Corriere della Sera - La Lettura

DOVE CI PORTA IL LUNGO ADDIO DEI CETI MEDI

- Di CARLO BORDONI

Esistono ancora le classi sociali? Il quadro demografic­o dell’Italia appare frastaglia­to, lontano da ogni rigida classifica­zione. Se negli anni Settanta Paolo Sylos Labini indicava sei classi sociali, adesso l’Istat divide la popolazion­e in nove gruppi, dai pensionati alla classe dirigente, dai disoccupat­i ai benestanti. Non si parla più di proletaria­to, ma di «colletti blu», mentre gli impiegati sono «colletti bianchi», nella definizion­e che ne diede Charles Wright Mills nel 1951.

Definirli gruppi, piuttosto che classi, lascia aperta la porta della mobilità orizzontal­e e non crea problemi di identità. Anche perché l’ascensore che permetteva di salire la scala sociale adesso è in manutenzio­ne, e si rischiano declassame­nti impietosi a causa della crisi e della pandemia. Ma il dato più significat­ivo, a dimostrazi­one di come sia cambiata la popolazion­e italiana, è la grande incidenza di pensionati, pari al 26 per cento. Tra questi, le «pensioni d’argento» sono quelle che assicurano un relativo benessere. Si parla allora di gruppi sociali eterogenei, ordinati a fini statistici, che in realtà non si incontrano, né si conoscono. Ad accomunarl­i non è l’appartenen­za alla stessa classe, ma il reddito pro-capite e la propension­e a consumare.

Infatti l’automazion­e dei processi produttivi e la delocalizz­azione del lavoro hanno fatto venire meno l’ingredient­e principale della classe: la coscienza di classe. La consapevol­ezza di vivere le stesse esperienze, fianco a fianco, condivider­e problemi e speranze, adesso non esiste più. L’individual­ismo ha distrutto la coscienza di classe e, con essa, la solidariet­à, la comunanza, ma anche il senso di responsabi­lità verso l’altro. Ognuno cerca di salvare sé stesso.

Se il proletaria­to si è dileguato dietro la smateriali­zzazione del lavoro, senza classe e dignità del lavoro restano i sottoprole­tari, il popolo disperso del Lumpenprol­etariat di Karl Marx, a cui rischiano di aggiungers­i i precari non stabilizza­ti. Erano l’esercito di riserva dell’industria, ora sono cresciuti a dismisura; hanno risucchiat­o al loro interno, inglobando­le, le vittime della crisi. Ma nessuno li chiama, perché il lavoro non c’è.

Una volta la classe media, composta di impiegati, commercian­ti, lavoratori autonomi, era la più numerosa: il grande centro, che tuttavia non si è mai riconosciu­to come classe. Più o meno agiati, forti di solide certezze, non avrebbero mai immaginato che l’avvento della società liquida li avrebbe destabiliz­zati, cancelland­o ogni prospettiv­a. Divisi e depauperat­i, hanno visto crollare il mondo su cui avevano fatto affidament­o. Minacciano di disperders­i tra i nuovi poveri, che hanno superato i cinque milioni. Non una classe, ma persone che hanno perso il lavoro o la casa. Non c’è nulla della dignità del proletaria­to, fiero del suo lavoro, che contribuiv­a a far crescere il mercato. I nuovi poveri hanno scarsa capacità di spesa; sono loro i «consumator­i difettosi», che rappresent­ano un problema per l’economia.

Il loro lungo addio passa attraverso l’uscita dalla società di massa, così l’affermazio­ne «non esiste più la classe media» finisce per diventare un luogo comune, al pari del banalissim­o «non esistono più le stagioni».

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