Corriere della Sera - La Lettura
La traduttrice e la moglie «Il nostro Sepúlveda»
Ilide Carmignani, «voce» del narratore, ha scritto una favola come una biografia di Lucho a un anno dalla morte. Con due testi della vedova, Carmen Yáñez. I ricordi, l’affetto, l’amore
Quella di Luis Sepúlveda è una vita da romanzo. Di più: è una vita che meritava di essere raccontata come se fosse una delle fiabe moderne per le quali lo scrittore era famoso e amato: Storia di Luis Sepúlveda e del suo gatto Zorba che esce l’8 aprile da Salani richiama fin dal titolo il suo celebre Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare (1996). A scriverla è Ilide Carmignani, traduttrice, per quasi trent’anni «voce» italiana di Luis «Lucho» Sepúlveda, che per raccontare il romanziere diventa — per la prima volta — lei stessa narratrice; il volume contiene, inoltre, contributi inediti di Carmen Yáñez, poetessa, l’amore di una vita che Sepúlveda sposò due volte, nel 1971 e di nuovo nel 2004.
Carmignani e Yáñez hanno dialogato con «la Lettura» dello scrittore e delle sue mille vite: militante comunista (e pure segretario della sezione «Antonio Gramsci» di Santiago); membro della guardia personale di Salvador Allende; incarcerato e poi esiliato dopo il golpe di Pinochet; paladino di battaglie per la libertà degli uomini, per la salvaguardia di animali o del pianeta; in prima linea sulle navi di Greenpeace per difendere le balene, al fianco del popolo shuar in Amazzonia, contro le multinazionali del petrolio nel Sud del mondo... Ecco Sepúlveda, nato a Ovalle, in Cile, il 4 ottobre 1949 e scomparso un anno fa, il 16 aprile 2020, a Oviedo, in Spagna, vittima del Covid-19: in Italia la Storia di una gabbianella èun bestseller da più di 2 milioni di copie; i suoi libri (editi da Guanda) hanno venduto oltre 7 milioni di copie.
Perché ha scelto la forma della fiaba per raccontare Sepúlveda?
ILIDE CARMIGNANI — È venuta da sé. Come traduttrice ho attraversato tutta la produzione di Lucho e la favola, nella forma che adottava lui, mi sembrava la più adatta per raccontare ai ragazzi una vita così straordinaria. Una favola alla Sepúlveda: mi è sempre molto spiaciuto che lui non avesse scritto una sua biografia, perché ha avuto una vita incredibile, chiunque di noi si sentirebbe un grande personaggio ad aver vissuto soltanto una delle sue storie... Metterlo dentro una favola e farlo dialogare con un suo personaggio mi è sembrato il modo migliore perché Lucho si raccontasse. L’altro personaggio del romanzo, il gatto Diderot, è una sua creatura, arriva dalla Storia di una gabbianella. Amburgo è la cornice del racconto, è stata la sua città per tanti anni. Una favola sì, ma anche una vita molto dura, quella di Sepúlveda, come sa bene chi l’ha condivisa.
CARMEN YÁÑEZ — Luis usava la favola come la modalità per dire certe cose, con un altro genere letterario sarebbe stato diverso, non avrebbe ottenuto lo stesso risultato. Credo che lui si sentisse a suo agio a usare gli animali come personaggi principali: li sentiva vicini, li capiva e attraverso di loro riusciva a parlare dei valori in cui credeva. Discorsi per bambini, ma anche per adulti. Nel libro lo scrittore si racconta in prima persona. È stato difficile trovare la «voce» di Sepúlveda?
