Corriere della Sera - La Lettura
RothcontroRoth Sonochinon fingo di essere
Eccole dunque, e del romanziere più ammirato e contestato del Novecento statunitense: un genio che ama, odia, ferisce, lotta con sé stesso, soffre, sbaglia, egoista e manipolatore, dolce e generoso, solo, depresso, vulnerabile, addolorato...
gliaia di appunti scritti per l’occasione, dovrà restituire tutti i file. Solo allora, Golier e Wylie, in base alle ultime volontà dello scrittore, decideranno cosa eliminare e cosa no.
Intanto, prima ancora di uscire, la biografia di Bailey ha scatenato un acceso dibattito internazionale, con accuse dirette sia al biografo che allo stesso Roth. Il «Times» di Londra: «MeToo pronto ad archiviare Roth». Il «New Republic»: «La fantasia di vendetta di Roth. Voleva regolarci i conti, gli si è ritorta contro malamente». Il «New York Times»: «Bailey riduce Roth a un playboy rancoroso». Parul Sehgal, critica letteraria del quotidiano, ricorda come Roth avesse raccomandato a Miller di non scrivere una «storia del mio pene», ché la biografia del più grande autore americano vivente doveva essere incentrata sui suoi libri, non sul gossip. Bailey, invece, dice, ha fatto proprio quello, un po’ come lo psichiatra di Tarnopol ne La mia vita di uomo («Perché insisti a dipingermi come uno stupratore fallito senza cuore?», 1974; Bompiani, 1975).
Se l’eterno riposo di Roth si prospetta tranquillo, visto che nell’idiosincrasia moderna anche la cancel culture trova velocemente altri bersagli, vale la pena considerare queste critiche. Come Sehgal, anche David Remnick, sul «New Yorker», sottolinea la «svista» di Bailey di sorvolare soltanto sulle opere di Roth, ma ne loda la perizia nel restituirci un Roth totale, dal puro al perverso, senza celare nulla. Un po’ come, dice, vent’anni dopo l’Olocausto aveva fatto Roth raccontando gli ebrei in ogni loro aspetto e senza ipocrisie di santità, e offendendo moltissimi. La realtà, insomma, è molto più complessa e interessante di un biografo «miope» che con «devozione filiale» prende su di sé il compito di impallinare le mogli brutte e cattive di Roth come neanche lui stesso aveva fatto, e come Bailey è accusato. In questo senso, se Roth avrebbe probabilmente storto il naso alla canea intorno alla biografia, avrebbe anche lodato lo sforzo del biografo, compreso il rifiuto di piegarsi ai suoi desiderata per raccontarlo a tutto tondo. Perché Bailey non ha fatto altro che applicare a Roth il suo stesso manifesto, «Fai entrare il ripugnante», per restituirci un Roth contro Roth contro Roth contro Roth.
Eccolo, allora, il Roth di Bailey. Un genio che ama, odia, ferisce, lotta con sé stesso, soffre, sbaglia («Sono chi non fingo di essere», dirà). Un uomo a volte egoista, manipolatore, crudele, ma anche dolce e generoso, sinceramente interessato agli altri — siano la colf Estele Solano, cui regalò 70 mila dollari affinché potesse comprarsi un appartamento nel Queens, o il collega Milan Kundera, per far pubblicare negli Stati Uniti l’opera del quale, come di altri autori dell’Europa dell’Est, Roth si adoperò moltissimo. E poi solissimo, depresso, vulnerabile. Oppresso dal senso di mortalità aggravato dal dolore fisico. La cardiopatia coronarica a 49 anni, il quintuplo bypass a 56.
Ma, come osserva Bailey, «si torna sempre alle donne». E allora Bess, madre adorante e soffocante («Colui che è amato dai genitori è un conquistatore», soleva dire Roth), la masturbazione compulsiva, la prima moglie Maggie, con il padre alcolizzato e l’ex marito violento. Roth crede che tutto quel caos di lei potrà fornirgli materiale per i libri. E così sarà, ma a quale prezzo. Un giorno, sulle colline di Siena, Maggie afferra il volante dell’auto in cui viaggiano: «Ci uccido entrambi», esclama. Roth inizia a sognare di accoltellarla. E poi Claire Bloom, le avance all’amica della figliastra («Che ragione c’è di avere una bella ragazza per casa, se non te la scopi?», sosterrà lei che lui le avrebbe detto il giorno dopo, invece di scusarsi), quel memoir rovinoso. «Philip aveva un desiderio insaziabile di vendetta», raccontava l’amico Ben Taylor in Here We Are: My Friendship with Philip Roth, testo sollecitato da Roth stesso («Ci siamo divertiti tanto. Perché non scrivi un libro sulla nostra amicizia?»).
Mia Farrow, Jackie Kennedy, Alice Denham (Miss Luglio 1956 di «Playboy»), la fisioterapista norvegese «Inga», con cui Roth ebbe una storia ventennale parallela al rapporto con Bloom. «Dio, quanto sono affezionato all’adulterio», dice e fa dire a Mickey Sabbath. E quando una storia finisce, ecco il momento di farne narrativa. Così «Inga» è Drenka ne Il teatro di Sabbath (1995; Mondadori, 1996), Maggie è Lucy, è Josie, è dappertutto. Roth non le perdonerà mai di averlo ingannato con una gravidanza che non c’era, ne fa irridere a Zuckerman la vagina «secca e scolorita». Farà narrativa anche delle proteste femministe per il trattamento delle donne nei suoi libri. Nel 2018, per l’ultima intervista, rilasciata al «New York Times», Charles McGrath gli chiede di commentare il #MeToo. Roth va in crisi. «Aiutami», implora l’amico Bernard Avishai. Il risultato è lucido: «Ascolto il lamento delle donne offese e provo soltanto empatia per il loro bisogno di giustizia. Ma mi preoccupa anche la natura del tribunale chiamato a giudicare queste accuse. Mi preoccupa perché non sembra esserci affatto un tribunale».