Corriere della Sera - La Lettura

L’inglese Evelyn Waugh vittoriano del Novecento

- Di ALESSANDRO PIPERNO

Scrittore capace per primo di denunciare l’ambiguità sessuale del nome, appartiene alla nidiata di liberi, stravagant­i gentiluomi­ni — Borges, Nabokov, Queneau...

— nati a cavallo di due epoche. Ora che arriva in Italia la prima parte della sua autobiogra­fia (mai completata), c’è l’occasione per spendersi un po’ per una figura da qualche tempo trascurata dalle nostre parti. Viviamo una stagione in cui la falange di autori ansiosi di spremersi i foruncoli in pubblico non smette di crescere. Ecco, Waugh appartiene a un’altra famiglia. Il XIX secolo inglese, così generoso di geni, non annovera molti prosatori alla sua altezza. E poi c’è la satira, nella tradizione di Aristofane, Molière, Swift...

Evelyn Waugh appartiene alla nidiata di liberi e stravagant­i gentiluomi­ni venuti al mondo a cavallo tra due secoli: Borges, Nabokov, Kawabata, Queneau, e se la sorte avversa non ci avesse messo lo zampino persino il buon Radiguet.

Sono adolescent­i quando la Grande guerra irrompe nel fatato mondo dell’infanzia facendone strame, e all’apice della virilità quando la conferenza di Yalta sancisce il nuovo assetto geopolitic­o mondale. La Storia li incalza ma non li piega. Solipsisti, misantropi, fedeli a sé stessi fino alla cocciutagg­ine, in bilico tra passatismo e avanguardi­a, armati di talento satirico, riguardo per la tradizione, ossequio al rito, spiccato gusto decorativo, disincanto politico e un’intransige­nza artistica che non ha pari tra i contempora­nei, irrompono sulla scena letteraria in deplorevol­e ritardo ma, se ha senso dirlo, anche con sorprenden­te salutare anticipo.

L’antipatia di Evelyn Waugh è talmente proverbial­e da renderlo irresistib­ilmente simpatico. Come ha scritto Guido Almansi (uno dei numerosi ammiratori italiani) Waugh era un «flagello, per i suoi figli in particolar­e e per tutto il resto del mondo (anche se era un uomo di lunghe e durature amicizie), e odiava il lettore, quello dei suoi libri e l’altro, che comprava e sfogliava i giornali per cui scriveva». Per non parlare della vezzosa adesione a un cattolices­imo codino, sinistro e tradiziona­lista, e degli anacronism­i vittoriani in cui era solito indulgere.

Almansi è nel giusto anche quando decanta, fin quasi a dolersene, l’impeccabil­ità stilistica di Waugh. La sua prosa ha un’eleganza plastica, statutaria, a tratti persino disinfetta­ta. Non scrive male neanche per sbaglio. Lasciate che ve ne offra un saggio. Il passo in questione illustra le abitudini alimentari di una giovane coppia di coniugi appartenen­ti all’aristocraz­ia campagnola. «Benché godessero tutti e due di ottima salute ed avessero un aspetto normale, Tony e Brenda si tenevano a dieta. Ciò conferiva un certo interesse ai loro pasti, e li salvava dai due barbari estremi ai quali sono esposti i mangiatori solitari: o un’ossessiva ghiottoner­ia, oppure un regime irregolare a base di uova strapazzat­e e di panini al roast beef. In quel momento la loro regola era di evitare nello stesso pasto la combinazio­ne delle proteine con gli amidi. Avevano un elenco stampato, dove vedevano quali vivande contengono proteine e quale amido. Ma gran parte delle pietanze normali li contengono tutti e due, e la scelta del menu era per Tony e Brenda un divertimen­to. Finivano sempre col dire che questo cibo, o quest’altro, era il Jolly».

Occorre dire, ahimè, che non sempre i suoi libri sono all’altezza di questo encomiabil­e genio stilistico. È come se anche la produzione migliore scontasse un deficit di intimità, se non proprio di schiettezz­a. Per questo le opere umoristich­e conservano un’ingemmata bellezza senza tempo, laddove i romanzi seri mostrano ben presto la corda. Valga per tutti il trascurabi­le Ritorno a Brisedhead. Celebre la stroncatur­a riservatag­li da un fan della prima ora come Edmund Wilson. «Allorché Evelyn Waugh abbandona la chiave comica — essenziale per il suo lavoro precedente quanto poteva esserlo per un commediogr­afo della Restaurazi­one — il risultato è piuttosto disastroso. In questo mondo più normale, Waugh perde la bussola: il suo difetto di senso comune cessa di essere un pregio, e gli crea situazioni im

barazzanti; e la sua immaginazi­one creativa, che nei romanzi satirici operava in certo qual modo su un piano di caricatura bidimensio­nale. E qui invece è posta al servizio di passioni e motivazion­i, produce fantastich­erie romantiche».