ILIDE CARMIGNANI — La prima persona per Sepúlveda mi è sembrata subito la più spontanea, sarebbe stato strano scrivere in terza. Ogni volta che raccontava di sé e si firmava, le parole in italiano le mettevo io, ero una specie di suo doppio. E poi mi pareva il modo più giusto per essere fedele a quello che voleva raccontare. Ho usato nella narrazione alcuni concetti della traduzione, ma ci tenevo che questa voce fosse vera, che fosse proprio il suo modo di raccontare. È stato quasi un modo per restituirgli l’opportunità di scrivere la biografia mai scritta. Mi sono fatta da parte, ma dietro c’è un lavoro di ricerca e quasi trent’anni di collaborazione. L’altra voce del libro, il gatto bibliotecario Diderot, ha qualcosa di mio: è qualcuno che passa tutto il tempo tra i libri, che ascolta e che domanda. Lo sento vicino. Perché Sepúlveda non ha mai voluto scrivere una sua biografia? CARMEN YÁÑEZ — Riteneva che fosse un gesto di autocompiacimento, pensava che il miglior modo di raccontare le sue esperienze di vita fosse attraverso i personaggi che lui creava, affidare a loro le sue storie. Non si vedeva come protagonista di ciò che scriveva. Come nascevano le sue storie? CARMEN YÁÑEZ — A lui piaceva molto camminare, passeggiava soprattutto in giardino. A Gijón abbiamo un giardino molto grande con alberi da frutto e piante di ogni genere. Amava prendersene cura, fare giardinaggio. Si occupava della potatura. Quando potava le piante o tagliava l’erba diceva: mi sto riposando. Le storie nascevano lì. Mentre quando si metteva di fronte al computer o si accingeva a scrivere sulla sua Moleskine, sul suo taccuino, ecco, era il momento che considerava più vicino a un lavoro. Credo che per lui la concentrazione fosse più facile da ottenere immerso nella natura. Anche in Italia aveva un posto speciale... ILIDE CARMIGNANI — Abito sulle colline tra Lucca e il mare, in un angolo un po’ fuori dal mondo; quando veniva a trovarmi amava sedersi nel giardino davanti a casa, dove c’era un nespolo, e si metteva all’ombra a chiacchierare o a riposare. Aveva una capacità stupefacente di addormentarsi anche per cinque minuti. Un al
tro albero che amava era un cachi dietro casa: lì ricordo chiacchierate fino a notte fonda con l’amico scrittore uruguaiano Mario Delgado Aparaín. A un certo punto li lasciavo soli, con un po’ di vino, Lucho amava il vino del contadino e in generale le cose semplici. Che cosa manca di più di Sepúlveda oggi? Le parole, la figura, gli atteggiamenti...
CARMEN YÁÑEZ — Sento enormemente la sua mancanza. Era una persona con una presenza forte, intensa e significativa. Provo una nostalgia fortissima che a distanza di un anno dalla sua scomparsa è, se possibile, ancora più forte. (Si interrompe).
ILIDE CARMIGNANI — Il mio era un rapporto diverso ovviamente. Non era quotidiano. Mi scriveva mail affettuose, con un gran senso dell’umorismo, nonostante avesse un’aria seria era una persona con un senso dell’umorismo incredibile, trovava sempre il modo di farti sorridere. Mi manca la sua generosità. Mi inviava un racconto, un articolo, un libro e diceva solo: «Spero ti piaccia». Era un autore tradotto in decine di lingue, io una delle tante che si è occupata di far da ponte con le sue parole, pensare che mi scrivesse una cosa del genere è emozionante. Lucho è uno che guardava chi aveva davanti come persona, non per il suo ruolo; al ristorante quando il cameriere gli portava qualcosa lui cominciava a chiacchierare. Si metteva nella condizione di capire le persone che aveva intorno. E faceva lo stesso anche se aveva davanti figure importanti, di potere: lui le leggeva umanamente. Sapeva pesare molto bene chi gli stava attorno. E poi creava legami molto forti: la gente sentiva che era una persona vera, autentica, generosa. Per lavoro passavo mesi con i suoi libri, a tradurli parola per parola, diceva che lavoravo come una formichina, mi chiamava «fata madrina», perché una parola spagnola gliela trasformavo in italiano. Una volta in un testo c’era una palabra malsonante, un’esclamazione volgare, sono spesso difficili da tradurre, ho usato: «Porca miseria». Tempo dopo ho visto che un suo personaggio italiano diceva nel libro spagnolo «porca miseria»: una soddisfazione. Era questa la mia forma di intimità con Lucho.
CARMEN YÁÑEZ — Per rispondere alla sua domanda ci sono alcune cose di Lucho che mi aiutano a sentirmi un po’ meno male per la sua assenza. Una è ripensare al suo umorismo, che era molto speciale, lo potrei definire un umorismo intimo, e molto cileno. Abbiamo lasciato il Cile molti anni fa. Lucho mi faceva ridere fragorosamente usando parole che non posso ripetere. Un po’ l’equivalente cileno del «porca miseria» di cui si diceva prima. Era un umorismo solo nostro. Ripensarci oggi mi aiuta a sopportare il lutto.
