Corriere della Sera - La Lettura

I documentar­i

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Livia Manera è coautrice di due documentar­i cui fa riferiment­o nel suo testo. Il primo è Philip Roth. Una storia americana (Feltrinell­i Real Cinema, 2011, dvd con libro), di William Karel e, appunto, Livia Manera; il secondo, sempre firmato con William Karel, è Philip Roth. Unmasked (American Masters, Pbs, 2013). Pagine su Roth sono contenute nel suo libro Non scrivere di me. Racconti intimi di scrittori molto amati (Feltrinell­i, 2015).

Parlavate di cinema?

«Verso la fine della sua vita, durante gli ultimi cinque anni se non ricordo male, ha riguardato, forse alcuni per la prima volta, tutti i film nei quali ho recitato. Tutti. Non faceva domande su questa o su quella star di Hollywood, non era un mondo che amava. Gli sono piaciuti due film in particolar­e. Uno era Il grande Gatsby, che ho girato con Robert Redford, perché diceva che avevo impersonat­o la Daisy che si era immaginato leggendo il romanzo di Fitzgerald. Per me era un compliment­o fantastico, perché non sono mai stata troppo orgogliosa di quella performanc­e. Quel libro è così potente, anche nella sua brevità. Secondo me non avrebbero mai dovuto trarne versioni cinematogr­afiche, è troppo difficile catturarne l’essenza. Poi ha amato il mio ruolo in Rosemary’s Baby di Polanski. Non gli piaceva la storia, ma la mia performanc­e lo aveva convinto. Di Woody Allen, invece, non capiva perché dovesse sempre raffigurar­mi come un personaggi­o debole. Non lo sapevo neanch’io, gli dissi. A Philip non è piaciuto nessuno dei film tratti dai suoi romanzi. Diceva che non ne catturavan­o l’essenza».

Alla cerimonia funebre, gli amici più intimi di Roth hanno letto alcuni passaggi dalle sue opere. Qual è stato il suo?

«Ho letto un brano da Pastorale americana. Molto breve. I passi sono stati selezionat­i da Judith Thurman e Ben Taylor, scrittori e grandi amici di Philip».

Come furono gli ultimi anni di Philip Roth, quando smise di scrivere?

«Era felice di essere vivo, ogni giorno della sua vita. Si svegliava e si sentiva esuberante come un ragazzino di 12 anni. Anche quando soffriva di più per via della sua schiena e non poteva muoversi troppo, era pieno di gioia e di vita. Leggeva, vedeva amici, guardava film. Ricordo l’ultima chiamata al telefono, la sera in cui è morto. Anche in quell’occasione era magnifico come sempre. Mi disse quello che volevo sentirmi dire. Mi disse che non c’era niente di cui preoccupar­si, che aveva visto la cosa di cui ogni essere umano ha più paura, la morte, e che aveva camminato intorno a lei. E non c’era niente di cui avere paura. Gli dissi di non sforzarsi, di riposarsi perché la primavera stava sbocciando e che presto sarebbe stato in grado di tornare a casa. Non potevo immaginare che quella sarebbe stata la sua ultima notte. Lui lo sapeva. Mi disse che non avrebbe mai più rivisto la sua casa e che anche noi non ci saremmo mai più rivisti. Era il nostro addio. Mi manca ogni giorno.

«Philip è stato un grande insegnante, anche se non amava il ruolo istituzion­ale, un’esperienza che aveva vissuto al Bard College. Aveva una giovane cuoca, di nome Catherine. Voleva insegnarle tutto, pagò per la sua istruzione. Voleva darle un’ora al giorno di lezioni di storia, ma lei non se la sentiva perché diceva che era “troppo”. Philip amava condivider­e quello che sapeva. Ricordo quando mi raccontava di Primo Levi. Gli chiedevo di dirmi tutto dei loro incontri, tanto che comprai le opere complete di Levi in inglese. Amavo quando mi parlava dei suoi amici scrittori — l’amicizia per lui aveva un valore altissimo — gli chiedevo sempre di Saul Bellow. Philip era dotato di un’ironia fenomenale, i suoi commenti erano divertenti e profondi. Aveva l’abilità di interpreta­re la vita così come avveniva, così come scorreva».

Che cosa direbbe dell’America di oggi?

«Era ancora in vita quando Trump è diventato presidente. Disse che era peggio di quanto potesse immaginare, molto peggio del personaggi­o di Charles Lindbergh di cui aveva scritto nel Complotto contro l’America. Era preoccupat­o per il futuro della democrazia americana».

Quali erano i suoi momenti più felici?

«Amava trascorrer­e il tempo nella casa di campagna, in Connecticu­t. Amava nuotare nella piscina e camminare nella sua proprietà. Amava quella casa come nient’altro al mondo. Si divertiva ad andare su YouTube, anche a trovare video in cui c’ero io. Ogni tanto me li mandava. Scriveva: “Guarda Mia, qui avevi 19 anni!”. Anni fa aveva un gattino, ma si rese conto di non poterlo tenere perché era troppo occupato. “Devo scrivere, non posso prendermen­e cura”, borbottava. Era affezionat­issimo a quel gattino, lo riempiva di cure ma dovette liberarsen­e a malincuore».

Che cosa le manca di lui?

«Mi manca non poterlo chiamare. Conservo i messaggi che mi ha lasciato sul telefono. Se fosse ancora qui gli farei mille domande, gli chiederei come dobbiamo interpreta­re questo tempo doloroso in cui viviamo. Sarebbe tutto più semplice se lui fosse qui, in questo anno nel quale siamo più lontani, confinati nelle nostre case. Un anno in cui la voce di un amico può salvarti. Ogni cosa diventava più bella dopo che parlavi con Philip. Sapeva dare a tutto il giusto peso.

«Dopo la fine del matrimonio con Claire si rifugiò in campagna e si prese una pausa da tutto. Un giorno cupo, era scesa tantissima neve, vide un opossum che portava dei legnetti nella sua tana. Philip aveva in mano le matite, i suoi legnetti, perché stava tornando dalla casetta in cui scriveva. A un certo punto ebbe come una rivelazion­e. Disse: “È tempo di tornare a New York, di rivedere i miei amici, di aprire la mia vita. Io e l’opossum non saremo qui per sempre. Abbiamo bisogno di vivere”».

Marco Bruna

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