava in certo qual modo su un piano di caricatura bidimensionale. E qui invece è posta al servizio di passioni e motivazioni, produce fantasticherie romantiche».
La verità è che Waugh, come tutti i grandi satirici (Aristofane, Molière, Swift), ha bisogno di precisi bersagli polemici su cui infierire. La garrula passione per imbelli e ribaldi è talmente smodata da ottundergli ogni altra facoltà percettiva. I normodotati non lo interessano, non lo incantano, non lo muovono a pietà. Personaggi come Tony Last di Una manciata di polvere o Basil Seal di Misfatto negro devono gran parte della ragguardevole presenza scenica al sadismo del loro creatore che non chiede di meglio che metterli in imbarazzo infilandoli in qualche grottesca avventura esotica.
L’occasione di spendersi per Waugh (è un bel po’ che dalle nostre parti lo si trascura) mi viene offerta dall’uscita della prima tranche della sua autobiografia. Un’opera che avrebbe dovuto articolarsi in più atti se la sopraggiunta morte dell’autore non avesse minato la realizzazione del progetto. Il titolo scelto dall’editore italiano differisce, e di molto, dall’originale ma tutto sommato non è male, e comunque mi pare colga come meglio non potrebbe il riluttante disincanto del memorialista: Autobiografia di un perdigiorno. Sulla scorta di Mario Fortunato, autore della premessa e della bella traduzione, constato stupefatto come un’opera del genere fino a oggi sia rimasta preclusa al pubblico italiano. Il Novecento inglese, sebbene così generoso di geni, non annovera molti prosatori all’altezza di Waugh. E un libro così, benché minore per natura e ambizioni, zeppo di tediose divagazioni genealogiche e di affettazioni decadenti, è quanto di meglio per farsi un’idea della vena straordinariamente proficua di uno dei massimi scrittori di lingua inglese e del suo piccolo mondo antico mai abbastanza rimpianto.
Si sa, viviamo un’epoca in cui la falange di scrittori ossessionati da sé, ansiosi di spremersi i foruncoli in pubblico, non smette di crescere. Diciamo che Waugh apparitene a un’altra famiglia artistica. La riservatezza, unita a una certa
pruderie post-vittoriana, lo inducono a guardare le proprie faccende private (a cominciare dall’inestricabile nucleo della sua interiorità) con diffidente impazienza. Diciamo pure che i panni inediti dell’autobiografo gli vanno stretti. Che l’introspezione non fa per lui. E che il suo occhiuto sguardo di artista è naturalmente estroverso, attratto com’è dalle vite degli altri e dalle meraviglie del mondo: non a caso Waugh è uno degli ultimi scrittori di viaggi che valga la pena leggere.
Come non apprezzare il buon gusto con cui non si piace? È il primo a denunciare l’ambiguità sessuale del suo nome di battesimo (personalmente avrei qualche riserva anche sul cognome che, pronunciato correttamente, sembra un’esclamazione piena di stupore).
A dispetto di ciò che lascerebbe intendere il suo caratteraccio, Waugh ha avuto un’infanzia e un’adolescenza felici, per certi versi edenici. Da bravo nostalgico, da fiero rappresentante di un ceto privilegiato e in decomposizione, Waugh tiene in gran conto le cose del passato. Disgustato dal presente, annoiato dal futuro, non chiede di meglio che volgersi con trasporto agli anni in cui il mondo gli era decisamente più congeniale. Oramai gli basta guardarsi intorno per sentirsi il più sradicato degli uomini: «Essere nati in un mondo pieno di bellezza e dover morire in mezzo alle brutture rappresenta il destino comune di tutti noi esuli».
Ciò che molti altri scrittori hanno considerato una condanna (Zola, ad esempio), per Waugh è una benedizione: sto parlando dell’ereditarietà. Anche in questo assimilabile al suo gemello russo Vladimir Nabokov, Waugh mostra un severo aristocratico disprezzo per la psicologia, e per qualunque ciarlatano che se ne serva indebitamente per spiegare fenomeni individuali che sarebbe meglio attribuire all’interazione tra genio personale, atavismi genetici e condizioni ambientali. Non deve stupire, allora, che nelle prime pagine della sua autobiografia, Waugh dia ampia pedante mostra della devozione ai Penati. Chiamandoli in causa uno a uno, lo euforizza sentirli rivivere in sé. «Sapendo da dove si viene», scrive, «è facile tracciare analogie con i nostri antenati. Tuttavia, noi siamo la combinazione di così tante e varie influenze che ogni idiosincrasia si può spiegare in questi termini.