Nel Yáñez libro e le dall’amico immagini, fotografo messe a disposizione Daniel Mordzinski, da Carmen sono un viaggio nella sua vita. La scelte di colorare alcuni dettagli di un azzurro intenso, blu, è legato a Juan Calfucurá, antenato «mapuche» di Luis Sepúlveda, il cui cognome significa «pietra azzurra»?
ILIDE CARMIGNANI — Era il colore più adatto a rappresentare Sepúlveda. Ricorda il mare: Lucho diceva che non poteva vivere lontano dal mare. Ricorda i colori del Sud del mondo. Poi sì, c’è il richiamo a Calfucurá, la «pietra azzurra» che poteva essere un meteorite. Come sempre nella vita di Lucho si incrociano tante storie.
«No, non c’è/ Non viene...»: sono i primi versi della «Poesia ingenua», toccante componimento per Lucho scritto da Carmen Yáñez, in apertura al libro...
CARMEN YÁÑEZ — Mi sembrava un titolo adatto perché è davvero così, molto ingenua. Perché me lo immagino che spicca il volo e che ritorna. È ingenuo pensarlo. Però è una mia necessità, un desiderio personale che da un momento all’altro possa davvero tornare. Il soprannome di Carmen era «Pelusa», batuffolo. Ne aveva uno anche Luis Sepúlveda?
CARMEN YÁÑEZ — Gli amici e un po’ tutti lo chiamavano Lucho. Tra i nomi usati all’inizio della sua carriera letteraria come poeta aveva utilizzato Marcel. Poi avevamo usato soprannomi durante il periodo della dittatura di Pinochet, per ovvi motivi di sicurezza. C’è stato un momento in cui lui si firmava Lusec, acronimo dei suoi nomi e dei suoi cognomi. A quattro mani, insieme con Lucho, non avete mai scritto niente?
CARMEN YÁÑEZ — Non lo abbiamo mai fatto. Però ho pensato di scrivere qualcosa di noi, delle nostre vite.
E lo sta già scrivendo?
CARMEN YÁÑEZ — L’ho già scritto ma ancora non so se vedrà mai la stampa. È un testo in poesia?
CARMEN YÁÑEZ — No, in prosa.
Con Lucho avete mai parlato della morte? Era una cosa che temeva? O che accettava?
CARMEN YÁÑEZ — Ne aveva un grande timore. Era un argomento che cercavamo di evitare. Lo temeva molto e ha sempre pensato alla morte come qualcosa di distante. Non amava neppure andare dal medico e detestava avvicinarsi agli ospedali. Prendeva le distanze da tutto ciò che in qualche modo gli ricordava la malattia. Non ha mai accettato con serenità l’idea della morte. Secondo me, vorrei aggiungere, aveva un presentimento di quello che gli sarebbe accaduto. Me ne sono resa conto guardando indietro con un po’ di distanza gli accadimenti di questi ultimi anni: nel 2019 ha compiuto 70 anni e ha voluto festeggiare il compleanno nel migliore dei
Storia di un favoloso scrittore cileno, della sua «voce» italiana e della donna che scambiò per due bottiglie di pessimo vino, conquistò con una rosa bianca e sposò due volte. Più i gatti e la gabbianella, naturalmente
modi, riunendo parenti, nipoti, amici... Capisco soltanto adesso che si trattava di una sorta di congedo: in quell’occasione credo abbia voluto salutare il mondo, tutti quelli che gli hanno voluto bene.
ILIDE CARMIGNANI — Mi viene in mente che Lucho raccontava che suo nonno Gerardo, al quale era legatissimo, era contento di aver vissuto abbastanza per poter leggere tutto il Don Chisciotte ai nipoti; lui aveva fatto lo stesso leggendo libri importanti ai suoi nipoti. In questo senso anche il suo percorso era compiuto. Suo nonno era il patriarca e lo stesso è diventato lui: il tronco dell’albero sotto i cui rami stanno tutti. Ricordo un suo scritto dove diceva che in fondo la fine è come stare in un bar di una piccola stazione del Sud del Mondo: ti metti lì a un tavolo con un bicchiere di vino e chiacchieri tranquillo aspettando che passi il treno e il treno è la morte. Ritrovo la sua serenità.
