Corriere della Sera - La Lettura
«Solo il conflitto proteggerà i lavoratori»
Lidia Undiemi, consulente nelle vertenze: i sindacati e la sinistra tornino a combattere, l’ultima spiaggia sono i tribunali
«La lotta di classe non è mai cessata, ma in tutta Europa è avvenuta una rimozione ideologica della conflittualità tra capitale e lavoro. La sinistra, a partire da Tony Blair, ha abbracciato la cosiddetta “terza via”, sostituendo alla lotta di classe la “pace sociale”. Guarda caso però tutte le volte in cui, specie nelle crisi economiche, la politica ha invocato un superiore interesse della nazione, a farne le spese sono stati i lavoratori».
Sono le premesse da cui muove Lidia Undiemi (1978), dottorato di ricerca in Diritto dell’economia, consulente in vertenze di lavoro, in passato alla guida del sottodipartimento Esternalizzazioni e outsourcing dell’Italia dei valori. Ha anche contribuito al programma del Movimento 5 Stelle sul Meccanismo europeo di stabilità (Mes), rompendo poi proprio su questo tema. Di recente ha pubblicato La lotta di classe nel XXI secolo (Ponte alle Grazie), volume dalle posizioni radicali in cui parte dalla Rivoluzione francese fino ad arrivare alle diseguaglianze di oggi, proponendo un «manifesto» finale per «rilanciare il ritorno alla lotta di classe liberandola dall’inganno della terza via».
Lei sostiene che la lotta di classe non si sia spenta: chi si fronteggia oggi?
«Un’aspra conflittualità si vede nelle aule dei tribunali. Io mi occupo soprattutto di vertenze contro l’esternalizzazione di rami di attività e dipendenti ad altre società da parte di grandi aziende, ad esempio del mondo delle telecomunicazioni o metalmeccaniche, o da parte delle banche. Oggi la tecnologia consente di digitalizzare e standardizzare funzioni che un tempo richiedevano certe qualifiche e, appunto, di esternalizzarle. Non solo in Italia, l’espansione dell’outsourcing è impressionante. Spesso accade anche che una grande azienda crei un gruppo fatto da una società controllante e altre satellite, finendo per cedere a queste ultime rami di attività: uno scambio solo apparente. Nel libro propongo un’apposita teoria, che chiamo “Teoria dell’economia apparente a contraente unico”».
Che cosa chiedono i lavoratori?
«I lavoratori fanno causa perché vogliono restare nella grande azienda: quando vanno in quella di outsourcing rischiano di perdere l’occupazione stabile, di non avere un contratto alle precedenti condizioni. Di recente abbiamo vinto in primo grado una causa contro Fastweb: nel 2012, nell’ambito dell’esternalizzazione del servizio di assistenza clienti, aveva ceduto un gruppo di dipendenti, le cui condizioni di lavoro, nella nuova società, sono peggiorate, con lo stipendio diminuito. L’outsourcing, con le conseguenti riduzioni del potere contrattuale dei lavoratori e il crollo dei salari, rappresenta la più grande macchina di diseguaglianza sociale. E le aule di tribunale, data la minore conflittualità sul piano sindacale, sono l’ultima spiaggia».
Che cosa è successo al sindacato?
«Non avrebbe dovuto normalizzarsi, sposare altri temi politici. Deve avere un solo scopo: fare sì che la ricchezza prodotta sia più equamente redistribuita. Serve tornare alla conflittualità. Sinistra e sindacato hanno sottovalutato l’impatto della globalizzazione e della tecnologia».
Un paragrafo del libro, che lei dichiara volutamente provocatorio, s’intitola «Ripensare la violenza e il paradosso della “pace sociale”»: che cosa intende?
«Il mio invito è tornare alla conflittualità sancita dalla Costituzione. L’articolo 40 riconosce il diritto di sciopero: una parte debole, il lavoratore, ha bisogno di organizzarsi collettivamente e usare la protesta per controbilanciare il capitale. La storia mostra invece, ecco il paradosso, che la “pace sociale” a fondamento
del neoliberismo non di rado è stata imposta con la violenza, a partire dall’attacco del governo Thatcher ai minatori».
Lei scrive che «nello scenario politico il problema non è più come assicurare ai lavoratori un certo livello di benessere, ma come garantire loro un reddito minimo per la sopravvivenza». Cosa pensa del reddito di cittadinanza?
«Se si aiuta chi non ce la fa, come essere contrari? Se però, dal punto di vista pratico, è una risposta alla questione “Non sappiamo darti un lavoro”, è solo assistenzialismo. Un altro tema è il salario minimo: è pericoloso se lo fissa la politica, deve farlo la contrattazione sindacale. Un problema reale è la diffusione, che va contrastata, dei cosiddetti contratti pirata, ovvero sottoscritti da sindacati minori che fissano un salario al ribasso».
È assai critica con l’Unione Europea.
«La governance, soprattutto dopo la crisi del 2007-08, è stata una serie di strumenti che hanno addossato il costo alle masse. Si poteva rafforzare l’Ue con il ruolo centrale della Bce, ma l’asse franco-tedesco nel 2011 ha puntato su uno strumento parallelo, il Mes, la cui matrice classista si è vista nei confronti della Grecia. A combattere il Mes alla fine è stato Mario Draghi, da quando nel 2012, nell’ambito della crisi del debito sovrano europeo, disse che la Bce, che allora guidava, era “pronta a fare tutto per salvare l’euro. E credetemi sarà abbastanza”».
Sul Mes lei ha detto che si è sentita usata dal Movimento 5 Stelle.
«Contribuii al programma sullo smantellamento del Mes. Poi i Cinque stelle hanno votato la risoluzione a favore della riforma (che non ha a che vedere con la decisione di chiedere o meno i fondi per la sanità, tradendo gli elettori». ndr),
Propone di rafforzare gli Stati nazionali. Un ritorno al passato?
«Se nel futuro ci sono questa globalizzazione e multinazionali sfuggite al controllo politico, le disuguaglianze non si fermeranno. Parlo di Stati nazionali perché solo le loro Costituzioni ora consentono di garantire i diritti dei lavoratori. Poi, certo, gli Stati devono collaborare. Ma va riformato il concetto di comunità internazionale. L’Ue ad esempio ha un’impronta di mercato. Va detto: gli unici interventi per arginare le multinazionali li sta facendo la Commissione europea, ma così non ce la farà. L’Ue andrebbe rifondata su un altro sistema di valori».
Lei parla di America Latina e Cina come «laboratori di un’era post-neoliberista». Paesi fortemente in crisi o con deficit democratici gravi.
«È vero, ma in modo diverso ci sono tensioni che potrebbero portare cambiamenti. In Cina si scontrano due estremi antitetici e per me negativi: eccezionalismo comunista e apertura al capitalismo globalista. In America Latina la sinistra mette in discussione il neoliberismo e il popolo protesta, a costo di repressioni violente come quella in Cile nel 2019».