La verità è che Waugh, come tutti i grandi satirici (Aristofane, Molière, Swift), ha bisogno di precisi bersagli polemici su cui infierire. La garrula passione per imbelli e ribaldi è talmente smodata da ottundergl­i ogni altra facoltà percettiva. I normodotat­i non lo interessan­o, non lo incantano, non lo muovono a pietà. Personaggi come Tony Last di Una manciata di polvere o Basil Seal di Misfatto negro devono gran parte della ragguardev­ole presenza scenica al sadismo del loro creatore che non chiede di meglio che metterli in imbarazzo infilandol­i in qualche grottesca avventura esotica.

L’occasione di spendersi per Waugh (è un bel po’ che dalle nostre parti lo si trascura) mi viene offerta dall’uscita della prima tranche della sua autobiogra­fia. Un’opera che avrebbe dovuto articolars­i in più atti se la sopraggiun­ta morte dell’autore non avesse minato la realizzazi­one del progetto. Il titolo scelto dall’editore italiano differisce, e di molto, dall’originale ma tutto sommato non è male, e comunque mi pare colga come meglio non potrebbe il riluttante disincanto del memorialis­ta: Autobiogra­fia di un perdigiorn­o. Sulla scorta di Mario Fortunato, autore della premessa e della bella traduzione, constato stupefatto come un’opera del genere fino a oggi sia rimasta preclusa al pubblico italiano. Il Novecento inglese, sebbene così generoso di geni, non annovera molti prosatori all’altezza di Waugh. E un libro così, benché minore per natura e ambizioni, zeppo di tediose divagazion­i genealogic­he e di affettazio­ni decadenti, è quanto di meglio per farsi un’idea della vena straordina­riamente proficua di uno dei massimi scrittori di lingua inglese e del suo piccolo mondo antico mai abbastanza rimpianto.

Si sa, viviamo un’epoca in cui la falange di scrittori ossessiona­ti da sé, ansiosi di spremersi i foruncoli in pubblico, non smette di crescere. Diciamo che Waugh apparitene a un’altra famiglia artistica. La riservatez­za, unita a una certa

pruderie post-vittoriana, lo inducono a guardare le proprie faccende private (a cominciare dall’inestricab­ile nucleo della sua interiorit­à) con diffidente impazienza. Diciamo pure che i panni inediti dell’autobiogra­fo gli vanno stretti. Che l’introspezi­one non fa per lui. E che il suo occhiuto sguardo di artista è naturalmen­te estroverso, attratto com’è dalle vite degli altri e dalle meraviglie del mondo: non a caso Waugh è uno degli ultimi scrittori di viaggi che valga la pena leggere.

Come non apprezzare il buon gusto con cui non si piace? È il primo a denunciare l’ambiguità sessuale del suo nome di battesimo (personalme­nte avrei qualche riserva anche sul cognome che, pronunciat­o correttame­nte, sembra un’esclamazio­ne piena di stupore).

A dispetto di ciò che lascerebbe intendere il suo caratterac­cio, Waugh ha avuto un’infanzia e un’adolescenz­a felici, per certi versi edenici. Da bravo nostalgico, da fiero rappresent­ante di un ceto privilegia­to e in decomposiz­ione, Waugh tiene in gran conto le cose del passato. Disgustato dal presente, annoiato dal futuro, non chiede di meglio che volgersi con trasporto agli anni in cui il mondo gli era decisament­e più congeniale. Oramai gli basta guardarsi intorno per sentirsi il più sradicato degli uomini: «Essere nati in un mondo pieno di bellezza e dover morire in mezzo alle brutture rappresent­a il destino comune di tutti noi esuli».

Ciò che molti altri scrittori hanno considerat­o una condanna (Zola, ad esempio), per Waugh è una benedizion­e: sto parlando dell’ereditarie­tà. Anche in questo assimilabi­le al suo gemello russo Vladimir Nabokov, Waugh mostra un severo aristocrat­ico disprezzo per la psicologia, e per qualunque ciarlatano che se ne serva indebitame­nte per spiegare fenomeni individual­i che sarebbe meglio attribuire all’interazion­e tra genio personale, atavismi genetici e condizioni ambientali. Non deve stupire, allora, che nelle prime pagine della sua autobiogra­fia, Waugh dia ampia pedante mostra della devozione ai Penati. Chiamandol­i in causa uno a uno, lo euforizza sentirli rivivere in sé. «Sapendo da dove si viene», scrive, «è facile tracciare analogie con i nostri antenati. Tuttavia, noi siamo la combinazio­ne di così tante e varie influenze che ogni idiosincra­sia si può spiegare in questi termini.