In un passo del romanzo, parlando del vulcano Corcovado, Carmignani fa dire a Sepúlveda: «Quando arriverà il mio momento, mi piacerebbe riposare per sempre ai suoi piedi». Dove riposa oggi? CARMEN YÁÑEZ — (silenzio) In casa. La situazione imposta dalla pandemia non ha neanche permesso di organizzare una funzione di congedo e saluto. In qualche modo potremmo dire che ci troviamo davanti a una storia sepulvediana, perché a distanza di quasi un anno dalla sua morte lui è ancora con me in casa, in tutti i sensi. Faremo una riunione con la famiglia una volta che saranno tutti vaccinati e che ci saranno le condizioni per rendergli il giusto omaggio. L’idea è di salutarlo con una cerimonia intima e familiare dopo di che lo accompagnerò in Patagonia dove potrà riposare. Quello sarà l’ultimo vostro appuntamento: il primo, invece, quando fu? CARMEN YÁÑEZ — Ci siamo conosciuti quando io avevo 15 anni e lui 17. Era venuto a prendermi all’uscita da scuola e nel tragitto ha rubato un fiore da un giardino e me lo ha regalato. Che fiore era, lo ricorda? CARMEN YÁÑEZ — Una rosa bianca. ILIDE CARMIGNANI — Carmen, ora però devi raccontare anche la storia del vino...
CARMEN YÁÑEZ — (ride) Ho conosciuto Lucho grazie a mio fratello. Loro condividevano una stanza, mio fratello gli disse che aveva due sorelle e allora Lucho gli ha chiesto di presentargliene una. L’altro ha detto ok, ma in cambio disse che voleva due bottiglie di vino. E fu così che Lucho si recò alla bottiglieria più vicina e acquistò due bottiglie del vino più economico che riuscì a trovare, poi mio fratello ha combinato l’incontro. È questo il valore che mi è stato attribuito!
Carmignani, quando ha incontrato per la prima volta Sepúlveda?
ILIDE CARMIGNANI — Avevo tradotto Il vecchio che
leggeva romanzi d’amore (1993) e la casa editrice Guanda mi invitò a conoscerlo. Lucho riscuoteva un enorme successo in Italia, in Francia e in altri Paesi: ho pensato che lui volesse capire se fossi la persona giusta per tradurlo. Sono partita da Lucca e sono arrivata a Milano abbastanza tesa e sfinita. In albergo si è aperto l’ascensore ed è uscito Lucho: l’avevo visto in una foto sgranata su «Linea d’ombra», l’ho riconosciuto. Lui ha visto che lo fissavo e mi ha guardata come a chiedersi perché. Non potevo fare finta di niente: mi sono avvicinata per presentarmi e lui mi ha abbracciata. Ho scoperto dopo che era famoso per gli abbracci da orso, sono rimasta sorpresa, mi ha quasi alzata da terra e poi mi ha detto: «Grazie per aver portato le mie parole ai lettori italiani». Mi ha scritto una dedica sul libro: alla mia compañera
de camino, la mia compagna di strada. Da allora davvero ha sempre fatto in modo che lo accompagnassi, ogni volta che veniva in Italia, poi sono stata sua ospite in Spagna. Mi sono sentita parte della banda di Sepúlveda.
Per finire un gioco: Lucho amava gli animali, a quale animale vorreste essere associate? Che animale sareste in una fiaba di Sepúlveda? E chi sarebbe Lucho? CARMEN YÁÑEZ— Forse sarei una tartaruga, è il mio animale preferito perché si prende il tempo di guardarsi attorno, è una grande osservatrice.
ILIDE CARMIGNANI — Sarei una gatta, mi sento affine, anche per questo sono scivolata facilmente nel romanzo dentro il personaggio di Diderot. Quando abbiamo festeggiato i 70 anni di Lucho a Milano, la casa editrice ha realizzato una specie di video-ricordo, una sorpresa. Tutti gli amici hanno registrato un augurio e la mia frase era: “Auguri a Lucho che è un gattone nero, grande e grosso”. È così che l’ho sempre visto. Lucho come Zorba, il gatto che nella fiaba insegna alla gabbianella a volare? CARMEN YÁÑEZ e ILIDE CARMIGNANI — (insieme)
Certo, Zorba è Lucho, non ci sono dubbi. Si assomigliano anche fisicamente.