In fisionomica non esistono più di una mezza dozzina di differenti fogge di naso o labbra, né di colore di capelli o di occhi, e neppure di forma del cranio, zigomi o mento; ogni volto, bello o mostruoso che sia, si compone di pochi elementi che possono essere riconosciuti uno per uno nei ritratti di famiglia; lo stesso vale per il talento e il carattere. La successione dei nostri progenitori si perde indietro nell’oscurità; ma ciascuno di loro può venire a galla in noi come la componente dominante». Insomma, come appare evidente, quella praticata da Waugh è una specie di religione genealogica non scevra da pacchiano romanticismo conservatore. Ciò gli rende particolarmente agevole evocare gli spettri della madre e del padre con una sollecitudine che, conoscendolo, appare indulgente fino alla tenerezza. Eccolo perorare la causa di certe figure tipiche che, nel nuovo assetto sociale da lui ferocemente avversato, non trovano più spazio. «Le zie zitelle sembra quasi che non esistano più ai giorni nostri; della mia generazione possono nominarne meno di una mezza dozzina. (...). La madre abbandonata è oggi il tipo prevalente di donna senza legami. Una generazione fa, invece, c’erano zitelle in quasi ogni famiglia inglese e, benché fossero figure generalmente ridicole, esse esercitavano nella maggioranza dei casi una grande e benevola influenza».
A proposito di anacronismi, Waugh affronta il sistema educativo inglese —
sancta sanctorum della classe agiata britannica con le sue leggi non scritte, tanto spicce quanto intimidatorie, i gelidi dormitori, i putridi refettori e i solenni corridoi battuti da mentori, dandy e scavezzacolli — con toni assai meno lirici ma tutto sommato non così inclementi. «Non rinnego i miei studi classici anche se superficiali. Credo che la loro consueta difesa sia giusta; che solo grazie a essi un ragazzo riesce davvero a comprendere che una frase è una costruzione logica e che le parole hanno un fondamentale e inalienabile significato, distaccandosi dal quale si dà luogo o a metafore consapevoli o alla volgarità più imperdonabile. Tutti quelli che non hanno ricevuto tale educazione — la maggioranza degli americani e delle donne — tradiscono le loro mancanze a meno di non avere come insegnante qualche genio raro. Il vecchio test per una frase inglese — come si traduce? — ha ancora senso dopo che abbiamo perso il gusto della traduzione».
Confido che il lettore di questo articolo non dia peso eccessivo al proverbiale snobismo anti-americano di Waugh, né giudichi troppo severamente la sua bieca misoginia. Per una volta, non è questo il punto. Capire uno scrittore, anche il più spregevole, significa impratichirsi con la musica delle sue frasi, lasciarsene invadere, trasportare, sedurre. È lì, in quelle frasi, non certo nelle retrive concezioni da esse promulgate, che bisogna cercare il suo autentico nucleo morale. La devozione di Waugh alla sintassi inglese è assai più seria e lungimirante del suo credo reazionario e cattolico. Lui è uno degli ultimi tardivi interpreti di quella aristocrazia intellettuale che, al netto di difetti esecrabili, ha dato parecchio allo spirito umano. I suoi ideali hanno poco a che fare con quelli gioiosamente propugnati dal Bloomsbury set. Credo che Waugh ritenesse i geniali adepti di quel club esclusivo fin troppo libertini e bohémienne per i suoi gusti. La sua casa, mai abitata in prima persona, e per questo sempre vagheggiata, trascesa e rimpianta, è l’età vittoriana. Più vicino a Walter Pater o a John Ruskin di quanto non lo sia a E. M. Forster o a Lytton Strachey, non serve a niente giudicarlo, né dare troppo retta alle sue idiosincrasie e ai frequenti malumori; meglio lasciarsi andare al suo spirito settario, al culto della forma e della tradizione.