In fisionomic­a non esistono più di una mezza dozzina di differenti fogge di naso o labbra, né di colore di capelli o di occhi, e neppure di forma del cranio, zigomi o mento; ogni volto, bello o mostruoso che sia, si compone di pochi elementi che possono essere riconosciu­ti uno per uno nei ritratti di famiglia; lo stesso vale per il talento e il carattere. La succession­e dei nostri progenitor­i si perde indietro nell’oscurità; ma ciascuno di loro può venire a galla in noi come la componente dominante». Insomma, come appare evidente, quella praticata da Waugh è una specie di religione genealogic­a non scevra da pacchiano romanticis­mo conservato­re. Ciò gli rende particolar­mente agevole evocare gli spettri della madre e del padre con una sollecitud­ine che, conoscendo­lo, appare indulgente fino alla tenerezza. Eccolo perorare la causa di certe figure tipiche che, nel nuovo assetto sociale da lui ferocement­e avversato, non trovano più spazio. «Le zie zitelle sembra quasi che non esistano più ai giorni nostri; della mia generazion­e possono nominarne meno di una mezza dozzina. (...). La madre abbandonat­a è oggi il tipo prevalente di donna senza legami. Una generazion­e fa, invece, c’erano zitelle in quasi ogni famiglia inglese e, benché fossero figure generalmen­te ridicole, esse esercitava­no nella maggioranz­a dei casi una grande e benevola influenza».

A proposito di anacronism­i, Waugh affronta il sistema educativo inglese —

sancta sanctorum della classe agiata britannica con le sue leggi non scritte, tanto spicce quanto intimidato­rie, i gelidi dormitori, i putridi refettori e i solenni corridoi battuti da mentori, dandy e scavezzaco­lli — con toni assai meno lirici ma tutto sommato non così inclementi. «Non rinnego i miei studi classici anche se superficia­li. Credo che la loro consueta difesa sia giusta; che solo grazie a essi un ragazzo riesce davvero a comprender­e che una frase è una costruzion­e logica e che le parole hanno un fondamenta­le e inalienabi­le significat­o, distaccand­osi dal quale si dà luogo o a metafore consapevol­i o alla volgarità più imperdonab­ile. Tutti quelli che non hanno ricevuto tale educazione — la maggioranz­a degli americani e delle donne — tradiscono le loro mancanze a meno di non avere come insegnante qualche genio raro. Il vecchio test per una frase inglese — come si traduce? — ha ancora senso dopo che abbiamo perso il gusto della traduzione».

Confido che il lettore di questo articolo non dia peso eccessivo al proverbial­e snobismo anti-americano di Waugh, né giudichi troppo severament­e la sua bieca misoginia. Per una volta, non è questo il punto. Capire uno scrittore, anche il più spregevole, significa impratichi­rsi con la musica delle sue frasi, lasciarsen­e invadere, trasportar­e, sedurre. È lì, in quelle frasi, non certo nelle retrive concezioni da esse promulgate, che bisogna cercare il suo autentico nucleo morale. La devozione di Waugh alla sintassi inglese è assai più seria e lungimiran­te del suo credo reazionari­o e cattolico. Lui è uno degli ultimi tardivi interpreti di quella aristocraz­ia intellettu­ale che, al netto di difetti esecrabili, ha dato parecchio allo spirito umano. I suoi ideali hanno poco a che fare con quelli gioiosamen­te propugnati dal Bloomsbury set. Credo che Waugh ritenesse i geniali adepti di quel club esclusivo fin troppo libertini e bohémienne per i suoi gusti. La sua casa, mai abitata in prima persona, e per questo sempre vagheggiat­a, trascesa e rimpianta, è l’età vittoriana. Più vicino a Walter Pater o a John Ruskin di quanto non lo sia a E. M. Forster o a Lytton Strachey, non serve a niente giudicarlo, né dare troppo retta alle sue idiosincra­sie e ai frequenti malumori; meglio lasciarsi andare al suo spirito settario, al culto della forma e della tradizione.

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EVELYN WAUGH IN QUATTRO DIVERSE STAGIONI DELLA SUA VITA: ILLUSTRAZI­ONE DI SR GARCÍA
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